Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5787 del 03/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 03/03/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 03/03/2021), n.5787

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22940/2014 R.G. proposto da:

Fattorie Toscane Società Agricola di N.N. & C. s.a.s.,

già Tenuta La Cava s.p.a., già Fattorie Toscane Società Agricola

s.p.a., in persona del socio accomandatario e legale rappresentante

N.N., rappresentata e difesa, giusta mandato a margine del

ricorso, dall’Avv. Cartoni Simona, elettivamente domiciliato presso

il suo studio, in Roma, Via Monte Santo n. 2;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, n. 1162/31/2014, depositata il 6 giugno 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 dicembre

2020 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Il Consorzio Fattorie Riunite chiedeva ed otteneva il 13-2-1992 un mutuo da parte dell’Istituto Federale di Credito Agrario per la Toscana per la somma di lire 3.000.000.000, con garanzia fornita, sia con fideiussioni che come “terzi datori di ipoteca”, da parte della società La Tenuta La Cava s.r.l. (poi Fattorie Toscane società Agricola s.p.a., poi Fattorie Toscane soc. Agricola di N.N. e C. s.a.s., attuale contribuente), con socio unico la F.lli F. s.p.a., e dei membri della famiglia F. ( G., R., P. ed E.). Resosi inadempiente il Consorzio, l’Istituto di credito intraprendeva una azione di recupero del credito, con pignoramento immobiliare per un credito di Euro 2.280.674,00 nei confronti di garanti (anche terzi datori di ipoteca oltre che fideiussori). Veniva, quindi, dichiarato nel 1997 il fallimento della F.lli F. s.p.a., socio unico della contribuente, con nomina da parte del curatore dell’amministratore. Questi, nel 1998, valutava il rischio connesso alla intrapresa esecuzione immobiliare quantificandolo in un importo pari al credito per il quale si procedeva. Iscriveva in bilancio, dunque, un debito nei confronti dell’istituto mutuante di lire 3.672.856.808, con una “contropartita” creditoria di pari importa nei confronti del debitore principale (il Consorzio) degli altri terzi datori di ipoteca (i F.) a titolo di rivalsa ai sensi dell’art. 2871 c.c. Tale credito venne svalutato, ma poichè la perdita non era certa e determinata, la deduzione della stessa fu rinviata in attesa che si fossero verificate le condizioni per la deduzione. Veniva, quindi, contratto un mutuo con l’Istituto Nazionale di Credito Agrario, già Istituto Federale di Credito Agrario, con deposito delle somme (lire 5.500.000.000,00) presso l’istituto mutuante. Sorta controversia con i F. in ordine alla somma da questi effettivamente dovuta a titolo di rivalsa, la contribuente, anzichè pagare il debito verso la banca, quale terzo datore di ipoteca, per evitare l’esecuzione forzata, decideva in data 21-2-2005 di “acquistare” il credito per il prezzo di Euro 2.334.465,58, con l’effetto di trasferire al cessionario gli accessori del credito e, quindi, le garanzie. Nella stessa data, quindi il 21-2-2005, la contribuente cedeva il credito ad una società di nuova costituzione (avvenuta nel 2004), ossia alla società La Cava Vecchia al prezzo di Euro 515.000,00. Quest’ultima, dopo quattro giorni, in data 25-2-2005, cedeva le quote per Euro 11.826.879,00, a P.G. e N.N., soci della Fattorie Toscane società agricola s.a.s.. Pertanto, una volta “cristallizzatasi” la perdita, la contribuente nella presentazione della dichiarazione dei redditi per l’anno 2005, poichè la “perdita” aveva acquisito il carattere della “certezza” e della “determinabilità”, operava una variazione in diminuzione dell’importo della stessa (Euro 2.001.620,48). L’Agenzia delle entrate, però, contestava la quantificazione della perdita e ne escludeva la deducibilità in ragione della “non inerenza” della “minusvalenza” subita, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 101,106 e 109. Le perdite su crediti erano state riportare nelle annualità 2007 e 2008, sicchè l’Agenzia rettificava anche le dichiarazioni dei redditi per quegli anni, ritenendo illegittime le compensazioni con tali perdite.

2. La società proponeva ricorso avverso gli avvisi di accertamento per gli anni 2005, 2007 e 2008, evidenziando la sussistenza della “inerenza” con riferimento alla deducibilità della minusvalenza, ai sensi il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1, e art. 109, comma 5. Inoltre, la società rilevava anche che gli avvisi erano illegittimi anche nella diversa ipotesi “peraltro meramente adombrata” di “perdita su crediti” ex art. 101, comma 5. La perdita su crediti aveva, infatti, assunto i caratteri della “certezza” solo con la cessione del credito nel 2005. Inoltre, la società contestava anche l’irrogazione delle sanzioni.

3.La Commissione tributaria provinciale di Pisa rigettava i ricorsi riuniti con sentenza n. 211/06/13 dell’11 ottobre 2013, evidenziando che la successiva vendita del credito, dopo l’acquisto di esso, per un valore di gran lunga inferiore a quello dell’acquisto, assumeva la finalità di creare una minusvalenza ai fini di avere un vantaggio meramente fiscale. Si trattava di una operazione “antieconomica” per la società contribuente, mentre non vi erano valide ragioni economiche della condotta, sì da potersi concretizzare una ipotesi di abuso del diritto, compiuta solo allo scopo di conseguire un vantaggio fiscale.

4. Con l’atto di appello l’Agenzia delle entrate censurava la sentenza in quanto erano state indicate le valide ragioni economiche, in grado di eliminare il prospettato abuso del diritto. L’acquisto del credito (con conseguente “surrogazione” nei diritti del creditore originario mutuante), in luogo della estinzione dello stesso, seguita dalla cessione del credito pro soluto da parte della contribuente, consentiva alla Fattorie Toscane di poter “azionare” l’intero credito, quale cessionaria dello stesso, invece che, per quota, come avente diritto alla “rivalsa” quale condebitore nei confronti dei coobbligati in solido. L’Acquisizione della somma di Euro 515.000,00 per la cessione del credito, aveva consentito un introito immediato del pagamento, anche se di importo inferiore al dovuto, mentre l’eventuale esecuzione immobiliare nei confronti dei “codatori” di ipoteca sarebbe potuta risultare infruttuosa. Era stata, comunque, fornita la prova della “concreta riduzione della garanzia patrimoniale idonea ad impedire, ridurre o ostacolare la (integrale) recuperabilità coattiva del credito”. Non vi era stato alcun abuso del diritto, non essendovi alcun vantaggio fiscale della contribuente. La società, quindi, aveva “dedotto, quale minusvalenza, un costo che avrebbe potuto dedurre (totalmente o parzialmente, a seconda dell’epilogo della vicenda), anche quale perdita su crediti”. Deduceva, altresì, l’omessa pronuncia sulle sanzioni.

5. La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello della contribuente, evidenziando che la perdita del credito non risultava dall’insolvenza di tutti i debitori e che neppure risultava dalla asserita “eventuale e concreta” riduzione della garanzia patrimoniale dei debitori, da non potersi considerare equiparabile alla esistenza in atto di procedure concorsuali aperte nei loro confronti. Tale perdita non risultava certa e precisa neppure nell’ammontare, in quanto la stessa contribuente aveva prospettato diverse soluzioni. Si trattava, quindi “di perdita priva dei requisiti che ne giustica(va)no la deduzione a norma del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, “. Mancava, poi, anche il requisito della “inerenza”, in quanto gli atti di acquisto e di cessione del credito erano “macroscopicamente antieconomici e irrazionali”, stante l’enorme sproporzione tra il prezzo di acquisto e quello di cessione, la concentrazione degli atti nel medesimo giorno.

6. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la contribuente.

7. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1.Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto, per la ricorrente, il giudice di appello si è pronunciato sulla fattispecie della “perdita su crediti” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, mentre l’avviso di accertamento relativo all’anno 2005 si era fondato solo sulla insussistenza della “inerenza” fiscale del componenti negativo di reddito costituito dall’importo di Euro 2.001.620,48, oltre che sulla indeducibilità delle minusvalenze di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 101,106 e 109. Inoltre, l’Agenzia, nelle controdeduzioni di primo grado, avrebbe escluso che si fosse in presenza di perdite su crediti, avendo affermato che tale contestazione non sarebbe mai stata “implementata dall’Ufficio”. Pertanto, il thema decidendum era rappresentato dall’accertamento o meno di “valide ragioni economiche giuste le quali l’odierna ricorrente, una volta acquisito un credito (anzichè pagato un debito), l’aveva ceduto ad un prezzo inferiore”. Pertanto, laddove il giudice di appello aveva ritenuto insussistenti i requisiti per la “perdita su crediti” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, sarebbe incorsa in vizio di ultrapetizione ai sensi dell’art. 112 c.p.c., essendo stato limitato il perimetro del giudizio solo alla dedotta indeducibilità della minusvalenza da cessione del credito, con possibile configurazione di una condotta di abuso del diritto, priva di valide ragioni economiche.

1.1.II primo motivo è infondato.

1.2.Invero, vanno riassunti i termini della controversia per comprendere la fattispecie in esame.

1.3.In data 13-2-1992 viene stipulato un mutuo tra il Consorzio e l’Istituto di Credito per lire 3.000.000.000. Il Consorzio Fattorie Riunite F. s.r.l. ha come socio e garante la società La Tenuta La Cava s.r.l. (poi Fattorie Toscane Società Agricola s.p.a, quindi l’attuale contribuente Fattorie Toscane soc. Agricola di N.N. e C. s.a.s., con soci P.G. e N.N.). Il mutuo viene garantito dalla contribuente La Tenuta La Cava s.r.l., sia con fideiussioni sia anche con ipoteca iscritta su immobile della contribuente, quale terza datrice di ipoteca. Terzi datori di ipoteca su altro compendio immobiliare sono i F. (Giampaolo, R., P. ed E.). Socio unico della società La Tenuta La Cava s.r.l. era la F.lli F. di F. s.p.a., che viene dichiarata fallita il 19-4-1997, con nomina dell’amministratore da parte della procedura fallimentare.

La società contribuente, quindi, anzichè pagare il debito nei confronti dell’Istituto di credito per Euro 2.334.465,58, preferisce acquistare il credito, in data 21-2-2005, per la medesima somma.

Lo stesso giorno il credito viene ceduto “pro soluto” per la somma di appena Euro 515.000,00 ad una società di nuova costituzione (nell’anno 2004), La Cava Vecchia, le cui quote vengono poi cedute a P.G. e N.N., soci ora della contribuente (Fattorie Toscane società Agricola di N.N. & C. s.a.), per la somma di Euro 11.826.879,00.

1.4. La contestazione della Agenzia delle entrate, per come riportata, in ampio stralcio, dalla ricorrente, muove dalla “non inerenza” fiscale del “componente negativo di detratto nell’anno 2005 per l’importo di Euro 2.001.620,48”. Si precisa nell’avviso di accertamento che tali componenti negative di reddito dovevano essere considerate come “minusvalenza indeducibile ai sensi dell’art. 101-106 e 109 Tuir, per l’importo di Euro 2.001.620,48 in quanto”, si trattava di “componenti negativi non inerenti”.

1.5.Pertanto, la contestazione non può dirsi limitata in via esclusiva alla indeducibilità di minusvalenze, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1, ma ricomprende, sia per l’indicazione fattuale della cessione del credito pro soluto, sia per la specifica individuazione delle norme sopra indicate, anche l’ipotesi della “perdita su crediti” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5.

1.6. In particolare, si rileva che la società contribuente, quale garante del Consorzio, per essere terza datrice di ipoteca, anzichè pagare il debito del Consorzio, consistente nella somma di Euro 2.334.465,58, ha preferito acquistare il credito del medesimo importo, in data 21-2-2005.

In tal modo, si è realizzata una “surrogazione legale” di pagamento per legge ai sensi dell’art. 1203 c.c., n. 3. (“la surrogazione ha luogo di diritto nei seguenti casi: …3) a vantaggio di colui che, essendo tenuto con altri o per altri al pagamento del debito, aveva interesse di soddisfarlo”). La funzione della surrogazione, infatti, secondo la dottrina, è quella di assicurare al terzo adempiente il recupero di quanto prestato consentendogli di avvalersi delle stesse azioni, garanzie e privilegi del creditore soddisfatto (funzione “recuperatoria”). In questa previsione rientra l’ipotesi del pagamento fatto dal debitore solidale, obbligato con gli altri debitori al pagamento del debito. Trattandosi di una vicenda traslativa del credito, a seguito del pagamento il surrogato subentra nella posizione giuridica del creditore soddisfatto. La surrogazione poi si distingue dalla cessione del credito in quanto essa si caratterizza per avere come suo presupposto l’adempimento dell’obbligazione e, anche a livello sistematico, appartiene proprio all’area del pagamento. Essa, quindi, rappresenta la vicenda traslativa di un credito già adempiuto, mentre la cessione del credito concerne un rapporto non ancora eseguito.

L’art. 2871 c.c., comma 2, (diritti del terzo datore che ha pagato i creditori iscritti o ha sofferto l’espropriazione), prevede che “il terzo datore ha regresso contro i fideiussori del debitore. Ha inoltre regresso contro gli altri terzi datori per la loro porzione”.

Ciò significa che il regresso nei confronti del fideiussore è dato per intero, ed in questo si distingue dal fideiussore (artt. 1299 e 1954 c.c.), mentre contro gli altri terzi datori il regresso è dato per la loro “rispettiva porzione”. Le quote di riparto sono uguali, tranne il caso in cui questi altri datori abbiano garantito solo una parte del debito; sicchè la contribuente, dopo aver acquisito il credito dell’Istituto mutuante, ben poteva agire in via esecutiva (essendo il processo esecutivo già in atto) nei confronti dei quattro datori di ipoteca (i fratelli F.) per l’80 % del credito.

Peraltro, la controversia in cui i quattro fratelli chiedevano di essere considerati ai fini del regresso come una unitaria quota del 50 % è stata rigettata in sede giurisdizionale dovendo essi sopportare la quota dell’80 %.

1.7. Resta da valutare come debba essere qualificata la cessione di un credito pro soluto ad un prezzo inferiore all’effettivo valore di tale credito, all’interno delle componenti negative di reddito di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, se si tratti, quindi, di deducibilità della minusvalenza, derivante da un atto di disposizione, ex art. 101 TUIR, comma 1, oppure di “perdita su crediti” ai sensi dell’art. 101 TUIR, comma 5.

1.8. Sul punto la dottrina è divisa. Infatti, una parte di essa opta per la deducibilità della componente negativa del reddito derivante dalla cessione del credito pro soluto reputandola una “minusvalenza”. Si sostiene, invero, che le minusvalenze sono caratterizzate dalla conversione del credito in altra forma di ricchezza sicchè nascono da un assetto negoziale bilaterale ed oneroso. Il “realizzo” di cui all’art. 101 TUIR, comma 1, allora, presuppone a monte un atto di cessione del diritto verso corrispettivo. Se, quindi, vi è una cessione onerosa del credito, la componente negativa reddituale emerge per la contrapposizione tra costo fiscalmente riconosciuto del bene ceduto e prezzo di cessione. In tali casi, dunque, non vi è necessità che sussista la “certezza” della perdita, come accade invece per la perdita su crediti. Nella cessione pro soluto, poi, non viene meno la prospettiva della aleatorietà dell’incasso, in quanto il cedente garantisce l’esistenza del diritto, ma non la solvibilità del debitore ceduto. Si sottolinea, peraltro, che non può escludersi anche in queste condotte un’ipotesi di abuso del diritto, in quanto l’elusione potrebbe configurarsi non tanto nel contratto di cessione del diritto, quanto nella fase anteriore di acquisizione del bene. Dovranno però individuarsi, in questo caso, l’abnorme assetto negoziale, il risparmio di imposta e la mancanza di ragioni economiche.

1.9.Altra parte della dottrina, invece, è dell’avviso che quando il credito è ceduto pro soluto ad un prezzo inferiore al suo effettivo valore si è in presenza di una perdita su crediti.

In particolare, si rileva che se i crediti rientrassero tra i beni di cui all’art. 66 TUIR, comma 1, quindi tra le minusvalenze deducibili, non si comprenderebbe la ragione della loro distinta menzione anche nel comma 5 dello stesso articolo. L’art. 101 TUIR, comma 1, infatti, si riferisce esclusivamente alla nozione di “beni”, ma non di “crediti”, che sono menzionati soltanto nell’art. 101 TUIR, comma 5. La nozione di perdita su crediti, quindi, attrae anche quei differenziali di valore realizzati in sede di cessione onerosa che per gli altri beni rappresentano invece minusvalenze patrimoniali.

1.10. Si è fatto poi riferimento, in dottrina anche alla possibilità di contestare alla società cedente il credito una condotta elusiva ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ora L. n. 212 del 2000, art. 10-bis. Infatti, si verte in ipotesi di elusione fiscale laddove emerge un differenziale negativo dalla cessione, ma, alla luce dell’insieme delle operazioni economiche della complessa strategia aziendale in cui si inserisce la cessione del credito, si manifesti un evidente intento elusivo.

1.11.Per questa Corte, nei pochi precedenti rinvenuti, l’ipotesi della cessione del credito pro soluto “a prezzo vile” rientra tra le “perdite su crediti”.

In particolare, con la sentenza n. 13181 del 4 ottobre 2000, questa Corte ha affermato che i crediti possono essere ricompresi nelle immobilizzazioni o nell’attivo circolante. La distinzione tra le due voci si rinviene nell’art. 2424-bis c.c., in base al quale “gli elementi patrimoniali destinati ad essere utilizzati durevolmente debbano essere iscritti fra le immobilizzazioni”. Pertanto, nel caso esaminato da quella decisione, trattandosi di crediti verso clienti, gli stessi non potevano rientrare fra le immobilizzazioni finanziarie e dovevano essere iscritti, in uno schema di stato patrimoniale, nell’attivo circolante, generando possibili perdite. Tali perdite non potevano essere confuse con le minusvalenze. Tale ultimo concetto, infatti, riguardava il minor valore di realizzo di beni inseriti nello stato patrimoniale, tra cui potevano essere incluse le svalutazioni di immobilizzazioni finanziarie che non costituivano partecipazioni, rispetto al costo di acquisizione, dedotte le eventuali quote di ammortamento per quanto atteneva i beni materiali strumentali.

Più recentemente questa Corte (Cass., 24 luglio 2014, n. 16823) ha ripreso tale tema (perdite derivanti da cessione di credito), in ragione dello squilibrio fra il valore nominale dei crediti ceduti ed il corrispettivo pattuito per la cessione. Si è ribadito, quindi, che la cessione pro soluto dei crediti ritenuti inesigibili non dà luogo a minusvalenze patrimoniali deducibili, ma comporta la deducibilità degli stessi solo laddove ricorrono le condizioni di cui all’art. 101 TUIR, comma 5. E’ necessario, allora, che le perdite risultino da elementi certi precisi ovvero che il debitore sia stata assoggettata procedure concorsuali, non comportando la cessione pro soluto “comunque” la deducibilità delle perdite, ancorchè in assenza di previsione in bilancio di un fondo accantonamento rischi su crediti, la cui esistenza comporta che le perdite sono deducibili soltanto per l’eventuale quota non coperta dall’accantonamento stesso (Cass., n. 15563 dell’11 novembre 2020).

Il corrispettivo pattuito per la cessione di un credito non ha in sè alcun rilievo ai fini dell’accertamento dell’esistenza di elementi “certi” e “precisi”, di cui all’art. 101 TUIR, comma 5, in quanto è necessario che si dimostri che tale cessione corrisponda ad una effettiva riduzione di valore reale del credito stesso. Pertanto, solo nel caso di assoggettamento del debitore a procedure concorsuali si verifica un automatismo nella deducibilità delle perdite su crediti, proprio per le garanzie che le procedure concorsuali forniscono sul piano della certezza della insolvibilità e della precisione dell’entità delle perdite. Al contrario, in tutti gli altri casi è richiesta la prova dell’esistenza di elementi certi e precisi per la deducibilità delle perdite su crediti.

Ciò significa che ai sensi dell’art. 101 TUIR, comma 5, con riferimento alle ipotesi di perdite su crediti determinate da cessioni pro soluto, gli elementi di certezza e precisione non riguardano solo la perdita emergente dalla cessione in sè considerata, ma anche gli elementi che, a monte, hanno indotto alla cessione medesima, come dimostrato anche dalla valenza “presuntiva” attribuita nell’ambito della medesima norma all’assoggettamento del debitore a procedura concorsuale (Cass., sez. 5, 20 novembre 2001, n. 14568, sempre in tema di deducibilità delle perdite derivanti da cessione pro soluto di crediti ritenuti inesigibili; più recentemente Cass., sez. 5, 26 febbraio 2020, n. 5183). E’ onere, quindi, del contribuente, in caso di cessione di crediti pro soluto, documentare, attraverso elementi certi e precisi, che la perdita risultante dalla cessione sia da intendersi come oggettivamente definitiva.

Del resto, il discrimine tra “perdite su crediti” e “svalutazione di crediti” si correla alla “definitività” del venir meno della posta attiva, nel senso che, alla stregua di un giudizio prognostico, si ha perdita del credito quando esso è divenuto definitivamente inesigibile, mentre si ha svalutazione quando il credito è solo temporaneamente non realizzabile (Cass., sez. 5, 4 maggio 2018, n. 10686). Le perdite su crediti possono essere dedotte soltanto per la parte eccedente l’ammontare dell’accantonamento dei rischi su crediti nei precedenti esercizi (Cass., sez. 5, 3 aprile 2019, n. 9237).

Particolarmente chiara è, poi, la pronuncia di questa Corte (Cass.,. 6 ottobre 2011, n. 20450), citata anche dalla società contribuente nel ricorso per cassazione, con cui si è rilevato che il corrispettivo per la cessione del credito non ha alcun rilievo ove non si dimostri che esso corrispondeva ad una effettiva riduzione di valore reale del credito stesso, riduzione che, però, non può essere giustificata se non “con una riduzione della garanzia patrimoniale generale” offerta dalla società debitrice in misura tale da rendere impossibile la realizzazione completa del credito in questione. Non ha, del pari, alcun rilievo la circostanza che la cessione fosse o meno riconducibile in se stessa ad una razionale scelta imprenditoriale, l’unico dato rilevante essendo la riduzione del valore reale del credito.

1.12.Resta, peraltro, necessaria la sussistenza del requisito fondamentale della “inerenza”, ex art. 109 TUIR, comma 5, che vale per tutte le componenti negative di reddito, siano esse minusvalenze ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1, siano esse perdite su crediti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, (Cass., sez. 5, 14 gennaio 2015, n. 447).

Si è anche recentemente affermato, da parte di questa Corte che, ai fini della deducibilità della perdita su crediti, quali componenti negativi del reddito di impresa, il contribuente deve fornire la prova circa la loro inerenza all’attività imprenditoriale (Cass., sez. 6-5, 8 aprile 2019, n. 9784). Infatti, in tale decisione si è affermato che anche la dimostrazione, fornita dal contribuente dell’esistenza del credito, fatturato e accertato giudizialmente, e dell’insolvibilità del debitore, persino conclamata dalla dichiarazione di fallimento e dalla nota del curatore attestante la mancanza di riparto per i crediti chirografari, unitamente all’utilizzabilità della perdita di credito per l’anno d’imposta in cui venne pronunziata la dichiarazione di fallimento, non esimono, comunque, il contribuente dal comprovare che la deduzione si riferisse ad una pregressa tassazione del ricavo, poi divenuto inesigibile.

In dottrina si è chiarito che la perdita deve trovare collocazione temporale nel periodo d’imposta in cui diviene efficace l’atto traslativo (cessione del credito) e l’impresa si priva così in tutto o in parte della titolarità del diritto.

Tuttavia, entrambi gli orientamenti, sia quello che utilizza la categoria delle “minusvalenze patrimoniali”, sia quello che ricorre alla categoria delle “perdite su crediti”, convergono poi sulla piena rilevanza del differenziale negativo da cessione pro soluto nel calcolo del reddito dell’impresa cedente. Occorre, quindi, poi, valutare, in entrambe le ipotesi, l’inerenza della componente negativa del reddito all’attività imprenditoriale. Pertanto, sia che la cessione del credito pro soluto sia ricondotta alle minusvalenze patrimoniali di cui all’art. 101 TUIR, comma 1, sia se incasellato invece tra le perdite di cui all’art. 101 TUIR, comma 5, il differenziale negativo deve confrontarsi con l’ordinario giudizio di inerenza. In tal caso, si sottolinea che l’incongruenza di un onere sulla base del parametro medio dell’imprenditore può costituire un forte indicatore della non inerenza della componente negativa e del suo carattere erogatorio, anzichè produttivo. Pertanto, la società che ha effettuato la cessione di credito pro soluto deve essere in grado di rappresentare le ragioni di convenienza economica che hanno determinato l’accettazione di un corrispettivo molto inferiore al valore nominale dei crediti ceduti.

1.13.Nella specie, dunque, la Commissione regionale affrontando il tema della cessione del credito pro soluto sub specie di “perdita sui crediti” ed in stretta relazione con il principio di inerenza, e giungendo a reputare “antieconomica” e “irrazionale” la condotta della contribuente che ha praticato, nella cessione del credito, un prezzo macroscopicamente antieconomico, è rimasta nell’ambito del perimetro del giudizio. La non inerenza era, infatti, indicata espressamente nell’avviso di accertamento (cfr. pagina 39 del ricorso per cassazione che ne riporta lo stralcio “si trattava di componenti negativi non inerenti”).

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto il giudice di appello si è limitato ad osservare che la cessione del credito era antieconomica ed irrazionale e, dunque, sintomatica di una strumentalizzazione di entrambi gli atti alla cristallizzazione della perdita. Pertanto, sia l’acquisto del credito sia la successiva cessione ad un prezzo molto inferiore a quello di acquisto sottendevano, non tanto un interesse apprezzabile a porli in essere, ma semplicemente l’intento di dedurre una perdita, sub specie di minusvalenza.

Tuttavia il giudice di appello ha omesso di valutare le seguenti circostanze di fatto: l’acquisto del credito aveva garantito la successione della cessionaria (contribuente) in tutte le azioni del precedente creditore, anche nei confronti degli altri cogaranti; l’acquisto del credito, anzichè il pagamento del debito, avrebbe consentito alla contribuente di poter agire nei confronti degli altri cogaranti per l’importo dell’intero credito; la vendita del credito pro soluto avrebbe escluso che gli altri cogaranti potessero eccepire, al successivo cessionario, le eccezioni che avrebbero potuto sollevare al cedente (quale cogarante). Pertanto, è evidente che si sarebbe dovuto escludere che l’intento fosse quello del paventato abuso.

2.1.Tale motivo è infondato.

2.2.Invero, in primo luogo si rileva che l’appello è stato depositato il 22-112013, sicchè trova applicazione il principio della doppia conformità del giudizio di merito, di cui all’ar. 348 ter c.p.c., sicchè non può essere articolato dalla ricorrente il vizio di motivazione. Infatti, sia la sentenza di prime cure che quella di secondo grado, pur muovendo da differenti indirizzi (la CTP con riferimento all’abuso del diritto in relazione alle due operazioni collegate, ed alla connessa minusvalenza indeducibili, la CTR con riferimento alla perdita su crediti), finiscono per incentrare il rigetto delle istanze della contribuente nel difetto di inerenza, per la macroscopica antieconomicità della cessione del credito, compiuta lo stesso giorno dell’acquisto dello stesso, ad un prezzo enormemente inferiore a quello di acquisto.

Inoltre, la sentenza di appello è stata depositata l’8-6-2014, sicchè il vizio di motivazione va modulato in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, applicabile alle sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012.

2.3. Pertanto, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. 27415 del 2018).

Inoltre si chiede una rivisitazione delle risultanze istruttorie, già valutate con attenzione dal giudice di merito, non consentita in questa sede.

Nella specie, il giudice di appello ha tenuto conto dei due elementi dedotti dalla contribuente nel motivo di ricorso per cassazione, ossia l’acquisto del credito della società dall’Istituto di credito in data 21-2-2005 al prezzo di lire 2.334.465,58 e la cessione dello stesso credito, pro soluto, nello stesso giorno, ad una società di nuova costituzione, composta dai medesimi soci della contribuente, a prezzo di appena Euro 515.000,00. Si legge, infatti, nella motivazione che “gli atti di acquisto e di cessione di credito che ne hanno consentito l’emersione sono macroscopicamente antieconomici e irrazionali, stante, da un lato, l’enorme sproporzione tra il prezzo di acquisto e quello di cessione, e, dall’altro, la concentrazione di essi nel medesimo giorni, e quando era nota, o doveva essere nota, secondo l’impostazione difensiva, la svalutazione per oltre 3/4 del credito acquistato”.

Inoltre, il giudice di appello ha aggiunto che “antieconomicità ed irrazionalità sono sintomatiche di strumentalizzazione di entrambi gli atti alla cristallizzazione della perdita, mentre ne era in corso il recupero in via esecutiva e senza rinunciare all’esecuzione, quando, cioè, non ne era ancora consentita la deduzione, per mancanza di dimostrata oggettività e definitività”. La Commissione regionale ha anche precisato che “gli atti di acquisto e cessione in questione sono stati preceduti a breve distanza di tempo (nel 2004) dalla costituzione, da parte dei soci della cedente, del soggetto (La Cava vecchia s.r.l.) resosi cessionario, così restando concentrata nelle mani delle stesse persone fisiche la gestione degli interessi di cedente e cessionario”, con l’ulteriore specificazione che “gli atti sono stati seguiti, a distanza di pochi giorni (25-2-2005), dalla cessione delle quote dei soci della cedente all’attuale appellante”.

Inoltre, in motivazione vengono anche affrontate le argomentazioni della contribuente, laddove si rileva che “non appare superfluo rilevare che la garanzia patrimoniale è costituita dall’intero patrimonio immobiliare e mobiliare dei debitori, all’epoca in cui se ne asserisce l’inesistenza o la riduzione, e cioè, nella specie all’epoca della dichiarazione della perdita fatta al fisco per il 2005. Nessuna prova significativa in proposito è stata data, tali non potendosi considerare le ragioni esposte nell’appello, e segnatamente la prolungata durata della procedura esecutiva, a causa di opposizioni, con connesso rischio di perdite solo eventuali all’esito”.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce “in subordine rispetto al precedente motivo, la violazione dell’art. 53 Cost. e del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 101, comma 1, e art. 109, comma 5, in relazione all’art. 360, comma 1, numero 3 c.p.c.”, in quanto, come anche statuito dalla Corte di cassazione (sentenza n. 20450/2011), la cessione di un credito di qualsiasi natura nei confronti di un soggetto non sottoposto a procedura concorsuale, per un corrispettivo inferiore al suo valore nominale, può configurare una perdita deducibile soltanto se il contribuente dimostra, sulla base di elementi certi e precisi, una riduzione della garanzia patrimoniale idonea ad impedire, ridurre od ostacolare la (integrale) recuperabilità coattiva del credito. Il giudice di appello, quindi, sembrerebbe muovere da una qualificazione della condotta come abusiva, ritenendo non necessaria alcuna indagine sulla perdita subita.

3.1. Tale motivo è infondato.

Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione del principio giurisprudenziale invocato proprio da parte ricorrente, e segnatamente del decisum della sentenza di questa Corte n. 20450 del 2011, come già evidenziato nel paragrafo 1.11.

La Commissione regionale ha, infatti, affermato con chiarezza che la mera pendenza di una procedura esecutiva, da molti anni, non costitutiva dimostrazione della inesistenza del credito vantato dalla contribuente. Il giudice di appello ha precisato che “anzi, la pendenza dell’azione esecutiva contro i debitori, e la mancata rinuncia ad essa, nonostante il lungo tempo decorso e le contestazioni mosse, sono sintomatiche della esistenza, all’epoca stessa, e della persistenza, anche l’attualità, della oggettiva satisfattività della garanzia offerta dai patrimoni aggrediti, oltre che della idoneità della garanzia stessa a soddisfare adeguatamente le ragioni della contribuente per capitale ed interessi”.

4.Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione dell’art. 101 TUIR, comma 1, e 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la società aveva dedotto, ai sensi dell’art. 101 TUIR, comma 1, una minusvalenza, mentre il giudice di appello avrebbe ritenuto che i presupposti della deducibilità delle minusvalenze da cessione del credito fossero le stesse previste in caso di perdita su crediti. In realtà, però, ai fini della deducibilità di una minusvalenza, anche da cessione del credito, la legge non impone alcuna condizione. Pertanto, ai fini della deducibilità della minusvalenza, l’oggetto dell’indagine non era costituito dalla valutazione dell’esistenza, alla data della cessione, di una perdita definitivamente ed irreversibilmente subita, ma doveva valutarsi se ii prezzo di cessione del credito (Euro 515.000) fosse stato effettivamente, alla data della cessione, la misura del suo valore. Tale fatto non sarebbe stata esaminato ed invece costituiva l’unico rilevante ai fini della decisione in punto di deducibilità della minusvalenza.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2.Anzitutto, si rileva che la ricorrente chiede una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiutamente effettuata dal giudice di appello e non consentita in questa sede.

Inoltre, il giudice di appello ha incasellato la fattispecie in esame nell’istituto della perdita su crediti, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5, e non nella indeducibilità della minusvalenza da cessione di credito, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1.

Va anche aggiunto che il prezzo di cessione del credito per la somma di Euro 515.000,00, non corrispondeva certo alla misura del suo valore, se nella stessa data, quindi il 21-2-2005, la società contribuente lo aveva acquistato dall’Istituto di credito per la somma di gran lunga superiore pari ad Euro 2.334.465,58.

Pertanto, sia che si inquadri la fattispecie come minusvalenza, sia che si incaselli la stessa come perdita su crediti, l’enorme divario fra il prezzo di acquisto del credito e quello di cessione dello stesso pro soluto, nella medesima giornata, è indizio limpido della non inerenza del costo ai fini del reddito di impresa.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente si duole “dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.”, in quanto il giudice di appello ha escluso la deducibilità del costo sia quale perdita su crediti sia quale minusvalenza da cessione. Quanto alla perdita su crediti, l’indeducibilità sarebbe derivata dalla mancanza dei presupposti di cui all’art. 101 TUIR, comma 5, (” elementi certi e precisi”) e, quanto alla minusvalenza, in quanto generata con comportamento negoziale abusivo. L’oggetto dell’indagine da parte del giudice di appello, quindi, quanto alla minusvalenza realizzata, si sarebbe dovuto incentrare sulla corrispondenza tra il valore reale del credito ed il prezzo pattuito per il suo trasferimento. Secondo la ricorrente, la vendita del credito per Euro 515.000, acquistato lo stesso giorno, in luogo del pagamento di un debito, costituiva un prezzo vantaggioso, rispetto alle concrete possibilità di realizzazione, in base alla complessità delle vicende giudiziarie sottese al credito. Pertanto, secondo la ricorrente, “se il prezzo di cessione di credito (Euro 515.000) fosse stato effettivamente-alla data della cessione-la misura del suo valore, è un fatto del quale il giudice omesso l’esame”.

5.1.Tale motivo è infondato.

Invero, anzitutto si rileva che si sta chiedendo una nuova valutazione delle risultanze istruttoria già congruamente effettuata dal giudice di merito, e non consentita in questa sede.

Inoltre, da un lato, si rileva che il giudice di appello ha esaminato tutti i i fatti rilevanti relativi all’acquisto del credito dall’Istituto di credito ed alla cessione pro soluto dello stesso nella medesima giornata ad un prezzo “vile”, e dall’altro, i rischi di riscossione del credito acquistato attraverso la procedura esecutiva pendente non costituiscono un “fatto” la cui omissione potrebbe inficiare la sentenza del giudice di appello. Questi, invece, ha in modo chiaro evidenziato che proprio la pendenza dell’azione esecutiva contro i debitori e la mancanza rinuncia ad essa, nonostante il lungo tempo decorso e le contestazioni mosse, era sintomatica della esistenza, all’epoca stessa, e della persistenza, anche in quel momento, della oggettiva “satisfattività” della garanzia offerta dai patrimoni aggrediti.

Pertanto, secondo la Commissione regionale non vi era corrispondenza tra valore reale del credito ed il prezzo pattuito per il suo trasferimento, tanto è vero che gli atti di acquisto e di cessione del credito hanno costituito, per la loro assoluta antieconomicità ed irrazionalità, sintomo evidente di strumentalizzazione di entrambi gli atti alla cristallizzazione della perdita.

6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “in subordine l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.”, in quanto il giudice di appello avrebbe evocato il principio di inerenza quantitativa nel senso che, ai fini della deduzione di un costo, questo dovrebbe corrispondere ad una logica economica apprezzabile. In questa valutazione, però, il giudice avrebbe omesso di esaminare un fatto, all’evidenza decisivo, costituito dalla circostanza che, quello oggetto di vendita, era un credito che la società aveva acquistato da un istituto di credito a favore del quale, la ricorrente si era resa garante. Pertanto, l’acquisto del credito era avvenuto in luogo del pagamento del debito, non trattandosi di un mero acquisto. I contratti di acquisto e di vendita, ritenuti come macroscopicamente antieconomici e irrazionali dal giudice di appello, non sarebbero stati tali se valutati alla stregua della allegata circostanza di fatto.

6.1. Il motivo è infondato.

Invero, la contribuente, una volta acquistato il credito per la somma di Euro 2.334.465,58, lo ha ceduto nella stessa giornata ad un prezzo enormemente inferiore (Euro 515.000). La circostanza che il credito acquistato dall’Istituto di credito era oggetto di garanzia da parte della società, la quale si era costituita terza datrice di ipoteca, unitamente ai membri della famiglia F., è stata presa in considerazione dal giudice di appello (cfr. motivazione della sentenza di appello “la vicenda ha origine da un mutuo di lire 3 miliardi, erogato nel 1992, dall’Inca al Consorzio Fattorie Riunite F. SrI di cui erano soci e garanti La Tenuta La Cava s.r.l. – originaria ragione sociale della Fattorie Toscane società agricola s.p.a. – e membri della famiglia F.”).

La Commissione regionale ha anche evidenziato “il valore sintomatico di preordinazione al risparmio di imposta che i primi giudici sembrano avere attribuito anche alle vicende sociali e debitorie precedenti gli atti negoziali come innanzi esaminati”.

Pertanto, il giudice di appello ha dimostrato di avere ben compreso l’intera dinamica delle operazioni effettuate nel corsi degli anni dalla società contribuente, dal rilascio delle garanzie, anche reali (terza datrice di ipoteca), sino all’acquisto del credito ed alla successione cessione pro soluto dello stesso a prezzo “vile”.

7. Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione dell’art. 112 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 53 e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice di appello ha affermato che, in relazione alla applicazione delle sanzioni, che la contribuente non ha spiegato quali fossero le ragioni su cui si fondavano le asserite condizioni di obiettiva incertezza sulla portata e l’ambito di applicazione delle norme. Il giudice di appello, dunque, avrebbe emesso una pronuncia in rito, in quanto avrebbe di fatto ritenuto che la domanda non fosse sorretta da “un motivo”. Al contrario, secondo la ricorrente, sulla base del tenore letterale degli atti processuali trascritti nel ricorso, le condizioni di obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma sarebbero costituite “dalle stesse argomentazioni sviluppate “dalle parti in contesa”. La difficoltà di individuare la norma astratta applicabile, in relazione alla configurazione della condotta della contribuente, e quindi per valutare se si trattava di minusvalenze indeducibili o di perdite su crediti, avrebbe giustificato l’eliminazione delle sanzioni. La Commissione regionale, quindi, avrebbe dovuto rendere una pronuncia in merito.

7.1. Il motivo è infondato.

7.2. Invero, il giudice di appello ha risposto in modo espresso alla richiesta di eliminazione delle sanzioni, con un provvedimento di rigetto.

Tra l’altro, dalla stessa motivazione della Commissione regionale emerge in modo chiaro che la condotta della contribuente è stata rappresentata come “macroscopicamente” antieconomica ed irrazionale. Non v’è stata, dunque, una pronuncia in rito, ma una decisione nel merito, in quanto proprio la peculiarità del comportamento della contribuente che ha dapprima acquistato il credito per un prezzo superiore ad Euro 2.000.000 e poi, lo stesso giorno, lo ha ceduto ad una società costituita l’anno prima, con successiva cessione delle quote ai due soci della attuale ricorrente, ha dimostrato la legittimità dell’applicazione delle sanzioni, in assenza di condizioni di obiettiva incertezza delle norme.

8.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 10.200,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2021

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