Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5800 del 03/03/2020

Cassazione civile sez. trib., 03/03/2020, (ud. 20/12/2019, dep. 03/03/2020), n.5800

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24980/2012 R.G. proposto da:

RE DI ROMA PARKING s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentato e difeso, per procura speciale in atti,

dall’Avv. Bruno Taverniti, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Sesto Rufo, n. 23;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con

domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio

n. 759/14/11, depositata il 7 dicembre 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 dicembre 2019

dal Consigliere Dott. Michele Cataldi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott.ssa Paola Mastroberardino, che ha concluso chiedendo

il rigetto del ricorso;

uditi l’Avv. Bruno Taverniti per la ricorrente e l’Avv. dello Stato

Galluzzo Gianna per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle Entrate ha emesso nei confronti della Re di Roma Parking s.r.l. avviso di accertamento induttivo, relativo all’anno d’imposta 2000, in materia di Irpeg, Irap ed Iva, con il quale, vista l’omessa presentazione della relativa dichiarazione dei redditi ed all’esito del contraddittorio preventivo, ha accertato il reddito imponibile ai fini Irpeg ed Irap, ed i ricavi per operazioni imponibili, imputando alla contribuente le conseguenti imposte, con i relativi interessi e le corrispondenti sanzioni.

2. Avverso l’avviso d’accertamento la contribuente ha proposto ricorso dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Roma, che lo ha accolto, compensando le spese di lite.

3. L’Ufficio ha impugnato la sentenza di primo grado. La contribuente ha sua volta proposto appello incidentale, avverso il capo della sentenza di primo grado che aveva compensato le spese di lite. L’adita Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza n. 759/14/11, depositata il 7 dicembre 2011, ha accolto l’appello principale dell’Ufficio.

4. La contribuente propone ricorso, affidato a nove motivi, per la cassazione della predetta sentenza d’appello.

5. L’Ufficio si è costituito con controricorso.

6. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 37, art. 3, comma 2; dell’art. 2730 c.c. e ss.; e dell’art. 125 c.p.c., per avere il giudice a quo ritenuto, ai fini della pronuncia sull’eccepita inammissibilità dell’appello principale dell’Ufficio, che la sottoscrizione in calce al ricorso introduttivo di tale impugnazione fosse autografa, nonostante lo stesso atto recasse l’espressa menzione che si trattava di “firma autografa sostituita a mezzo stampa ai sensi del D.Lgs. n. 39 del 1993, art. 3, comma 2”, da intendersi quale dichiarazione confessoria proveniente dall’Amministrazione.

2. Con il secondo motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione contraddittoria, ovvero omessa, circa un punto decisivo della controversia, per avere il giudice a quo ritenuto, ai fini della pronuncia sull’eccepita inammissibilità dell’appello principale dell’Ufficio, che la sottoscrizione in calce al ricorso introduttivo di tale impugnazione fosse autografa, nonostante lo stesso atto recasse l’espressa menzione che si trattava di “firma autografa sostituita a mezzo stampa ai sensi del D.Lgs. n. 39 del 1993, art. 3, comma 2”, da intendersi quale dichiarazione confessoria proveniente dall’Amministrazione.

2.1. Il primo ed il secondo motivo vanno trattati congiuntamente per la loro connessione.

Non è fondata l’eccezione dell’Ufficio di inammissibilità della formulazione dell’eccezione di difetto di sottoscrizione dell’atto erariale di appello principale, in quanto sollevata non nelle controdeduzioni dell’appellata contribuente, ma solo nella successiva memoria depositata dinnanzi la CTR ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 61 e 32, essendo l’ipotetica inammissibilità del ricorso, per difetto assoluto di firma, rilevabile anche d’ufficio, e quindi eventualmente eccepibile dalla parte interessata anche successivamente alla costituzione in giudizio mediante le controdeduzioni.

La lettura complessiva di ciascuno dei due motivi di ricorso evidenzia come essi, nonostante la loro formale rubricazione, abbiano la sostanza della denuncia di un errore in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, relativo alla pretesa inammissibilità dell’appello principale dell’Ufficio.

Tuttavia, entrambi i motivi sono inammissibili perchè non attingono la ratio decidendi della sentenza impugnata. Infatti, è la stessa ricorrente (pag. 11 del ricorso) a chiarire che sull’originale del ricorso in appello la sottoscrizione della persona fisica che rappresentava l’Amministrazione, “apposta con il colore blu”, “sembrava” stampata, piuttosto che autografa. La questione controversa era, pertanto, secondo la stessa ricorrente, se, sulla stampa del titolo e del nome del rappresentante dell’Ufficio, che pur riproducevano la menzione “firma autografa sostituita a mezzo stampa ai sensi del D.Lgs. n. 39 del 1993, art. 3, comma 2”, fosse stata, o meno, sovrapposta comunque l’effettiva firma autografa dello stesso rappresentante organico. A tale quesito la sentenza impugnata ha risposto accertando che l’atto reca la sottoscrizione “in originale” del funzionario, dato oggettivo che non è in contrasto logico o giuridico con la contemporanea menzione che la firma sia ” sostituita a mezzo stampa”. L’accertata presenza di una sottoscrizione originale ed autografa in calce al ricorso d’appello è infatti di per sè sola sufficiente (a prescindere dalla dizione della stampa sulla quale è sovrapposta) ad integrare il requisito di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1 e art. 18, comma 1, n. 3.

Nè, comunque, rileva il contrasto della decisione con una pretesa dichiarazione confessoria dell’Amministrazione, che non potrebbe ricorrere nel caso di specie, non avendo per oggetto diritti sostanziali ed essendo comunque la pretesa impositiva erariale indisponibile da parte dell’Ufficio.

Resta quindi assorbita la questione dell’inidoneità della firma sostituita a mezzo stampa, ai sensi del D.Lgs. n. 39 del 1993, art. 3, comma 2, al fine della sottoscrizione di atti processuali, e non amministrativi, delle Pubbliche Amministrazioni.

3. Con il terzo motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 ed 11; e dell’art. 77 c.p.c., comma 2, del D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 37, per non essersi il giudice a quo pronunciato sull’eccezione della contribuente relativa:

all’appartenenza del Dott. D.V.L.L., funzionario che ha sottoscritto l’appello dell’Ufficio come “capo area legale”, non alla Direzione provinciale di Roma II dell’Agenzia delle Entrate, che ha proposto l’impugnazione, ma alla Direzione provinciale di Roma VII;

b) alla circostanza che, comunque, il medesimo funzionario, in quanto “capo area legale”, non fosse preposto all’Ufficio controlli della Direzione provinciale di Roma II dell’Agenzia delle Entrate e non avesse pertanto il potere di sottoscrivere l’atto giudiziario in questione.

4. Con il quarto motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 ed 11 e dell’art. 77 c.p.c., del D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 37, comma 2, per non avere il giudice a quo ritenuto inammissibile l’appello, nonostante la contribuente avesse eccepito e documentato che il Dott. D.V.L.L., funzionario che ha sottoscritto l’appello dell’Ufficio, non apparteneva alla Direzione provinciale di Roma II dell’Agenzia delle Entrate, che ha proposto l’impugnazione, e non aveva pertanto il potere di sottoscrivere l’atto giudiziario in questione.

5. Con il quinto motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa od insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, relativo all’eccepita e documentata usurpazione, da parte del Dott. D.V.L.L., che ha sottoscritto l’appello dell’Ufficio, di impugnare, in nome e per conto dell’appellante Direzione provinciale di Roma II dell’Agenzia delle Entrate, la sentenza di primo grado.

5.1. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo vanno trattati

congiuntamente per la loro connessione, e la lettura complessiva di ciascuno di essi evidenzia come, nonostante la loro formale rubricazione, ciascuno abbia la sostanza della denuncia di un errore in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, relativo alla pretesa inammissibilità dell’appello principale dell’Ufficio. Tutti e tre i motivi sono infondati.

Infatti, non può configurarsi la denunciata omessa pronuncia della CTR sulla questione della legittimazione alla sottoscrizione dell’appello, atteso che la sentenza impugnata, dopo aver dato che la contribuente aveva sollevato l’eccezione di nullità dell’atto d’appello, ha rilevato che quest’ultimo era stato sottoscritto in originale dal “funzionario competente”, formula che, per quanto sintetica, esclude la carenza di potere e l’eccepita usurpazione da parte della persona fisica che ha firmato l’impugnazione.

Tanto premesso, deve rilevarsi, per il resto, che la questione della legittimazione processuale del soggetto che ha proposto l’appello in nome dell’Agenzia delle entrate va considerata alla luce del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 11, comma 2, che l’attribuisce impersonalmente all’Agenzia, e non al Direttore di quest’ultima.

Come è stato già osservato da questa Corte (Cass. 28/07/2016, n. 15743, in motivazione), si tratta di una previsione normativa che, all’evidenza, lascia spazio alla organizzazione interna dell’Agenzia e non indica espressamente una qualifica professionale del soggetto che è chiamato a firmare l’atto processuale nell’interesse dell’Agenzia.

Pertanto, deve ritenersi che, in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 ed 11, comma 2, del D.Lgs. n. 546, art. 10 e art. 11, comma 2, riconoscano la qualità di parte processuale e conferiscano la capacità di stare in giudizio all’ufficio del Ministero delle finanze (oggi ufficio locale dell’Agenzia delle entrate) nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze, cosicchè, nel caso in cui non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, questo deve ritenersi ammissibile, ancorchè recante in calce la firma illeggibile di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, finchè non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio che ne esprima la volontà (Cass. 28/07/2016, n. 15743, in motivazione, cit.. Nello stesso senso, ex plurimis, Cass. n. 2901 del 2019, in motivazione; Cass. n. 27570/2018; Cass. n. 15470 del 2016; Cass. n. 20628 del 2015; Cass. n. 220 del 2014; Cass. n. 27423 del 2013; Cass. n. 26004 del 2013; Cass. n. 13551 del 2010; Cass. n. 874 del 2009; Cass. n. 12768 del 2006).

Nel caso di specie, deve escludersi che la contribuente abbia provato la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado, attraverso la documentazione (cfr. pag. 14, nota 2 del ricorso, e relativo allegato già riprodotto in calce alla memoria in appello, per come ulteriormente riprodotto all’interno dello stesso ricorso, nella seconda pagina non numerata dopo la n. 10) sulla quale si fondano l’eccezione ed il relativo motivo, trattandosi di un estratto, dal sito web dell’Agenzia delle entrate, privo di datazione utile a collocare nel tempo, rispetto alla sottoscrizione dell’appello de quo, l’inserimento del predetto Di Vizio nell’organigramma della Direzione regionale del Lazio, piuttosto che in quello della Direzione provinciale appellante.

6.Con il sesto motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2 e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, oltre che “di ogni altra norma e principio in materia di ricorso all’accertamento induttivo nell’ipotesi di mancata dichiarazione dei redditi”, assumendo che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi (dipesa da un asserito errore del suo commercialista) non sarebbe un presupposto sufficiente per l’utilizzo dell’accertamento induttivo, essendo necessaria altresì la ricorrenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, nel caso di specie insussistenti, atteso che la contribuente aveva dimostrato e documentato che nel relativo anno d’imposta aveva sostenuto costi deducibili (che l’Ufficio aveva ritenuto, nel verbale di contraddittorio preventivo finalizzato all’accertamento con adesione, interamente deducibili); aveva tenuto regolarmente i libri contabili e depositato i relativi bilanci; aveva provveduto ai versamenti periodici dell’Iva ed ai versamenti a saldo ed in acconto delle imposte sui redditi; e non aveva operato in regime di antieconomicità, avendo anzi riconosciuto al suo amministratore (altresì suo socio al 60%) un rilevante compenso annuo (di lire 18.000.000 nel 2000, ed in media di Euro 30.000,00).

7.Con il settimo motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, relativamente alla sussistenza dei presupposti per procedere all’accertamento induttivo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2.

7.1. I due motivi – che si limitano a censurare, rispettivamente, l’individuazione normativa astratta e la motivazione della sussistenza in concreto dei presupposti dell’accertamento praticato dall’Agenzia-vanno trattati congiuntamente e sono infondati.

Infatti ” In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere – dovere dell’Amministrazione è disciplinato dal D.P.R. n. 600 del 1973, non già dell’art. 39, bensì dall’art. 41, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui al D.P.R. cit., art. 38, comma 3, -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio.” (Cass. 15/06/2017, n. 14930; conforme Cass. 13/02/2006, n. 3115). Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l’incontestata omissione della dichiarazione di cui al Modello Unico relativo all’anno d’imposta 2000 costituisce, di per sè sola, il presupposto, necessario e sufficiente, dell’accertamento induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, predetto art. 41.

8.Con l’ottavo motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 2 e dell’art. 2967 c.c., oltre che “di ogni altra norma e principio in materia di prova dei fatti di causa e di sussistenza di costi deducibili non conteggiati”.

9. Con il nono motivo, la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la contraddittoria ed omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, relativamente al mancato riconoscimento della deducibilità di costi ulteriori rispetto alla percentuale del 40% dei ricavi accertati, riconosciuta dall’accertamento induttivo e confermata dal giudice a quo.

9.1. I due motivi, per la loro connessione, vanno trattati congiuntamente e sono infondati.

Infatti, “In tema di accertamento induttivo cd. puro, l’Amministrazione finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anzichè quello netto.” (Cass. 23/10/2018, n. 26748). A tale principio si è uniformata l’Amministrazione, determinando induttivamente la predetta percentuale di costi deducibili.

La pretesa della ricorrente di veder riconosciuta la deducibilità di costi in misura superiore presuppone la prova, da parte della stessa contribuente, gravata del relativo onere (Cass. 26/05/2017, n. 13300, ex plurimis), dell’esistenza, dell’importo e dell’inerenza di tali componenti negative.

Nel caso di specie, la ricorrente non ha neppure allegato specificamente quali fossero i singoli costi la cui deduzione avrebbe inciso sull’imponibile in misura superiore alla percentuale induttivamente determinata dall’Ufficio, limitandosi a sostenere che la stessa Amministrazione, nel contraddittorio preventivo, aveva (con il processo verbale del 4 ottobre 2007, riprodotto nel ricorso) “riconosciuto per intero i costi scaturiti da tutta la documentazione prodotta.”.

Tale verbale, tuttavia, non è idoneo a supplire alle carenze del relativo motivo del ricorso in ordine alla specifica allegazione dei maggiori costi che si assumono pretermessi ed alla documentazione (con indicazione del grado e del fase del giudizio di merito nella quale sia stata prodotta) che dovrebbe supportarne il riconoscimento. Tanto meno, poi, potrebbe ritenersi che lo stesso verbale assolva al relativo onere probatorio, per effetto di un espresso riconoscimento, da parte dell’Ufficio, di tutti i costi “scaturiti da tutta la documentazione prodotta” dalla contribuente nel contraddittorio preventivo. Infatti, la lettura del verbale de quo, coordinata con quella del verbale del 3 ottobre 2007, pure riprodotto nel ricorso, evidenzia come il preteso “riconoscimento” dei costi da parte dell’Ufficio costituisse in realtà una delle condizioni che l’Amministrazione sarebbe stata disposta ad accettare per pervenire ad un accertamento con adesione che la contribuente, nonostante ciò, non ha tuttavia accettato. E, come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, “In tema di accertamento con adesione, la formulazione da parte dell’Ufficio di una proposta avente un contenuto ridotto rispetto alla pretesa impositiva, non determina nè la rinuncia alla stessa, nè il disconoscimento della consistenza probatoria degli atti istruttori esperiti, sicchè, nell’ipotesi di mancata adesione da parte del contribuente, l’Amministrazione procede legittimamente a dar corso all’avviso già notificato, che non perde efficacia, incombendo un onere aggravato di motivazione nei soli casi in cui il contraddittorio sia stato attivato anteriormente all’invio dell’avviso, e semprechè il contribuente abbia fornito elementi di valutazione.” (Cass. 16/11/2018, n. 29529).

Pertanto, la proposta formulata dall’Ufficio nel corso della trattativa, che non ha avuto buon fine, non è sufficiente a determinare nè il riconoscimento, nè la specifica l’allegazione e la prova in giudizio, di costi deducibili ulteriori rispetto alla percentuale già riconosciuta nell’accertamento impugnato.

10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.300,00, per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020

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