Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5806 del 10/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 10/03/2010, (ud. 23/12/2009, dep. 10/03/2010), n.5806

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE REGINA

MARGHERITA 294, presso lo studio dell’avvocato VALLEFUOCO ANGELO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PERDONA’ GIAMPAOLO,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELL’ENTRATE – DIREZIONE REGIONALE DEL VENETO, – in

persona del Direttore pro tempore, domiciliati in ROMA, IN VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 892/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 02/02/2006 R.G.N. 178/05;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

23/12/2009 dal Consigliere Dott. AMOROSO Giovanni;

udito l’Avvocato GIUFFRIDA per delega VALLEFUOCO ANGELO;

udito l’Avvocato GERARDIS CRISTINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. In data 20 dicembre 1995 il g.u.p. presso il Tribunale di Verona disponeva il rinvio a giudizio di G.P. per il delitto previsto dagli artt. 56 e 317 c.p. (tentata concussione).

Nell’imputazione gli veniva contestato l’addebito di aver abusato della sua qualita’ di funzionario del Ministero delle Finanze in servizio presso gli uffici finanziari di Verona per aver compiuto “atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere C. C. a versargli una somma di denaro al fine di ottenere protezione fiscale: richiesta non accettata ed in seguito accompagnata da minacce”. Nello stesso provvedimento l’Autorita’ Giudiziaria individuava come persona offesa dal reato la sola sig.ra C., ragion per cui il provvedimento del rinvio a giudizio non veniva mai comunicato al Ministero, che, di conseguenza, non era posto nelle condizioni di costituirsi parte civile.

Il 9 marzo 1998, il giudizio penale si concludeva con la sentenza di patteggiamento n. 177/1998, dove si dava atto della riformulazione dei capi di imputazione e della pena concordata tra le parti.

L’incriminazione veniva ricondotta alle ipotesi delittuose previste dall’art. 81 c.p., dall’art. 56 c.p., dall’art. 640 c.p., comma 2, n. 2, e dall’art. 61 c.p., n. 9, degli artt. 56 e 610 c.p., e di conseguenza il Tribunale di Verona riteneva congrua l’applicazione della pena di anni 1 di reclusione e L. 200.000 di multa, oltre alla concessione della sospensione condizionale.

Dopo il ricorso per Cassazione, non accolto (con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento), l’Amministrazione finanziaria, notiziata dell’esito del giudizio penale con la trasmissione dei relativi documenti pervenuti in data 14 gennaio 2000, formulava – dopo diciassette giorni (e precisamente il 31 gennaio 2000) – la contestazione degli addebiti, in cui precisava di aver avuto la disponibilita’ delle fonti processuali (compresa la denuncia della signora C.) solo pochi giorni prima. Seguiva l’esposizione dei fatti che si articolavano nel richiamo della sentenza penale definitiva e nella descrizione dettagliata della condotta del G. che aveva cercato di convincere C.C. a pagare una somma in cambio dell’inclusione in una lista di soggetti imprenditoriali sottratti all’attivita’ di accertamento degli uffici tributari. L’atto di contestazione illustrava il tentativo di imporre l’accettazione dell’offerta illecita, minacciando lesioni a danno della vittima e dei suoi figli.

La lettera di contestazione perveniva al dipendente in data 7 febbraio 2000.

All’Amministrazione il G. presentava una lunga e dettagliata memoria, in cui, preliminarmente, contestava la tempestivita’ degli addebiti, sostenendo che l’Amministrazione avrebbe dovuto formularli allorquando la stampa locale riporto’ l’esito del procedimento di primo grado.

Il 30 marzo 2000 la Direzione Regionale delle Entrate per il Veneto applicava la sanzione del licenziamento senza preavviso che veniva intimato in data 17 aprile 2000.

Contro tale provvedimento il G. proponeva inutilmente un ricorso d’urgenza e poi un ricorso ordinario, chiedendo sia la pronuncia di illegittimita’ del recesso datoriale sia la reintegrazione in servizio.

Nel corso del giudizio si costituivano il Ministero delle Finanze e, con successivo atto di intervento, l’Agenzia delle Entrate.

L’adito giudice del lavoro del tribunale di Verona con sentenza n. 638/2004 rigettava il ricorso ritenendo che il licenziamento disciplinare irrogato al G. fosse immune dai denunciati vizi di illegittimita’.

2. La sentenza veniva impugnata dal G. innanzi alla Corte d’Appello di Venezia, Sezione Lavoro, deducendo tre articolati motivi di appello: violazione del termine per contestare l’addebito;

violazione del termine per irrogare la sanzione del licenziamento disciplinare; inammissibilita’ della costituzione dell’Agenzia delle entrate.

Il Ministero e l’Agenzia si costituivano tempestivamente, controdeducendo in modo puntuale a mezzo della memoria in data 13 ottobre 2005 e chiedendo la reiezione del gravame.

La Corte d’Appello di Venezia respingeva il gravame con sentenza 26 ottobre 2005 – 22 febbraio 2006, n. 892.

3. Avvero questa pronuncia propone ricorso per Cassazione il G. con cinque motivi.

Si sono costituiti in giudizio i resistenti Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del ministro pro tempore, nonche’ l’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale del Veneto -, in persona del direttore pro tempore, con il patrocinio dell’Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il ricorso, articolato in cinque motivi, il ricorrente deduce – oltre al vizio di motivazione dell’impugnata sentenza – anche piu’ specificamente:

a) la violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7 nonche’ dell’art. 25, commi 5, 6, 7 e 8, c.c.n.l. 16 maggio 1995;

in particolare il ricorrente sostiene che l’Amministrazione aveva l’onere di avviare immediatamente il procedimento disciplinare per poi sospenderlo in attesa dell’esito del giudizio penale;

b) la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 69 e 71; il ricorrente sostiene l’intervenuta abrogazione della L. n. 19 del 1990, art. 9 talche’ non operavano i termini, da tale disposizioni previsti, per l’intimazione del licenziamento a seguito di condanna penale;

c) la violazione dell’art. 24, commi 2 e 4, c.c.n.l. 16.5.1995, nonche’ della L. n. 300 del 1970, art. 7; lamenta che la contestazione dell’addebito non e’ intervenuta nel termine di venti giorni dalla conoscenza del fatto, come prescritto dalla citata norma contrattuale;

d) la violazione dell’art. 24, comma 3, c.c.n.l. 16.5.1965, per essere stato il licenziamento intimato oltre il termine di trenta giorni prescritto dalla norma contrattuale;

e) la violazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, che ha istituito le agenzie delle entrate con personalita’ di diritto pubblico, e del D.P.R. n. 107 del 2001; in particolare il ricorrente eccepisce il difetto di legittimazione passiva dell’Agenzia resistente le cui richieste istruttorie di prova erano quindi inammissibili.

2. Il ricorso e’ infondato.

3. Preliminarmente deve considerarsi che l’Avvocatura di Stato – quanto alla dedotta violazione o falsa applicazione di norme del contratto collettivo di lavoro del comparto Ministeri (art. 24, comma 2, e 25, commi 5, 6, 7 e art. 8 del c.c.n.l. 16.5.1995) – obietta nel controricorso “la totale inesattezza dell’impostazione sottesa al ricorso per Cassazione”, probabilmente sull'”erroneo presupposto dell’applicabilita’, nell’odierno giudizio, del c.p.c. post riforma”.

Osserva che per espressa previsione normativa “tutte le altre modifiche in tema di processo di cassazione si applicano ai ricorsi per Cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a partire dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 (2 marzo 2006).

Tale deduzione preliminare e’ manifestamente infondata atteso che e’ si’ vero che ratione temporis la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non trova applicazione nella specie, ma la ricorribilita’ per cassazione anche per violazione di norme del contratto collettivo nazionale, stipulati ai sensi del precedente art. 40, e’ stata prevista, quanto al lavoro pubblico contrattualizzato, gia’ dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 65, comma 5 (che peraltro ha riprodotto anche in questa parte la normativa precedente gia’ vigente), ossia ben prima del D.Lgs. n. 40 del 2006.

In via sempre preliminare deve poi rilevarsi che altrettanto erronea e’ la formulazione, da parte della difesa del ricorrente, dei quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., atteso che tale disposizione, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, non trovava ancora applicazione ratione temporis (D.Lgs. n. 40 del 2006, ex art. 27, comma 2) essendo stata l’impugnata sentenza depositata prima del 2 marzo 2006.

6. Il primo motivo e’ infondato.

L’art. 25, commi 5 e 6, c.c.n.l. 16 maggio 1995 del comparto Ministeri – che prevede che la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso si applica per “commissione in servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale per i quali sia fatto obbligo di denuncia” e che l’Amministrazione inizia il procedimento disciplinare ed inoltra la denuncia penale, ma il procedimento disciplinare rimane sospeso fino alla sentenza definitiva – deve essere interpretato nel senso che, laddove l’Amministrazione sia venuta a conoscenza di gravi fatti illeciti penalmente rilevanti e sia tenuta per legge a denunciarli e’ anche facoltizzata ad attivare subito il procedimento disciplinare che rimane sospeso fino alla sentenza definitiva. Ma cio’ non si verifica non solo allorche’ la denuncia dei “gravi fatti illeciti”sia stata fatta da un terzo, quale nella specie la persona offesa del reato, ovvero allorche’ l’Amministrazione venga a conoscenza dei fatti suddetti nel corso o alla fine del giudizio penale.

La disposizione contrattuale non puo’ quindi considerarsi violata in una fattispecie in cui l’Amministrazione sia stata formalmente notiziata dei “gravi fatti illeciti” ben dopo la notizia di reato che aveva comportato l’avvio del procedimento penale. Legittimamente quindi l’Amministrazione ha atteso l’esito del giudizio penale prima di avviare il procedimento disciplinare.

La difesa del ricorrente insiste poi sul fatto che l’Amministrazione conoscesse informalmente, fin dall’inizio, i “gravi fatti penali” contestati al G. perche’ avevano avuto eco sulla stampa cittadina.

Correttamente pero’ i giudici di merito hanno ritenuto la circostanza del tutto irrilevante, oltre che non risultante dagli atti di causa.

L’art. 25, comma 8, poi ben si raccorda con la L. n. 97 del 2001, art. 5: l’Amministrazione ha 90 gg. per iniziare (oltre che eventualmente per riattivare, ove gia’ iniziato e poi sospeso) il procedimento disciplinare dalla comunicazione della sentenza all’Amministrazione.

7. Il secondo motivo e’ infondato.

Il ricorrente sostiene l’intervenuta abrogazione della L. n. 19 del 1990, art. 9.

Effettivamente questa Corte (Cass., sez. lav., 24 luglio 2003, n. 11506) ha affermato che, in materia di procedimento disciplinare per i pubblici dipendenti, il termine previsto dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2 per la contestazione dell’addebito dopo la comunicazione della sentenza penale di condanna cessa di avere efficacia, in relazione ai rapporti di impiego privatizzati, a decorrere dalla data di costituzione dell’ufficio competente per la contestazione disciplinare previsto dalla contrattazione collettiva, con la conseguente applicabilita’, da tale data, dei soli termini contrattuali. Pero’ ha aggiunto che questi ultimi, a seguito dell’entrata in vigore della L. 27 marzo 2001, n. 97, recante norme sul rapporto fra procedimento penale e procedimento disciplinare, convivono con i termini legali stabiliti dall’art. 5, comma 4, di tale legge, con la conseguenza che i termini contrattuali posti all’ufficio competente per la contestazione dell’addebito sono alternativi a quelli legali previsti per lo stesso ufficio a seguito della avvenuta comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna del lavoratore incolpato.

Deve infatti considerarsi in proposito che – quasi contestualmente al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (t.u. del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che ha riordinato la materia disciplinare nell’art. 55 e segg., abrogando all’art. 72 tutte le disposizione del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 – e’ intervenuta la L. 27 marzo 2001, n. 97, mirata specificamente a dettare norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, la quale ha in sostanza riformulato la disciplina della L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2 disponendo all’art. 5, comma 4, che, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti pubblici privatizzati, ancorche’ a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego puo’ essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve concludersi, salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall’art. 653 c.p.p..

Nella specie – come correttamente ritenuto dai giudici di merito – il suddetto termine di 90 gg. dalla comunicazione della sentenza e’ stato ampiamente rispettato. Quindi la censura del ricorrente e’ infondata perche’ comunque la pronuncia impugnata e’, in questa parte, corretta ancorche’ la motivazione vada integrata con la precisazione appena fatta.

8. Il terzo motivo del ricorso e’ infondato.

Il ricorrente si duole della violazione dell’art. 24 c.c.n.l. cit.

nella parte in cui prevede che la contestazione dell’addebito debba essere fatto entro venti giorni dalla conoscenza del fatto.

E’ vero che questa Corte (Cass., sez. lav., 18 marzo 2004, n. 5527) ha affermato che nell’ambito del procedimento di irrogazione delle sanzioni disciplinari, regolato dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 dal principio della immediatezza della contestazione deve dedursi che al mancato rispetto del termine contrattualmente fissato entro il quale effettuare la contestazione discenda la decadenza dal potere disciplinare, non rilevando la mancanza di precisazione, nel contratto, delle conseguenze derivanti dall’inosservanza del termine stabilito; e’ stata quindi cassata la sentenza di merito che, in una fattispecie alla quale si applicava l’art. 24 c.c.n.l. dei dipendenti degli enti locali, che fissava il termine di venti giorni per la contestazione disciplinare senza prevedere alcuna conseguenza per il mancato rispetto, aveva ritenuto valida la contestazione effettuata oltre i venti giorni.

Si tratta pero’ di una giurisprudenza isolata. Successivamente si e’ affermato un diverso orientamento: cfr. da ultimo Cass., sez. lav., 9 marzo 2009, n. 5637, secondo cui, in tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, il termine di venti giorni per la contestazione dell’addebito, previsto dall’art. 24, comma 2, del contratto collettivo del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, non e’ perentorio, sicche’ la sua inosservanza non comporta un vizio della sanzione finale, atteso che in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali non possono verificarsi in mancanza di una loro espressa previsione normativa o contrattuale, mentre la natura contrattuale dei termini induce a valutarne l’osservanza nella prospettiva del corretto adempimento di obblighi contrattuali, la cui mancanza e’ rilevante per gli effetti e nei limiti previsti dall’accordo delle parti e dai principi generali in materia di adempimento. Ne’, in senso contrario, rileva l’aggiunta – operata con l’art. 12 del c.c.n.l. del comparto Ministeri 2002 – 2005 – di un nuovo comma 10 all’art. 24 del c.c.n.l. del 1995, con il quale e’ stata attribuita natura perentoria anche al termine iniziale del procedimento disciplinare, dovendosi ritenere, attesa la mancanza di ogni riferimento all’avvenuta insorgenza di controversie di carattere generale sull’interpretazione della norma collettiva, che la nuova disposizione non costituisca norma pattizia di interpretazione autentica, di portata sostitutiva della clausola controversa con efficacia retroattiva, ma integri una modifica, come tale operante soltanto in riferimento alle vicende successive all’entrata in vigore del c.c.n.l. con il quale e’ stata pattuita.

Cfr. anche Cass., sez. lav., 23 dicembre 2004, n. 23900, che ha affermato che, in tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, i termini per segnalare il fatto illecito all’ufficio per i procedimenti disciplinari (ex art. 24, comma 4, c.c.n.l. comparto Ministeri) e per contestare l’addebito (20 giorni, art. 24, comma 2, c.c.n.l. cit.) devono reputarsi ordinatori, e non perentori, sicche’ la loro inosservanza non comporta un vizio della sanzione finale, atteso che in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali non possono verificarsi in mancanza di una espressa previsione normativa o contrattuale che preveda detti effetti, e perche’ la natura contrattuale dei termini porta a valutare la loro osservanza come corretto adempimento di obblighi contrattuali, la cui mancanza e’ rilevante per gli effetti e nei limiti previsti dall’accordo delle parti e dai principi generali in materia di adempimento. Cfr. altresi’ Cass., sez. lav., 2 ottobre 2007, n. 20654, secondo cui, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendente pubblico, il termine di venti giorni tra conoscenza del fatto e contestazione dell’addebito previsto dall’art. 24 del contratto collettivo del comparto ministeri ha natura ordinatoria, avendo le parti indicato un parametro di tempestivita’ consentendone tuttavia un’elastica dilatazione per accertamenti necessari al fine di una compiuta conoscenza del fatto.

Questo orientamento – al quale hanno prestato adesione i giudici di merito – va ulteriormente confermato con conseguente rigetto del motivo di ricorso.

9. Il quarto motivo e’ infondato.

Il ricorrente richiama il termine (15 gg. + 15 gg.) di cui all’art. 24, comma 3, c.c.n.l. cit. previsto per l’intimazione del licenziamento disciplinare; il quale nella specie e’ stato invece comunicato oltre tale termine di complessivi trenta giorni dalla contestazione.

C’e’ pero’ da rilevare – in disparte ogni possibile considerazione in ordine alla non perentorieta’ del termine per quanto detto sopra in riferimento all’analogo termine per la contestazione dell’addebito – che trova comunque applicazione, come normativa speciale (di fonte primaria) dettata per la specifica ipotesi di procedimento disciplinare che faccia seguito alla condanna penale passata in giudicato, la cit. L. 27 marzo 2001, n. 97 che prevede, all’art. 5, un duplice termine – di 90 e di 180 giorni – per iniziare e concludere il procedimento disciplinare promosso proprio a seguito di condanna penale del dipendente; termine che nella specie e’ stato ampiamente osservato.

Puo’ solo aggiungersi che l’equiparazione della sentenza applicativa della pena patteggiata alla sentenza di condanna, espressamente prevista a determinati fini gia’ dalla L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 15, comma 1 bis, opera ora anche ai fini del procedimento disciplinare. Infatti dal combinato disposto dell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, e dell’art. 653 c.p.p., comma 1 bis, nel testo di cui alla cit. L. 27 marzo 2001, n. 97, artt. 1 e 2 risulta che la sentenza irrevocabile di applicazione della pena a richiesta (c.d.

sentenza di patteggiamento), al pari della sentenza penale irrevocabile di condanna, ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare.

10. In proposito, con riferimento alla sentenza di applicazione della pena a richiesta, questa Corte (Cass. 30 luglio 2001, n. 10393) ha affermato che la cit. L. 27 marzo 2001, n. 97 ha riconosciuto efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare alla sentenza penale irrevocabile di condanna ed ha parimenti riconosciuto efficacia di giudicato anche alla sentenza di patteggiamento, avendo modificato le norme (art. 653 e 445 c.p.p.) che dettano in generale la disciplina degli effetti del giudicato penale nel giudizio disciplinare; tale nuova regolamentazione quindi e’ legittimamente applicabile ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Cio’ vale anche allorche’ sia la contrattazione collettiva a far riferimento alla sentenza penale di condanna. Cfr. Cass., sez. lav., 26 marzo 2008, n. 7866, che ha affermato che, benche’ la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p., che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se e’ a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben puo’ il giudice di merito, nell’interpretare la volonta’ delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “di patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilita’, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena;

e’ poi ben possibile che il licenziamento venga irrogato prima dell’irrevocabilita’ della sentenza di patteggiamento.

Questa scelta del legislatore ha poi superato il vaglio di costituzionalita’. Gia’ C. cost. n. 186 del 2004 ha osservato che “con le novita’ introdotte dalla L. n. 97 del 2001, sia la sentenza penale irrevocabile di condanna, sia la sentenza di applicazione della pena su richiesta sono destinate ad esplicare effetti nel giudizio disciplinare”, si e’ rilevato che, in tal modo, il legislatore ha inteso assicurare “non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma, soprattutto, una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell’azione amministrativa”. Recentemente poi C. cost. n. 336 del 2009 ha dichiarato non fondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, e dell’art. 653 c.p.p., comma 1 bis, sollevata, in riferimento agli artt. 3, comma 2, 24, secondo comma, e art. 111 Cost., comma 2, nella parte in cui, equiparata la sentenza di cui all’art. 444 dello stesso codice ad una sentenza di condanna, prevede che essa abbia efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare davanti alle pubbliche autorita’ quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, alla sua illiceita’ penale ed alla affermazione che l’imputato lo ha commesso.

11. Quest’ultima pronuncia induce pero’ a fare una puntualizzazione:

l’equiparazione tra sentenza irrevocabile di condanna e sentenza, parimenti irrevocabile, applicativa della pena a richiesta dell’imputato (c.d. patteggiamento) non arriva mai al punto di poter predicare l’equiparazione anche del contenuto dei due giudicati nel senso che, nell’uno e nell’altro caso, si avrebbe che nel giudizio per responsabilita’ disciplinare la condotta contestata al dipendente, condannato in sede penale, dovrebbe ritenersi positivamente ed incontrovertibilmente accertata per essere, il dipendente stesso, autore di tale condotta (Le. elemento materiale del reato) con dolo o colpa (i.e. elemento soggettivo).

Muovendosi sul piano dell’interpretazione sistematica delle norme, deve considerarsi che l’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, contiene una duplice prescrizione modulata con simmetriche eccezioni: una riguardante l’equiparazione della sentenza di condanna a richiesta alla sentenza di condanna e l’altra l’efficacia di giudicato della prima.

Tale disposizione prevede innanzi tutto come regola generale – “salvo diverse disposizioni di legge” – che la sentenza di applicazione della pena a richiesta e’ “equiparata” ad una pronuncia di condanna.

Quindi, ad es., l’una e l’altra costituiscono titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa. Altresi’ l’una e l’altra sono suscettibili di revisione ai sensi dell’art. 629 c.p.p..

L’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, prevede poi, ancora come regola generale, ma di portata piu’ specifica e modulata anch’essa dall’eccezione recata dall’inciso “salvo quanto previsto dall’art. 653 c.p.p., che la sentenza di applicazione della pena a richiesta non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi anche quando e’ pronunciata dopo la chiusura del dibattimento. L'”eccezione” in questa fattispecie e’ riferita al contenuto dell’art. 653 c.p.p. e segnatamente al suo comma 1 bis, disciplina questa introdotta rispettivamente dall’art. 1 (che ha novellato, in parte qua, l’art. 653 c.p.p.) e dall’art. 2 (che ha modificato l’art. 445 c.p.p., comma 1) della L. 27 marzo 2001, n. 97 (recante norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). Tale art. 653 c.p.p., comma 1 bis cit. stabilisce che la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare davanti alle pubbliche autorita’ quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceita’ penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. A tale disposizione si riferisce l’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, sicche’, mentre in generale la sentenza di applicazione della pena a richiesta non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi, essa ha invece efficacia di giudicato nei giudizi per responsabilita’ disciplinare.

Orbene, si tratta di due profili ben distinti: il primo e’ quello dell’equiparazione tra i due tipi di pronunce; il secondo, piu’ specifico, e’ quello dell’efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi. Equiparazione ed efficacia di giudicato corrono su binali paralleli, ma distinti, che non si congiungono fino a predicare anche l’equiparazione del contenuto del giudicato.

Se si focalizza l’analisi sul secondo profilo, risulta che – combinando l'”eccezione” fatta salva dall’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, (dettata per la sentenza di applicazione della pena a richiesta) e la prescrizione dell’art. 653 c.p.p., comma 1 bis, cit. (dettata per la sentenza di condanna) – sia l’una che l’altra pronuncia, divenute irrevocabili, hanno efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare, e non gia’ che hanno la “stessa” efficacia di giudicato. Ogni sentenza ha efficacia di giudicato quanto (e limitatamente) al contenuto accertativo che reca. In altre parole cio’ che e’ stato accertato in sede penale fa si’ stato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare; ma l'”accertamento” contenuto in una sentenza di condanna irrevocabile, al quale si riferisce la prescrizione dell’art. 653 c.p.p., comma 1 bis, e’ diverso – e segnatamente piu’ ampio – dall'”accertamento” contenuto in una sentenza irrevocabile di applicazione della pena a richiesta, fatto salvo dalla riserva contenuta nell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis, che richiama l’art. 653 c.p.p..

Ed allora l’interpretazione sistematica del richiamato quadro normativo conduce alla seguente conclusione, con riferimento alle sentenze di patteggiamento emesse nella vigenza dell’innovato quadro normativo risultante dalle richiamate modifiche introdotte dalla citata L. 27 marzo 2001, n. 97 (cfr. C. cosi n. 394 del 2002 che ha dichiarato l’illegittimita’ della cit. L. n. 97 del 2001, art. 10, comma 1 nella parte in cui prevede che gli artt. 1 e 2 della stessa si riferiscono anche alle sentenze di applicazione della pena su richiesta pronunciate anteriormente alla sua entrata in vigore):

laddove ci sia stato (nel giudizio conclusosi con una sentenza di condanna) un accertamento pieno della sussistenza del fatto, della sua illiceita’ penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, e’ questo pieno accertamento che ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare; laddove invece ci sia stato (nel caso di sentenza di applicazione della pena a richiesta) solo l’accertamento dell’insussistenza, allo stato, delle cause di non punibilita’ ovvero di estinzione del reato di cui all’art. 129 c.p.p., e’ questo (diverso e piu’ limitato) accertamento – cui pero’ e’ sottesa anche l’esistenza di elementi sufficienti a giustificare l’esercizio dell’azione penale – che ha efficacia di giudicato e che non impedisce nel giudizio civile per responsabilita’ disciplinare un’istruttoria probatoria che vada al di la’ del (limitato) accertamento contenuto nella sentenza penale di condanna a richiesta.

Questa diversa portata dell’accertamento che, nel caso di sentenza di applicazione della pena a richiesta, ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita’ disciplinare non solo discende dall’interpretazione sistematica delle norme citate, ma si impone anche come interpretazione costituzionalmente orientata. Infatti sarebbe di assai dubbia compatibilita’ con il principio di eguaglianza (art. 3 cost, comma 1) e di inviolabilita’ della tutela gjurisdizionale (art. 24 Cost., comma 2), nonche’ con il principio del giusto processo (art. 111 Cost, commi 1 e 2), predicare che la sentenza di applicazione della pena a richiesta abbia, nel giudizio per responsabilita’ disciplinare, un’efficacia di giudicato maggiore ed estesa a cio’ che nel giudizio penale non e’ stato affatto accertato. Sarebbe un giudicato formale, in parte fittizio proprio perche’ comprensivo di cio’ che non ha mai costituito oggetto di piena cognizione nel giudizio penale.

Si ha quindi che legittimamente l’Amministrazione puo’ promuovere il procedimento disciplinare contestando al pubblico dipendente, nel rispetto del termine di cui alla cit. L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 5, comma 4 la condotta oggetto dell’imputazione nel giudizio penale conclusosi con sentenza irrevocabile di applicazione della pena a richiesta; ed altrettanto legittimamente puo’ applicare la sanzione disciplinare ove disattenda le controdeduzioni eventualmente svolte dal dipendente a sua difesa. Pero’ l’ambito del giudicato penale, cosi’ formatosi, non impedisce al dipendente incolpato di svolgere nel giudizio civile, avente ad oggetto la sua responsabilita’ disciplinare, le sue difese tendenti all’accertamento di elementi di fatto non contrastanti con tale giudicato; ossia non contrastanti con il fatto che, nello stato del processo in cui e’ stata pronunciata la sentenza di condanna a richiesta, non sussistevano cause di non punibilita’ o di estinzione del reato e che, in quello stato del processo, risultavano invece sufficienti elementi per l’esercizio dell’azione penale.

12. Infine anche il quinto motivo di ricorso e’ infondato.

E’ vero – come gia’ affermato da questa Corte (Cass., sez. lav., 13 settembre 2006, n. 19564) – che nell’ambito dell’ampia riforma dell’amministrazione finanziaria, operata con il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, che ha istituito le agenzie delle entrate con personalita’ di diritto pubblico, la qualita’ di datore di lavoro e’ stata assunta dalle agenzie non alla data del 1 gennaio 2001 (essendo previsto da tale data solo il distacco del personale), ma solo con l’emanazione (e quindi dall’entrata in vigore) del D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107 (conf. Cass., sez. lav., 25 maggio 2005, n. 10991).

Pero’ l’Agenzia, che, in quanto distaccataria, era destinataria della prestazione lavorativa del ricorrente, che gestiva nel regime del distacco, aveva comunque un interesse qualificato ad intervenire in giudizio ex art. 105 c.p.c. e – dopo essere diventata titolare di tutti i rapporti di lavoro, una volta cessato il distacco e divenuto operativo il trasferimento del personale dell’Amministrazione finanziaria ex D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, cit. – era legittimata a stare in giudizio ex art. 111 c.p.c..

13. Il ricorso va quindi nel suo complesso rigettato.

Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 60,00 oltre Euro 2.000,00 (duemila/00) per onorario d’avvocato ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Cosi’ deciso in Roma, il 23 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2010

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