Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5815 del 03/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 03/03/2021, (ud. 20/10/2020, dep. 03/03/2021), n.5815

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29279/2017 proposto da:

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALFREDO

FUSCO 113, presso lo studio dell’avvocato CARLO FERRUCCIO LA PORTA,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO

MENCONI;

– ricorrente –

contro

LUNEZIA ALIMENTARIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa degli

avvocati CARLO PELLI, ALBERTO ARPESELLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 429/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 06/10/2017 R.G.N. 589/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/10/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA.

 

Fatto

RILEVATO

che

1. P.G. ottenne decreto ingiuntivo nei confronti di Lunezia Alimentari s.r.l., ex datrice di lavoro, per il pagamento delle retribuzioni dei mesi di agosto e settembre 2013 e delle competenze di fine rapporto;

2. Lunezia Alimentari s.r.l. propose opposizione chiedendo compensarsi quanto dovuto al P. con il maggior credito risarcitorio vantato nei confronti del lavoratore e, in via riconvenzionale, la condanna di questi al risarcimento del danno quantificato in Euro 90.681, 31;

3. il giudice di prime cure condannò P.G. al pagamento a controparte, a titolo di risarcimento del danno, della somma di Euro 54.058,74, al netto dell’importo spettante al lavoratore per i crediti retributivi azionati in via monitoria;

4. la Corte di appello di Genova, pronunziando sull’appello principale del lavoratore e sull’appello incidentale della società, in parziale riforma della sentenza di primo grado, nel resto confermata, ha dato atto dell’integrale pagamento da parte della società dell’importo di cui al decreto ingiuntivo opposto;

4.1. per quel che ancora rileva, il giudice di appello ha confermato la sentenza di prime cure che aveva ritenuto provata la responsabilità del lavoratore, venditore/piazzista della società, in ordine alla sottrazione di notevole quantità di merce costituita da presunti “resi” ossia da merce fatta falsamente figurare come fornita ai clienti in sostituzione di prodotti restituiti e quantificato l’entità del danno sulla base di consulenza contabile d’ufficio;

5. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso P.G. sulla base di quattro motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380- bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 e 324 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per avere riconosciuto a carico di esso P. un debito risarcitorio pari a complessivi Euro 72.846,25 ritenendo che questi si fosse indebitamente appropriato di merce della società non solo nei giorni (OMISSIS) (vicenda che aveva dato luogo al licenziamento disciplinare del dipendente, confermato in via definitiva in sede giudiziale) ma in relazione all’intero periodo dedotto ((OMISSIS)); a sostegno di tale assunto invoca il giudicato formatosi nel giudizio avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento sulla insussistenza degli addebiti riferiti al periodo anteriore al 24 luglio 2013 e sulla inesistenza di disposizioni aziendali che consentivano ai piazzisti di ritirare presso i clienti finali solo i resi “tecnici”, vale a dire difettosi, di qualunque marca, e resi “freschi” delle sole marche (OMISSIS);

2. con il secondo motivo di ricorso deduce nullità della sentenza per error in procedendo scaturito dalla violazione dell’art. 112 c.p.c.; denunzia l’omessa pronunzia sulla eccezione di giudicato formulata sia in primo che in secondo grado in ordine all’assenza di disposizioni aziendali restrittive relative ai “resi” nel periodo antecedente all’agosto 2013;

3. con il terzo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione “in correlazione agli artt. 115,116 c.p.c. e art. 195 c.p.c., comma 3 e all’art. 2697 c.c., per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti”; censura la sentenza impugnata per avere, sia pure sulla base di un differente percorso motivazionale in ordine alla ricostruzione fattuale della vicenda, confermato il quantum liquidato a titolo risarcitorio determinato dal giudice di prime cure sulla base di consulenza tecnico – contabile che assume affetta da errore; sostiene, infatti, che l’importo calcolato scaturiva dalla considerazione non solo dei resi “non tecnici”, come corretto, ma di tutti i resi indistintamente riportati nelle fatture (OMISSIS) secondo quanto desumibile dalle premesse metodologiche enunciate dal consulente tecnico di ufficio; deduce, in particolare, che i resi tecnici evidenziati nella relazione peritale non avevano costituito oggetto di contestazioni da parte della società in sede di osservazioni ex art. 195 c.p.c., comma 3; censura, infine, la liquidazione del quantum per avere il consulente di ufficio ricostruito il pregiudizio sofferto dalla società sulla base del prezzo di vendita dei prodotti praticato ai clienti in quanto espressione di lucro cessante laddove sostiene – dalla documentazione offerta emergeva che la contestazione avversaria non aveva ad oggetto “prodotti buoni” ma unicamente resi e cioè merce non vendibile, in relazione alla quale non si giustificava pertanto il riconoscimento del “ricarico” rappresentato dal prezzo di vendita ai clienti;

4. con il quarto motivo di ricorso deduce violazione e /o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in correlazione con l’art. 2697 c.c. e con l’art. 116 c.p.c.; sostiene che anche a voler superare le censure formulate nei motivi precedenti e riconoscere la pregressa esistenza di disposizioni aziendali restrittive che consentivano ai piazzisti solo il ritiro di resi tecnici di qualunque marca e di resi freschi delle sole marche (OMISSIS), da tanto non poteva farsi scaturire la prova che tutti i resi astrattamente non restituibili fossero stati materialmente sottratti dal P., diversamente realizzandosi un’inammissibile praesumptum de praesumpto; l’appropriazione dei resi da parte del P. nel periodo (OMISSIS) poteva legittimamente presumersi solo in presenza di una effettiva mancata restituzione alla società dei prodotti in questione risultante all’esito di controllo materiale, e non a sua volta scaturire dagli episodi di appropriazione nei giorni del (OMISSIS) e tantomeno dalla dichiarazioni ammissive rese da altri due piazzisti o dalle differenze con la media dei resi del P. rispetto a quella (inferiore) degli altri venditori o del collega che lo sostituiva quando era assente;

5. il primo motivo di ricorso è infondato;

5.1. il giudice di appello ha in premessa precisato che la merce sottratta dal P. non riguardava i resi dei clienti “in scadenza” ma prodotti “buoni” che il venditore aveva fatto falsamente figurare come forniti in sostituzione dei resi, sostituzione mai avvenuta; ha osservato che il controllo incrociato tra le stampe parziali dei resi (consegnate al magazziniere, ndr) ed i resi, ben più numerosi, risultanti, invece, dalle fatture emesse a fine giornata, e, quindi, la prova diretta della sottrazione, era acquisita solo in relazione alle condotte del lavoratore tenute nei giorni (OMISSIS), poste a fondamento del recesso datoriale la cui legittimità era stata accertata in via definitiva in esito a rigetto del ricorso per cassazione proposto dal P. nel giudizio dallo stesso instaurato con l’impugnativa di licenziamento; ha ritenuto che correttamente il giudice di prime cure avesse affermato la responsabilità del P. per la sottrazione, anche in relazione al periodo precedente al (OMISSIS) sulla base delle seguenti considerazioni: a) l’accertamento che aveva portato alla contestazione disciplinare aveva riguardato anche altri due piazzisti i quali avevano ammesso l’addebito; b) i controlli della società avevano permesso di appurare che, a parità di fatturato, la media dei resi riferibili al P. era sempre stata più alta di quella degli altri venditori e quando il medesimo era assente e sostituito da altro collega i resi calavano in modo rilevante; c) i resi non risultanti dalla stampa parziale consegnata al magazziniere erano riportati nelle fatture prodotte la cui veridicità non era mai stata contestata dal ricorrente il quale, anzi, in sede di interpello aveva ammesso di essere lui stesso ad avere emesso le fatture e ad averle fatte firmare ai clienti; c) il fatto che il magazziniere A. si limitava a verificare la corrispondenza tra i resi materialmente consegnati nel magazzino e quelli risultanti dalla stampa parziale, senza svolgere alcun controllo sui dati contenuti nelle fatture che venivano portati direttamente all’ufficio contabilità; d) l’operatività in azienda della regola che consentiva il ritiro della merce invenduta e non difettata solo per i prodotti freschi a marchio (OMISSIS); e) l’emissione da parte del P. di fatture in favore di clienti risultati inesistenti, cessati o stagionali fuori dal periodo di attività, con assoluta sproporzione tra il valore della merce venduta ed il valore dei resi, di gran lunga superiore. Ha quindi osservato, disattendendo le specifiche censure a riguardo del P., che la responsabilità del lavoratore per le condotte di appropriazione dei resi riferite ai giorni dal (OMISSIS) costituiva accertamento coperto da giudicato; quanto alla contestazione relativa alla inesistenza di disposizione aziendali che, a far data dall’anno 2009, avrebbero inibito ai piazzisti di “ritirare” presso i clienti finali resi “non tecnici” di qualunque marca ad eccezione dei prodotti (OMISSIS), ha preliminarmente osservato che l’esatta individuazione del momento dell’entrata in vigore di tali disposizioni non incideva sulla qualificazione del comportamento addebitato al lavoratore e che comunque dalla prova orale era emersa la vigenza di tale disposizione in epoca ben antecedente all’agosto 2013; in merito al rilievo dato alla circostanza, pacifica e documentalmente provata, della emissione da parte del P. di fatture a clienti inesistenti o sconosciuti alla società, ha osservato che la emissione di tali fatture era stata pacificamente ammessa dal lavoratore e che per tale emissione non era necessaria la preventiva autorizzazione della società purchè il nuovo cliente pagasse in contanti; in dette fatture emergeva un rilevante squilibrio tra merce venduta e “resi”, a favore di questi ultimi ed inoltre esse erano state pagate tranne che per la parte di prodotto che era data come “resi”, ulteriormente evidenziando che era rimasta sfornita di prova l’allegazione del lavoratore circa il fatto che l’emissione delle dette fatture era frutto di direttive aziendali intese a determinare la creazione di una provvista di merce da rivendere “in nero”;

5.2. tanto premesso, la censura che investe l’accertamento, in contrasto con l’asserito giudicato formatosi sul punto nel procedimento di impugnativa del licenziamento, relativo all’epoca di adozione delle direttive aziendali più restrittive in tema di “resi”, risulta assorbita dalla considerazione che il giudice di appello ha, con affermazione non specificamente contrastata, ritenuto ininfluente, comunque, la verifica relativa all’epoca di vigenza delle richiamate disposizioni aziendali alla luce della qualificazione del comportamento addebitato al lavoratore ed in particolare della indicazione nella stampa parziale dei resi consegnata al magazzinieri di un numero di prodotti di molto inferiore a quelli indicati nella fattura consegnata alla contabilità (v. sentenza, pag. 9, penultimo capoverso);

5.3. quanto all’eccepito giudicato formatosi nel giudizio di impugnazione del licenziamento in ordine all’assenza di responsabilità del P. per le condotte antecedenti a quelle alla base del licenziamento, si osserva che tale eccezione muove dalla non corretta lettura della ordinanza della fase sommaria del giudizio di impugnazione del licenziamento promossa dal dipendente, ordinanza che si assume non investita da censure sul punto da parte della società; dall’esame diretto di tale ordinanza da parte del collegio, come consentito dall’evocazione del provvedimento in questione in termini coerenti con il principio di specificità e autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass. n. 23834/2019, n. 11738/2016), si evince, infatti, che il giudice della fase sommaria non ha svolto alcun accertamento positivo in ordine alle condotte del P. nel periodo anteriore al (OMISSIS), avendo ritenuto i fatti provati, “ossia l’appropriazione di merce sostitutiva dei resi falsamente indicati in fattura nelle giornate dal (OMISSIS)”, idonei a giustificare il recesso datoriale, ed in questa prospettiva espressamente dichiarato superflua l’indagine circa le ulteriori condotte appropriative contestate al ricorrente nel periodo precedente a quello oggetto di controllo (v. ordinanza della fase sommaria, pag. 8, riprodotta a pag. 17 del ricorso per cassazione);

5.4. tale dirimente rilievo assorbe gli ulteriori profili di inammissibilità del motivo relativi alla eccezione di giudicato, scaturenti dall’assenza di compiuta trascrizione degli atti di riferimento, indispensabili al fine della dimostrazione, sulla base del solo ricorso per cassazione, del vizio di attività in tesi ascritto al giudice di merito (Cass. Sez. Un. 1416/2004);

6. il secondo motivo di ricorso è infondato; sulla eccezione in relazione alla quale è denunziata omessa pronunzia vi è stato, infatti, rigetto implicito da parte della Corte di merito laddove questa ha mostrato di ritenere comunque ininfluente la verifica dell’epoca di adozione delle più restrittive disposizioni aziendali alla luce della qualificazione in termini appropriativi della condotta del dipendente;

7. il terzo motivo di ricorso è inammissibile;

7.1. il giudice di appello ha confermato l’accertamento di prime cure sia in ordine alla responsabilità del P. per le condotte appropriative sia in ordine al conseguente danno sofferto dalla società quale determinato dalla ctu di primo grado “condivisibilmente recepito dal primo giudice”;

7.2. tale accertamento non può più essere rimesso in discussione per la preclusione scaturente ex art. 348 ter c.p.c., comma 5, dalla esistenza di cd. doppia conforme; tanto assorbe il rilievo del difetto di specificità del ricorso per la ricostruzione parcellizzata della relazione peritale, inidonea a dare contezza, sulla base della sola lettura del ricorso per cassazione1 della fondatezza delle censure articolate, come, invece, prescritto (Cass. n. 12761/2004, Sez. Un. 2602/2003, n. 4743/2001);

8. il quarto motivo di ricorso è infondato;

8.1. l’accertamento che sorregge la decisione non scaturisce da un’impropria utilizzazione della praesumptio de praesumpto, ma è frutto della valutazione complessiva di una serie di elementi ai quali è stata riconosciuta una convergente valenza indiziaria nella ricostruzione come appropriativa della condotta del P. anche in relazione al periodo precedente ai fatti ritenuti giustificativi del recesso datoriale; tali elementi non si esauriscono nelle sole circostanze fattuali alle quali fa riferimento l’odierno ricorrente e appaiono complessivamente idonei a suffragare sotto il profilo logico probabilistico l’inferenza tratta dal giudice di appello in relazione all’intero periodo dedotto; nei limiti del controllo demandato al giudice di legittimità in tema di ragionamento presuntivo il motivo è, quindi, privo di pregio non emergendo la assoluta implausibilità o illogicità del ragionamento presuntivo alla base del decisum (tra le altre Cass. n. 101/2015, n. 8329/2009);

9. le spese di lite sono regolate secondo soccombenza;

10. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 23535/2019).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2021

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