Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5789 del 03/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 03/03/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 03/03/2021), n.5789

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9747/2015 R.G. proposto da:

B.R.F., rappresentato e difeso, congiuntamente e

disgiuntamente, dall’Avv. D’Ippolito Ugo e dall’Avv. Ciarelli

Emilio, giusta mandato in calce al ricorso, elettivamente

domiciliato presso lo studio dell’Avv. Palmiero Clementino, in Roma,

Via Albalonga n. 7;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale

dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, n. 1011/2014,

depositata il 24 settembre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 dicembre

2020 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RITENUTO

Che:

1.La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo rigettava l’appello proposto da B.R.F. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Chieti n. 241/5/2013, che aveva accolto solo parzialmente il ricorso proposto dal contribuente contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate per l’anno 2008, per la somma di Euro 46.175,00, poi ridotta ad Euro 29.900,00 dalla Commissione provinciale, che aveva preso atto di quanto avvenuto nel corso del procedimento di accertamento con adesione e del provvedimento di autotutela parziale. Il giudice di appello rilevava che l’eventuale illegittimità dell’autorizzazione all’acquisizione di documentazione bancaria non incideva sul valore probatorio dei dati acquisiti e che non vi era un obbligo di instaurare un contraddittorio preventivo con il contribuente. I versamenti confluiti sul conto corrente, poi, si presumevano rappresentativi di corrispettivi imponibili in forza di una vincolante valutazione legislativa, mentre il contribuente avrebbe dovuto offrire la prova liberatoria dimostrando la riferibilità di ogni singola movimentazione. Il rispetto del termine dilatorio di 60 giorni di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12 non riguardava la fattispecie dei prelevamenti e dei versamenti. Era onere del contribuente dimostrare che gli elementi su cui si fondavano le movimentazioni bancarie non si riferivano ad una operazione imponibile.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.

3. Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate.

4.L’udienza di discussione veniva fissata su richiesta della Agenzia delle entrate, “a seguito di diniego di domanda di definizione agevolata D.L. n. 119 del 2018, art. 6-7 “.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la “violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, c.p.c.. Violazione e falsa applicazione della L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24 della in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, c.p.c.”, in quanto vi sarebbe stata violazione da parte dell’Amministrazione finanziaria dell’obbligo di esperire il contraddittorio preventivo, prima dell’adozione dell’avviso di accertamento, nonchè di rispettare il termine dilatorio di 60 giorni, previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, tra la chiusura dell’attività ispettiva e l’adozione dell’avviso di accertamento. Tale avviso è stato notificato al contribuente in data 7 novembre 2012, ben prima quindi che si concludesse una qualsiasi fase di contraddittorio anticipato.

1.1. Tale motivo è infondato.

1.2. Invero, per questa Corte la presunzione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32 del consente all’Amministrazione finanziaria di riferire “de plano” ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente, salva la prova contraria da parte di costui, e la legittimità della utilizzazione degli elementi risultanti dalle movimentazioni bancarie non è condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio con il contribuente sin dalla fase dell’accertamento, posto che il citato art. 32 prevede quel contraddittorio alla stregua di mera facoltà, non di obbligo, dell’amministrazione tributaria (Cass., 26 aprile 2017, n. 10249; Cass., 5 dicembre 2014, n. 25770; Cass., 28 luglio 2000, n. 9946;).

1.3. Inoltre, in assenza di un accesso diretto della Agenzia delle entrate presso il luogo in cui si esplica l’attività lavorativa (accertamento “a tavolino”) non trova applicazione il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni tra la data del rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo e l’emissione dell’avviso di accertamento.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 38 e 40 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.”.

In particolare, si deduce che l’Ufficio è incorso in evidente contraddizione del contenuto di due atti distinti: da un lato, l’avviso di accertamento, notificato per primo, dall’altro il verbale di contraddittorio in adesione del 25 gennaio 2013, che aveva contenuto diverso dal primo, con conseguente manifesta indeterminatezza dell’atto da impugnare. La sentenza impugnata non avrebbe detto nulla in ordine all’esistenza di due atti contraddittori, incorrendo nella violazione del disposto dell’art. 112 c.p.c.. Tra l’altro, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 2, prevede espressamente che “la rettifica deve essere fatta con unico atto”. Il fatto decisivo sul quale la commissione regionale non si sarebbe pronunciata consisterebbe proprio nel non aver considerato quanto dedotto dal contribuente in ordine all’esistenza di due distinti provvedimenti dal contenuto contraddittorio.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Invero, come risulta pacificamente dagli atti, nei confronti del contribuente stato emesso un unico avviso di accertamento, mentre la riduzione del quantum dovuto è stata determinata dalla difesa del contribuente in sede di accertamento per adesione, ove l’agenzia delle entrate ha riconosciuto un minor reddito del ricorrente per l’anno di imposta in contestazione.

3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.”.

Il ricorrente, infatti, avrebbe chiesto invano alla Commissione regionale di attivare i propri poteri istruttori d’ufficio, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, anche mediante espletamento di consulenza tecnica d’ufficio per la corretta rideterminazione del reddito del contribuente. Su tale motivo di ricorso il giudice di appello non si è pronunciato, nè ha evidenziato le ragioni del rigetto della richiesta.

3.1. Il motivo è infondato.

3.2. Invero, per giurisprudenza costante di questa Corte ia consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato (Cass., sez. 6-1, 13 gennaio 2020, n. 326; Cass., sez. 1, 23 marzo 2017, n. 7472).

Nella specie, sono chiare le ragioni per cui il giudice di appello ha inteso non disporre la consulenza tecnica d’ufficio, avendo ritenuto che la sussistenza sul conto corrente del contribuente di versamenti e prelevamenti costituivano presunzione della natura reddituale degli stessi, sicchè era onere del contribuente fornire la dimostrazione che tali movimentazioni si riferivano ad operazioni non imponibili. Non essendo stata, dunque fornita tale prova, secondo la prospettazione del giudice di appello, non è stata conseguentemente disposta la consulenza tecnica d’ufficio, attesa a dimostrare l’effettiva natura delle movimentazioni.

Costituisce infatti principio altrettanto consolidato quello per cui la consulenza tecnica d’ufficio non può essere utilizzata per sollevare la parte dall’onere della prova dei fatti costitutivi del diritto o estintivi della pretesa su di essa incombenti (CTU deducente). Solo in caso di CTU percipiente è possibile far accertare dal consulente tecnico d’ufficio anche i fatti costitutivi o quelli estintivi (Cass., sez. 2, 20 gennaio 2017, n. 1606; Cass., sez. 6-3, 3 luglio 2020, n. 13736; Cass., sez. 1, 15 giugno 2018, n. 15774), quando essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone.

Invero, la C.T.U. costituisce un mezzo di ausilio per il giudice, volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico-scientifiche, e non un mezzo di soccorso volto a sopperire all’inerzia delle parti; essa, tuttavia può eccezionalmente costituire fonte oggettiva di prova, per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di un perito. Ne consegue che, qualora la C.T.U. sia richiesta per acquisire documentazione che la parte avrebbe potuto produrre, l’ammissione da parte del giudice comporterebbe lo snaturamento della funzione assegnata dal codice a tale istituto e la violazione del giusto processo, presidiato dall’art. 111 Cost., sotto il profilo della posizione paritaria delle parti e della ragionevole durata (Cass., sez. 1, 15 settembre 2017, n. 21487).

4. Con il quarto motivo di impugnazione ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 32 e 38, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

In primo luogo, si rileva che l’agenzia delle entrate ha ripreso a tassazione voci relative movimentazioni bancarie che, però, erano già state prese in considerazione per la determinazione del reddito complessivo ed erano state anche riportate regolarmente nella contabilità ordinaria, mai contestata dall’Ufficio.

Inoltre, non è stata in alcun modo presa in esame la contabilità ordinaria del contribuente, e segnatamente i documenti prodotti con il ricorso di primo grado, tra i quali la contabilità ordinaria, il partitario bancario con specifico riferimento ai versamenti effettuati (documento n. 5), il partitario delle spese per il fabbisogno della famiglia (doc. n. 6), il partitario compensi dichiarati per l’anno 2007 (doc. n. 7), il partitario compensi dichiarati per l’anno 2008 (doc. n. 8), il partitario compensi dichiarati nell’anno 2009 (doc. n. 9), il partitario cassa assegni (doc. n. 10).

Il contribuente ha inoltre dedotto e provato, depositando copia della dichiarazione dei redditi (doc. n. 11) oltre alla documentazione bancaria (doc. n. 16) che dalla contabilità ordinaria emergeva chiaramente che aveva già contabilizzato i compensi ai fini della determinazione del reddito al momento del percepimento, anche se quei compensi erano stati incassati successivamente. Si evidenzia che nell’anno 2008 il ricorrente ha dichiarato compensi percepiti per Euro 85.837,00 a fronte di un reddito complessivo di Euro 46.765,00. Dal questionario inviato dall’ufficio e regolarmente compilato emerge che il totale dei versamenti inerenti l’attività professionale ammonta ad Euro 74.864,66 mentre quelli soggetti a rettifica e riportati nel verbale di accertamento ammontano ad Euro 32.400,00. Pertanto, sia la contabilità che la dichiarazione dei redditi riportano l’ammontare dei compensi percepiti in misura notevolmente superiore alla sommatoria dei versamenti sul conto corrente (Euro 85.387,00 dichiarati e percepiti; Euro 74.864,00 risultante dei versamenti sul conto corrente bancario), mentre quelli rettificati, pari ad Euro 32.400,00, sono notevolmente inferiori. Da ciò, si dovrebbe dedurre l’inverosimiglianza di quanto accertato dall’Ufficio, che ha ritenuto come ricavi dichiarati “non tracciabili” per Euro 85.387,00, mentre quelli tracciabili pari ad Euro 32.400,00 non sarebbero stati dichiarati,

Le spese sostenute pari ad Euro 13.775,09, che secondo ufficio costituirebbero ricavi in quanto non documentate, si riferiscono, in realtà, a spese per far fronte ai bisogni della famiglia (doc. n. 6). Tutti questi elementi non sono stati presi in considerazione dal giudice di appello, che si è limitato ad affermare che il contribuente non aveva assolto all’onere probatorio su di lui incombente, in virtù della inversione dell’onere della prova. In realtà, dalla documentazione indicata e prodotta in giudizio emerge che tale onere è stato ampiamente adempiuto dalla ricorrente.

5. Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” in quanto il giudice di appello ha ritenuto che il contribuente non ha fornito prova della correttezza delle imputazioni dei componenti positivi. La Commissione regionale, dunque, non ha tenuto conto dei documenti depositati in atti tra i quali: questionario agenzia delle entrate con risposta del contribuente (doc. n. 2), fatture emesse 2007-2008-2009 (doc. N. 3), contabilità ordinaria (doc. n. 4), partitari bancari (doc. n. 5), spese familiari (doc. n. 6), compensi 2007 (doc. n. 7), compensi 2008 (doc. n. 8), compensi 2009 (doc. n. 9), assegni (doc. n. 10), documentazione bancaria (doc. n. 16). Ciò rileva come omesso esame di un fatto decisivo, costituito dalla documentazione versata in atti.

5.1. I motivi quarto e quinto, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di stretta connessione, sono fondati.

5.2. Inoltre, va considerato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, trattandosi di presunzione legale relativa (in tal senso anche Corte Cost., 6 luglio 2000, n. 260; Corte Cost., 8 giugno 2005, n. 225), determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass., 29 luglio 2016, n. 15857). Infatti, in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, tutti i movimenti sui conti bancari del contribuente, siano essi accrediti che addebiti, si presumono, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, riferiti all’attività economica del contribuente, i primi quali ricavi e i secondi quali corrispettivi versati per l’acquisto di beni e servizi reimpiegati nella produzione, spettando all’interessato fornire la prova contraria che i singoli movimenti non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cass., 30 dicembre 2015, n. 26111).

5.3. Va, poi, osservato che, in tema di accertamenti bancari, ove il contribuente fornisca prova analitica della natura delle movimentazioni sui propri conti in modo da superare la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, il giudice è tenuto ad una valutazione altrettanto analitica di quanto dedotto e documentato, non essendo a tal fine sufficiente una valutazione delle suddette movimentazioni per categorie o per gruppi (Cass., 28 novembre 2018, n. 30786; Cass., sez. 6-5, 3 maggio 2018, n. 10480).

5.4. Infatti, come detto, in materia di accertamenti bancari, all’onere probatorio gravante sul contribuente che vuole superare la presunzione legale posta dalle predette disposizioni a favore dell’Erario – che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici -, di fornire non una prova generica, ma una prova analitica (sul punto, v. Cass. 26111 del 2015 e la copiosa giurisprudenza ivi richiamata) idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014), corrisponde l’obbligo del giudice di merito, da un lato, di operare una verifica rigorosa dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie – in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. n. 21800 del 2017) -, e, dall’altro, di dare espressamente conto in sentenza delle risultanze di quella verifica.

Al riguardo si rileva che per questa Corte, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, il contribuente può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, dovendo in questo caso il giudice di merito “individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative” (Cass. n. 11102 del 2017).

5.5.11 giudice di appello, con una motivazione del tutto generica, sostenuta solo da considerazione in diritto sulle regole di riparto dell’onere della prova in tema di prelevamenti e versamenti su conti correnti bancari, ha del tutto omesso l’esame analitico di ciascuna movimentazione bancaria, per palesare il ragionamento posto alla base del suo convincimento. A fronte della contestazione mossa dalla Agenzia delle entrate e delle prove contrarie fornite dal contribuente, la Commissione regionale avrebbe dovuto sindacare analiticamente ogni singola operazione bancaria, dando conto del ragionamento seguito per giungere alla conclusione che tutti i versamenti ed i prelevamenti” non erano assoggettabili a tassazione. Al contrario, il giudice di appello, con una motivazione solo in diritto ha trascurato l’esame di tutte le movimentazioni bancarie oltre che di tutta la documentazione prodotta dal contribuente ed elencata in modo specifico nel ricorso per cassazione, per dimostrare la riferibilità di tali movimentazioni, venendo meno al suo obbligo di motivazione.

6.Va anche precisato che, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, al lavoratore autonomo può essere applicata solo la presunzione di reddito imponibile dei “versamenti”, ma non quella dei “prelevamenti”.

Per questa Corte, dunque, la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, secondo cui sia i prelevamenti sia i versamenti operati sui conti correnti bancari, non annotati contabilmente, vanno imputati ai ricavi conseguiti, nella propria attività, dal contribuente che non ne dimostri l’inclusione nella base imponibile oppure l’estraneità alla produzione del reddito, si riferisce ai soli imprenditori e non anche ai lavoratori autonomi o professionisti intellettuali, essendo venuta meno, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, la modifica della citata disposizione, apportata dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402, sicchè non è più sostenibile l’equiparazione, ai fini della presunzione, tra attività d’impresa e professionale per gli anni anteriori (Cass., sez. 5, 11 novembre 2015, n. 23041).

6.1. Inoltre, costituisce principio consolidato, cui si aderisce, quello per cui l’utilizzazione dei dati acquisiti presso le aziende di credito guaii prove presuntive di maggiori ricavi o operazioni imponibili, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d’impresa o di lavoro autonomo, atteso che, ove non sia contestata la legittimità dell’acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito da essa ricavato, incombendo al contribuente l’onere di provare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti (Cass., sez. 5, 28 febbraio 2017, n. 5135; Cass., sez. 5, 23 aprile 2007, n. 9573; Cass., sez. 5, 13 ottobre 2011, n. 21132; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2001, n. 2435).

6.2. La presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, non è riferibile, dunque, ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti (Cass., sez. 5, 16 novembre 2018, n. 29572; Cass., sez. 5, 30 marzo 2018, n. 7951; Cass., sez. 5, 26 settembre 2018, n. 22931).

6.3.Deve, quindi, tenersi conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 228 del 2014 intervenuta dopo lo svolgimento del processo di appello. Invero, per questa Corte il mutamento normativo prodotto da una pronuncia d’illegittimità costituzionale, configurandosi come “ius superveniens”, impone, anche nella fase di cassazione, la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della disciplina risultante dalla decisione anzidetta; con l’ulteriore conseguenza che, ove la nuova situazione di diritto obiettivo derivata dalla sentenza d’incostituzionalità (nella specie, n. 228 del 2014, in tema di presunzione legale del maggior reddito desumibile dalle risultanze dei conti bancari D.P.R. n. 228 del 2014, ex art. 32, comma 1, n. 2, riferite, quanto ai prelevamenti, ai soli titolari di reddito di impresa, e, quanto ai versamenti, a tutti i contribuenti) richieda accertamenti di fatto non necessari alla stregua della precedente disciplina, questi debbono essere compiuti in sede di merito, al qual fine, ove il processo si trovi nella fase di cassazione, deve disporsi il rinvio della causa al giudice di appello (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2019, n. 34209).

7.La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie i motivi quarto e quinto; rigetta i motivi primo, secondo e terzo; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2021

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