Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5832 del 03/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 03/03/2021, (ud. 19/01/2021, dep. 03/03/2021), n.5832

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4695/2018 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

N. 17/A, presso lo studio dell’avvocato IVANA CLEMENTE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANCARLO ROSSATO;

– ricorrente –

contro

L.A., L.S., nella qualità di eredi di

C.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NOMENTANA, 295,

presso lo studio dell’avvocato VINCENZO PENTELLA, rappresentati e

difesi dagli avvocati LUIGI RUSSO, MICHELE CASALINI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 272/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 29/08/2017 R.G.N. 1211/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/01/2021 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza 272/17, in parziale accoglimento dell’appello proposto da C.G., in parziale riforma della sentenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Rovigo, ha dichiarato “prescritto il diritto dell’appellante nei dieci anni anteriori alla notificazione della domanda riconvenzionale nella causa n. 1629/2010 promossa dinanzi alla Sezione Agraria Specializzata del Tribunale di Rovigo e rigettato nel resto la domanda proposta in primo grado.

2. C.G. aveva convenuto in giudizio L.A. e S., eredi della sorella C.F., per chiedere l’accertamento della sua posizione di compartecipe nella comunione tacita familiare costituita con il padre, C.S., e per la liquidazione della propria quota.

La domanda di compartecipazione alla comunione tacita familiare era riferita al periodo dal 1968 al 1995 con il padre dell’appellante e al periodo successivo (fino al 2009) con la madre.

La richiesta di liquidazione era rivolta ad ottenere il 50% degli utili e incrementi aziendali del fondo rustico intestato originariamente a C.S., che l’appellante sosteneva essere stato acquistato mediante provvista costituita dagli utili aziendali.

3. Il Giudice di primo grado aveva accolto l’eccezione di prescrizione decennale, rilevando che la domanda era stata proposta il 31 dicembre 2010 e che rispetto a tale data si era compiuto da oltre un decennio l’ultimo atto del ricorrente come compartecipe.

4. La Corte di appello, accogliendo in parte le censure dell’appellante, ha premesso che il credito risultava parametrato alla complessiva durata della comunione, ossia dal 1968 fino all’epoca della notificazione della domanda di accertamento e liquidazione della quota della comunione tacita familiare, per cui il diritto “potrebbe essere astrattamente riconosciuto per i dieci anni antecedenti la notificazione della riconvenzionale” (domanda depositata il 31 dicembre 2010). Ha però ritenuto che la domanda non potesse trovare accoglimento, in quanto:

a) l’appellante ha dedotto di avere lavorato in regime di comunione tacita familiare con il padre e di non avere mai avuto in godimento in proprio, a titolo di affittuario, i 20 ettari di cui al contratto di affittanza stipulato con il padre;

b) tuttavia, i capitoli di prova indicati nel ricorso in riassunzione (a seguito della dichiarazione di incompetenza della Sezione Specializzata Agraria de Tribunale di Rovigo) non consentono di ritenere integrati i presupposti per il riconoscimento della fattispecie della comunione tacita familiare, quali indicati da Cass. n. 7981 del 2013;

c) il ricorrente si è limitato a dedurre l’esistenza del proprio apporto lavorativo relativo all’attività sul fondo in via esclusiva su delega del padre e pure l’esistenza di un unico conto corrente nel quale confluivano le rendite del fondo quale provvista per le esigenze familiari, ma le deduzioni sono generiche: non viene data specifica descrizione degli oneri sostenuti, nè viene dedotta l’esistenza di un unico peculio, nè viene spiegato quali apporti vi siano confluiti, a quali soggetti gli stessi siano riferibili, per quale ragione detti apporti siano confluiti sul conto corrente intestato a uno dei due soggetti compartecipi; nulla viene esposto quanto alla madre, nè alla condizione lavorativa dei figli, pur a fronte di un lungo lasso di tempo che connota la vicenda. Analoghe considerazioni vanno svolte quanto al pagamento di un mutuo relativo al fondo mediante pagamento sul conto cointestato;

d) generico è altresì il riferimento alla comunanza di tetto e di mensa, limitandosi la capitolazione a richiamare la definizione giurisprudenziale, senza circostanziare il caso concreto;

e) del tutto inconferenti sono poi i capitoli descrittivi dell’impegno lavorativo sul fondo e relativi all’elargizione di “qualche somma di denaro” da parte del padre, nonchè all’avvenuto pagamento del compenso del notaio e delle tasse di successione;

f) manca infine qualsiasi riferimento alle consuetudini e agli usi per la configurazione della impresa tacita familiare, a mente dell’art. 2140 c.c., abrogato.

5. Per la cassazione di tale sentenza C.G. propone ricorso affidato a tre motivi Resistono con controricorso gli eredi C.F., che sollevano altresì eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività contestando l’assunto di parte ricorrente secondo cui il termine di impugnazione dovrebbe decorrere dalla notifica della sentenza di appello eseguita a messo p.e.c. in data 6.12.2017, rispetto alla quale risulterebbe tempestiva la notifica del ricorso del 2.2.2018, ai sensi degli artt. 325 e 326 c.p.c., dovendosi al contrario far decorrere il termine breve dalla precedente notifica della sentenza effettuata presso la Cancelleria della Corte di appello di Venezia in data 2.11.2017.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, si denuncia nullità della sentenza per contraddittorietà tra dispositivo e motivazione circa la statuizione relativa alla prescrizione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). Nel dispositivo la sentenza ha dichiarato la prescrizione del diritto nei dieci anni anteriori alla notificazione della domanda riconvenzionale nella causa n. 1629/2010 promossa dinanzi alla Sezione Agraria Specializzata del Tribunale di Rovigo, mentre nella motivazione ha affermato che il diritto avrebbe potuto essere astrattamente riconosciuto nello stesso periodo, ossia nei dieci anni anteriori a tale notifica.

2. Anche il secondo motivo verte sulla stessa questione, sotto il profilo processuale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per essere la sentenza affetta da nullità ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., non essendo dato cogliere in quali termini la sentenza abbia statuito sulla prescrizione.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Si deduce che la comunione tacita familiare prevista dall’art. 2140 c.c., abrogato della L. n. 151 del 1975, art. 205, sulla riforma del diritto di famiglia, sorge per facta concludentia e altrettanto spontaneamente cessa. La disposizione di cui all’art. 230-bis c.c., u.c., assoggetta la comunione tacita familiare nell’esercizio dell’agricoltura alla disciplina dell’impresa familiare e agli usi con essa compatibili, ma la norma non ha efficacia retroattiva per i rapporti che siano svolti ed integralmente esauriti nel vigore della precedente normativa. Tuttavia, nel caso in esame, il rapporto si è esaurito nel 2009 (al momento della morte della madre del ricorrente) sotto la vigenza del nuovo art. 230-bis c.c. e di conseguenza è da esso disciplinato. Non ha quindi fondamento l’affermazione della Corte di appello per cui l’appellante avrebbe dovuto fare riferimento a consuetudini e usi, dovendo trovare applicazione la disciplina relativa al nuovo istituto della impresa familiare. Lamenta che erroneamente era stata ritenuta generica la capitolazione della prova testimoniale.

4. Preliminarmente, ritiene il Collegio che ricorrano i presupposti per fare applicazione del principio della c.d. ragione più liquida, che consente di pervenire alla declaratoria di inammissibilità per le ragioni che verranno di seguito esposte, pretermettendo la disamina della questione di inammissibilità per tardività, implicante verifiche documentali.

Questa Corte ha più volte affermato che, in applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., deve ritenersi consentito al giudice di esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale (Cass. S.U. n. 9936 del 2014). Il principio della “ragione più liquida”, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico-sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione – anche se logicamente subordinata – senza che sia necessario esaminare previamente le altre (Cass. n. 12002 del 2014).

5. Tanto premesso, è fondata l’eccezione formulata da parte resistente con riguardo al terzo motivo per avere il ricorrente inammissibilmente introdotto una modifica della propria domanda, pretendendo l’applicazione di un istituto diverso da quello della comunione tacita familiare sul quale aveva fondato le proprie originarie pretese.

6. Come risulta dalla sentenza impugnata, il giudizio ha avuto ad oggetto, sin dall’origine, unicamente la pretesa del ricorrente di ottenere quanto spettante a titolo di quota della comunione tacita familiare, credito che risultava parametrato alla complessiva durata della comunione, dal 1968 al 2009.

I giudici di appello hanno ritenuto la genericità delle allegazioni e dei capitoli di prova circa l’apporto dei singoli compartecipi alla comunione, come pure del requisito della comunanza di tetto e di mensa, limitandosi la capitolazione della prova a richiamare principi giurisprudenziali privi di riferimento concreto alla fattispecie e mancando qualsivoglia riferimento alle consuetudini e agli usi per la configurazione della comunione tacita familiare, a mente dell’art. 2140 c.c., abrogato.

7. Il terzo motivo sì incentra sul presunto errore di diritto commesso dalla Corte di appello per non avere considerato che la fattispecie concreta si era sviluppata nel tempo ed era proseguita ben oltre la riforma di cui alla L. n. 151 del 1975, per cui il giudice di merito avrebbe dovuto riqualificare i fatti dedotti onde ricondurli alla nuova figura dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c..

8. Il motivo è inammissibile sotto più profili.

9. La sentenza muove dall’espressa considerazione che la domanda era incentrata unicamente sull’applicazione della disciplina di cui all’art. 2140 c.c., a sua volta sorretta dall’implicita considerazione per cui l’art. 230-bis c.c. – introdotto con l’art. 89 della legge, di riforma del diritto di famiglia, n. 151 del 19 maggio 1975, che ha contemporaneamente abrogato la norma di cui all’art. 2140 c.c., nella sua stesura originaria – non potesse essere applicato nella specie per il principio d’irretroattività enunciato dall’art. 11 preleggi (cfr. Cass. 7981 del 2013). Facendo dunque applicazione del citato art. 2140 c.c., diretto a regolare la fattispecie, ha ritenuto del tutto carenti le allegazioni circa gli elementi costitutivi della comunione tacita familiare nell’esercizio dell’agricoltura che, nei suoi elementi essenziali, desumibili dalla stessa formula legislativa, si definisce come il consorzio che tacitamente si instaura tra membri della stessa famiglia allo scopo dell’esercizio in comunione di un’attività agricola, e quindi in comunione di lavoro e interessi, eventualmente anche di tetto e di mensa, normalmente senza obbligo di rendiconto. Ha altresì ritenuto che ogni altro particolare profilo dei rapporti che si instaurano tra i membri di tale consorzio, sia in ordine alla sua costituzione che in ordine al suo sviluppo e al suo scioglimento, trovasse integrale regolamentazione negli usi, evidenziando l’assenza di allegazioni specifiche anche su elementi fondamentali vertenti sulla comunanza di vita, di lavoro e di interessi.

10.A fronte di tale ratio decidendi, il ricorso – che non contiene alcuna censura specificamente relativa alla sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di cui all’art. 2140 c.c., abrogato – imputa alla Corte di appello una presunta mancata riqualificazione (d’ufficio) della domanda in termini di impresa familiare ex art. 230-bis c.c.. La tesi è destituita di fondamento.

11. Secondo giurisprudenza costante, costituisce domanda nuova, come tale improponibile, la deduzione nel corso del giudizio di un ulteriore tema di indagine e di decisione che alteri l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia. Giova ricordare che, l’applicazione del principio Tura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, comporta la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extra-petizione, di cui all’art. 112 c.p.c., in applicazione del quale è invece precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato; resta, in particolare, preclusa al giudice la decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa (Cass. n. 12943 del 2012, v. pure Cass. n. 8645 del 2018, n. 30607 del 2018, n. 11103 del 2020).

12. Alla stregua di quanto esposto, deve concludersi che la riqualificazione volta a conseguire, in rapporto alla quantità e qualità del lavoro prestato, i diritti nascenti dall’impresa familiare ex art. 230-bis c.c., ancora dovuti al momento della cessazione del rapporto di collaborazione, costituisce mutatio libelli. Non si verte in mera riqualificazione giuridica di fatti allegati, ma di un inammissibile mutamento di domanda.

13. L’inammissibilità del terzo motivo, con conseguente passaggio in giudicato della statuizione di rigetto della domanda, rende privo di interesse esaminare la questione preliminare di merito relativa alla prescrizione, oggetto dei primi due motivi.

14. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

15. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (v. Cass. S.U. n. 23535 del 2019 e n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.250,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2021

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