Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5804 del 08/03/2017


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Cassazione civile, sez. III, 08/03/2017, (ud. 24/01/2017, dep.08/03/2017),  n. 5804

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15101-2014 proposto da:

B.M.A., considerata domiciliata ex lege in ROMA,

presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato VITTORIO TATEO;

– ricorrente –

contro

C.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1634/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 07/05/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/01/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO che ha chiesto

l’improcedibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 369 cod. proc.

civ..

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Vigevano, con sentenza n. 714/2009, decidendo su controversia attinente a rapporto societario insorta tra i successori a titolo universale dei due soci, riconosceva il diritto di B.M.A. ad ottenere la restituzione da C.G. delle somme a quest’ultimo versate a titolo di distribuzione degli utili maturati nell’anno 1993 dalla gestione della società semplice, che era stata sciolta nel medesimo anno in conseguenza della morte di uno dei due soci, e rigettava la domanda riconvenzionale proposta dal C. per ottenere il pagamento degli utili concernenti l’anno 1994.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza 7.5.2014 n. 1634, in parziale riforma della decisione di prime cure ha ritenuto fondata la “eccezione riconvenzionale” formulata dal C., ed avente ad oggetto la richiesta di accertamento del proprio credito per utili conseguiti nel 1993, argomentando che – pur dovendosi condividere la interpretazione fatta dal primo Giudice delle clausole dell’atto costitutivo della società, secondo cui i soci avevano convenuto che utili e perdite fossero distribuiti annualmente – alcun termine prescrizionale ex art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 poteva essere opposto dalla B., in quanto la stessa aveva eseguito “senza alcuna riserva” il pagamento del relativo importo nell’anno 2002. In conseguenza il Giudice di secondo grado ha rigettato la domanda di ripetizione dell’indebito proposta dalla B..

La Corte territoriale ha confermato, invece la statuizione di rigetto della domanda riconvenzionale del C. per intervenuta prescrizione del credito vantato per distribuzione utili relativi all’anno 1994, in difetto di atti interruttivi.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata per cassazione da B.M.A., con atto notificato in data 6.6.2014 a C.G. presso il procuratore domiciliatario, con il quale ha dedotto cinque motivi.

Non ha resistito l’intimato.

Il Pubblico Ministero ha rassegnato conclusioni scritte instando per la improcedibilità del ricorso per omessa riattivazione del procedimento notificatorio affetto da nullità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha raccomandato la redazione di motivazione semplificata.

I motivi di ricorso sono infondati. Non è necessario esaminare con priorità la questione pregiudiziale posta dal Pubblico Ministero in quanto, in applicazione del principio processuale della “ragione più liquida” – desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. – deve ritenersi consentito al giudice esaminare un motivo di merito, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 9936 del 08/05/2014), dovendo pertanto darsi seguito all’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost. alla stregua del quale deve essere interpretato l’art. 276 c.p.c., impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o di una manifesta infondatezza dello stesso, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio (cfr. Corte cass. Sez. U, Ordinanza n. 6826 del 22/03/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 690 del 18/01/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 15106 del 17/06/2013).

Il primo motivo, relativo a violazione degli artt. 2934, 2937, 2945 e 2948 c.c. è infondato.

Sostiene la B. che la domanda di ripetizione dell’indebito (concernente gli utili societari relativi all’anno 1993 che il C. aveva originariamente richiesto in un precedente giudizio, introdotto con atto di citazione nel febbraio 1995, definito a suo favore con sentenza di secondo grado, cassata dalla Suprema Corte con giudizio che non era stata riassunto nei termini perentori da nessuna delle parti, dovendo quindi ritenersi estinto I’ “intero giudizio” ex art. 393 c.p.c. con il venir meno della efficacia delle sentenze di merito pronunciate) era fondata sulla sopravvenuta mancanza del titolo giustificativo del versamento delle somme che era stato eseguito nel 2002 in ottemperanza al precetto notificato dal C. in base alla decisione di secondo grado immediatamente esecutiva, e che, estintosi il precedente giudizio nell’anno 2006 (per mancata riassunzione del giudizio nel termine perentorio ex art. 393 c.p.c. in seguito alla sentenza della SC che aveva cassato, con rinvio, la decisione di appello azionata esecutivamente), la B., soltanto con la domanda di ripetizione dell’indebito proposta con l’atto di citazione nell’anno 2008, aveva potuto “nuovamente eccepire” la intervenuta prescrizione del credito vantato dal C., sicchè errata doveva ritenersi l’affermazione della Corte territoriale secondo cui l’anteriore pagamento precludeva ogni eccezione di prescrizione. Aggiungeva la ricorrente che la statuizione impugnata, ove intesa ad individuare nel pagamento una rinuncia tacita alla prescrizione ai sensi dell’art. 2937 c.c., era comunque errata, perchè una rinuncia sarebbe stata ammissibile soltanto qualora la prescrizione fosse maturata, mentre alla data del pagamento non erano ancora maturato il termine della prescrizione estintiva del credito vantato da C..

Il motivo è infondato in quanto:

A) la norma dell’art. 393 c.p.c. (secondo cui la mancata tempestiva riassunzione del processo avanti il Giudice del rinvio determina la estinzione “dell’intero processo”, fatto salvo l’effetto vincolante, nell’eventuale nuovo giudizio, della pronuncia della Corte di cassazione) deve essere necessariamente coordinata con quella dell’art. 310 c.p.c. (secondo cui la estinzione del processo non travolge le “sentenze di merito” pronunciate nel corso dello stesso e quelle regolative della competenza): dal combinato disposto dalle due norme emerge, infatti, che quelle statuizioni delle sentenze di merito, emesse nel corso del giudizio – estintosi per mancata riassunzione nei termini- che non siano state investite dagli atti di impugnazione proposti dalle parti nei diversi gradi – e dunque non appartengano più all’ “oggetto del giudizio pendente” definito dai motivi di impugnazione ed in ordine al quale soltanto si verifica, pertanto, l’effetto estintivo dell’ “intero processo” per mancata riassunzione avanti il Giudice del rinvio – passano, comunque, in giudicato venendo ad esplicare la propria efficacia preclusiva ex art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. nel nuovo giudizio di merito – eventualmente riproposto – tra le medesime parti (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 6712 del 15/05/2001; id. Sez. 3, Sentenza n. 1680 del 07/02/2012; id. Sez. 2, Sentenza n. 23813 del 21/12/2012)

B) la sentenza della Corte di cassazione in data 10.11.2005 n. 21832, pronunciata nel giudizio estinto per mancata riassunzione, la cui motivazione è riprodotta a pag. 3-4 del ricorso, ha accolto soltanto il quarto motivo del ricorso, concernente la determinazione del “quantum” rilevando la violazione dell’art. 2289 c.c., comma 3 ed enunciando il principio di diritto secondo cui nella determinazione degli utili spettanti al socio uscente “deve tenersi conto in aggiunta delle operazioni compiute sino allo scioglimento del rapporto sociale, soltanto di quelle in corso alla stessa data” -, con la conseguenza che deve ritenersi passata in giudicato la statuizione di merito della sentenza di appello impugnata che accertava l'”an debeatur” relativamente al credito vantato dal C. alla distribuzione degli utili societario inerenti l’anno 1993, rimanendo controversa solo la determinazione del “quantum”;

C) ne segue che, dovendo questa Corte rilevare “ex officio” il giudicato esterno formatosi sulla esistenza del credito per utili anno 1993, ogni questione di merito – censurata con il presente motivo di ricorso – concernente la ammissibilità della eccezione di prescrizione di detto credito e la eventuale rinuncia tacita desunta dal pagamento del credito effettuato dalla B. nell’anno 2002, deve ritenersi preclusa nel presente giudizio: la ricorrente, infatti, non deduce la sopravvenuta prescrizione decennale del credito accertato con efficacia di giudicato (art. 2945 c.c., comma 2 ed art. 2953 c.c.), ma viene ad impugnare la sentenza di appello in quanto non avrebbe riconosciuto la estinzione del credito 1993 per intervenuta prescrizione, decorrente dal febbraio 1995 (data di notifica dell’originario atto di citazione del C., introduttivo del giudizio estinto), disconoscendo in tal modo l’intervenuta formazione del giudicato sul punto e che l’effetto interruttivo della prescrizione, nel processo estintosi per mancata riassunzione, fa sì che il termine prescrizionale inizi nuovamente a decorrere soltanto dal momento del passaggio in giudicato della sentenza contenente l’accertamento sull’ “an debeatur” (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 23813 del 21/12/2012).

Osserva il Collegio, peraltro, che la tesi difensiva della prescrizione del diritto, svolta dalla ricorrente sull’errato presupposto della caducazione di tutte le statuizioni delle sentenze di merito emesse nel corso del giudizio estinto per mancata riassunzione, si risolve in una conclamata infondatezza.

La stessa ricorrente ha infatti ammesso di aver effettuato il pagamento del debito relativo alla quota-utili 1993, a febbraio 2002, dopo aver ricevuto l’atto di precetto notificatole dal C.. Orbene tenuto conto che la stessa ricorrente sostiene che il credito vantato dal C. doveva intendersi prescritto ai sensi dell’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 (ribadendo la tesi affermata dal Tribunale di Vigevano nella sentenza parzialmente riformata dal Giudice di appello), risulterebbe che il pagamento eseguito a febbraio 2002 avrebbe riguardato un credito da ritenere già estinto, essendo a tale data interamente decorso il termine prescrizionale quinquennale, ex art. 2948 c.c., comma 1, n. 4, decorrente dal febbraio 1995 (ultimo atto interruttivo, secondo l’assunto della ricorrente), con conseguente “irripetibilità” da parte della B. della somma versata in pagamento del credito prescritto, ai sensi dell’art. 2940 c.c. (in tal senso sembra doversi intendere la pronuncia della Corte d’appello che, sia pure in un passaggio motivazionale stringato della sentenza impugnata, afferma che il pagamento è stato eseguito “senza alcuna riserva sull’eventuale prescrizione maturata”: cfr. sent. app. motiv. pag. 7).

Il secondo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 393 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c.) è inammissibile.

La ricorrente attraverso la denuncia di violazione del “principio di diritto” enunciato nella sentenza della Corte di cassazione n. 21832/2005 – secondo cui gli utili societari di spettanza del socio uscente dovevano essere determinati con riferimento anche alle operazioni in corso alla data dello scioglimento della società – intende riesaminare le risultanze istruttorie che la Corte d’appello ha già scrutinate e valutate pervenendo sulla scorta dello schema della prova presuntiva al convincimento che gli utili dichiarati dalla società per l’anno 1993 si riferissero ad operazioni concluse o comunque iniziate anteriormente alla data di scioglimento della società, ed i cui risultati economici erano dunque da “”ricomprendere nell’ “asset” patrimoniale della società ex art. 2289 c.c..

Inammissibile è anche la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., non avendo deciso la causa – il Giudice di appello – applicando la norma sul riparto dell’onere probatorio, ma sulla scorta di un compiuto esame di tutti gli elementi di prova acquisiti al giudizio e pervenendo alla conclusione che il “thema probandum” introdotto dalla B. in ordine alla esistenza di “possibili” futuri ricavi conseguiti personalmente dal socio sopravvissuto, il quale avrebbe potuto anche intraprendere per conto proprio nuove operazioni dopo la morte dell’altro socio, ed ancora in ordine ad “ipotetici” ricavi estranei alla attività societaria da riferirsi alla “vendita a rate dello studio o di rami dello studio”, non aveva trovato alcun riscontro probatorio nelle risultanze istruttorie.

Terzo motivo (violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 1242 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Sostiene la ricorrente che il Giudice di appello, qualificando come “eccezione riconvenzionale” (di compensazione) le difese svolte dal C. per contestare la domanda della B. di restituzione delle somme pagate nel 2002, sarebbe incorsa in ultrapetizione.

Il motivo è infondato.

Premesso che la Corte territoriale ha individuato l’oggetto della “eccezione riconvenzionale” – formulata dal C. – nella mera richiesta di conferma dell’accertamento del credito relativo alla quota utili 1993 contenuto nella sentenza di appello emessa nel giudizio estinto, e che – pertanto – si palesa inconferente il riferimento nel motivo di ricorso per cassazione ad una eccezione di “compensazione” che non risulta affatto essere stata richiesta dalla controparte, e che non è stata neppure considerata dal Giudice di appello (il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, al precedente di questa Corte n. 14418/2013 in tema di eccezione di compensazione in materia fallimentare, è meramente funzionale alla esplicazione della distinzione tra eccezione riconvenzionale e domanda riconvenzionale, sulla quale la sentenza d’appello ampiamente disserta), è sufficiente osservare che il C., nella comparsa di risposta depositata nel primo grado del presente giudizio, aveva contrastato la pretesa restitutoria invocando il giudicato formatosi – nel processo estinto – sull’ “an” del diritto a percepire gli utili 1993, nonchè, “con riguardo al quantum”, relativamente agli “utili conseguiti dallo studio professionale a tutto aprile 1993”, precisando ancora che “tutti gli utili conseguiti dalla società successivamente al 30.4.1993 devono ritenersi riferibili ad operazioni in corso (anzi già compiute) al momento dello scioglimento del rapporto sociale” (cfr. comparsa risposta, riprodotta pag. 17 ricorso).

Con tale difesa è indubitabile che il C. abbia invocato il titolo (le statuizioni delle sentenze di merito emesse nel giudizio estinto e passate in giudicato) che lo legittimava ad opporsi alla domanda restitutoria, nonchè l’accertamento della correttezza dell’ammontare del credito, dovendo riferirsi secondo il proprio assunto- l’intero importo ricevuto per quota utili 1993 ad operazioni comunque svolte od iniziate “pendente societate”. Ne segue che la questione relativa all’accertamento della esistenza e del “quantum” del credito per utili societari maturati nell’anno 1993, doveva intendersi ritualmente acquisita fin dall’inizio all’oggetto del giudizio, e sulla stessa erano, pertanto, chiamati a pronunciare sia il giudice di primo grado che la Corte d’appello, essendo conseguentemente destituita di fondamento la censura di ultra petizione.

Il quarto motivo (violazione art. 112 c.p.c.), formulato sulla base di una ipotetica statuizione (accoglimento della eccezione di “compensazione”) che risulta smentita dalla lettura della sentenza di appello, rimane assorbito nell’esame del precedente motivo

Il quinto motivo (violazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) è inammissibile, in quanto la ricorrente chiede la cassazione della sentenza di appello relativamente al capo della condanna alla rifusione delle spese di lite del doppio grado, in base all’asserita fondatezza dei precedenti motivi di ricorso.

Difetta quindi la stessa indicazione del vizio di legittimità sindacabile dalla Corte, richiesta a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Non occorre provvedere sulle spese di lite, non avendo svolto difese l’intimato.

PQM

rigetta il ricorso principale.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2017

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