Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5782 del 12/03/2014


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 5782 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

t

SENTENZA
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 12514/’08) proposto da:
LOMBRICI OLINDO (C.F.: LMB LND 30D24 E975Q), rappresentato e difeso, in virtù di
procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Ulisse Bardani ed elettivamente domiciliato
presso lo studio dell’Avv. Giuseppina Bevivino, in Roma, Via Flaminia, n. 388;
– ricorrente –

contro
TASSI LUCIANA (C.F.: TSS LCN 59R66 G478J); TASSI ALFIO (C.F.: TSS LFA 54L20
G478D); TASSI ANTONELLA (C.F.: TSS NNL 63S52 G478N); TASSI ANNARITA (C.F.:
TSS NRT 57M69 G478I) e LUSTRI ARGENTINA (C.F.: LST RNT 30H68 G478A), la prima
in proprio e gli altri quali eredi di Tassi Pietro, tutti rappresentati e difesi, in virtù di procura
speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Alessandro Covino ed elettivamente

4 1cf

f4

Data pubblicazione: 12/03/2014

domiciliati presso lo studio dell’Avv. Lorenzo Nardone, in Roma, piazza Cola di Rienzo, n.
92;

– controricorrenti e nei confronti di

BRACONI ENRICO; BRECCOLOTTI SUSANNA; LIBERTI LUCIA e LIBERTI LUCA, quali
eredi di Liberti Bruno;

– intimati –

2008 e notificata il 7 marzo 2008;
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 6 febbraio 2014 dal
Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
uditi gli Avv.ti Ulisse Bardani, per il ricorrente, ed Elisabetta Nardone (per delega),
nell’interesse dei controricorrenti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lucio
Capasso, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso, con il
conseguente assorbimento di tutti gli altri motivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione dell’aprile 1995, il sig. Lombrici Olindo conveniva in giudizio, dinanzi
al Tribunale di Perugia, i sigg. Luciana e Pietro Tassi, nonché Braconi Enrico e Liberti
Bruno, per sentir dichiarare che il proprio fondo (identificabile con le particelle 8,9 e 181
del foglio 268 del C.T. di Perugia) era libero da servitù di passaggio in favore dei predetti
convenuti (i Tassi quali proprietari del fondo individuato con la particella n. 238 e i LibertiBraconi con quello di cui alle particelle 17 e 18), oltre che per la condanna dei medesimi al
ripristino della via vicinale di S. Maria della Collina che essi avevano modificato, causando
un allagamento alla proprietà di esso attore. Nella costituzione dei convenuti (che
formulavano anche domanda riconvenzionale), il Tribunale adito, all’esito dell’espletata
istruzione probatoria, con sentenza n. 318 del 2004, accoglieva la domanda

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Avverso la sentenza della Corte di appello di Perugia n. 11/2008, depositata il 17 gennaio

riconvenzionale come proposta nell’interesse dei convenuti Tassi, affermando la
sussistenza della reclamata servitù con relativa condanna dell’attore al ripristino
dell’originario passaggio ed accoglieva, altresì, la domanda principale riguardante
l’esperita “actio negatoria servitutis” nei soli confronti dei convenuti Liberti-Braconi,
respingendo, peraltro, nei riguardi di questi ultimi, l’ulteriore domanda di ripristino dei

Interposto gravame da parte del Lombrici e nella resistenza degli appellati Tassi e degli
altri appellati Braconi-Liberti (che proponevano, a loro volta, appello incidentale), la Corte
di appello di Perugia, con sentenza n. 11 del 2008 (depositata il 17 gennaio 2008),
confermava la sentenza impugnata, condannando l’appellante principale alla rifusione
delle spese del grado a vantaggio di Tassi Luciana e degli eredi di Tassi Pietro (intervenuti
in giudizio) e compensando integralmente il carico delle spese con riferimento al rapporto
processuale intercorso tra il Lombrici e i Liberti-Braconi.
A sostegno della adottata decisione, la Corte umbra rilevava la correttezza della
statuizione di primo grado con riguardo all’accertata esistenza della dedotta servitù in
favore dei Tassi alla stregua dell’esplicitazione della volontà delle parti trasparente dall’atto
di provenienza e del criterio ermeneutico della buona fede e, allo stesso modo, riteneva
congruo il ragionamento del primo giudice circa l’insussistenza del lamentato danno da
parte del Lombrici (avuto riguardo all’irrilevante accertata modificazione del regime delle
acque) ed in ordine all’insussistenza delle complessive condizioni necessarie per ritenere
acquisito per usucapione il diritto di servitù da parte dei Braconi-Liberti.
Il sig. Lombrici Olindo ha impugnato in cassazione la citata sentenza di appello (notificata
il 7 marzo 2008) con un ricorso articolato in dieci motivi, avverso il quale hanno resistito
con controricorso i soli Tassi Luciana e gli eredi (già costituiti nel giudizio di secondo
grado) di Tassi Pietro, mentre le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva in
questa sede.
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luoghi.

Il difensore dei controricorrenti ha anche depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. .

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente Lombrici Olindo ha censurato la sentenza impugnata
per assunta violazione e falsa applicazione dell’ad. 1418, comma 2„ e 1325, punti nn. 2 e

(“ratione temporis” applicabile alla fattispecie, risultando la sentenza impugnata pubblicata
il 17 gennaio 2008) il seguente quesito di diritto: “dica la Corte di cassazione se la
pattuizione con cui la parte venditrice costituisca una servitù di passo in favore del

compratore proprio sulla particella oggetto di compravendita sia da considerare nulla ai
sensi dell’art. 1418 c.c. in correlazione all’art. 1325 nn. 2 e 3 c.c., e se, in caso di nullità,
sia consentita o meno l’applicazione dei criteri interpretativi ex ad. 1362 e segg. c.c.; se di
tale clausola debba essere, pertanto, dichiarata la nullità senza ulteriori indagini ex ad.
1362 e segg. c.c. qualora le parti non abbiano sollecitato l’applicazione dell’ad. 1424 c.c. e
se, inoltre, l’applicazione dell’ad. 1424 c.c. possa essere effettuata, o meno, dal giudice
anche d’ufficio”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’ad.
1366 c.c., in relazione alli art. 360 n. 3 c.p.c., ponendo il seguente quesito di diritto: “dica la
Code di cassazione se il criterio interpretativo di cui all’ad. 1366 c.c. possa essere
utilizzato anche nel caso in cui la comune intenzione delle parti risulti espressa e riflessa
nel testo letterale della pattuizione”.

3. Con il terzo motivo il ricorrente ha prospettato la violazione e falsa applicazione degli
artt. 1362, comma 2, 1363 e segg. c.c., nonché degli artt. 99 e 112 c.p.c., ex ad. 360 n. 3
c.p.c., formulando il seguente quesito di diritto: “dica la Code di cassazione se il ricorso ai
criteri ermeneutici integrativi di cui agli artt. 1362, comma 2, 1363 e segg. c.c., sia
consentito solo qualora l’interpretazione letterale sia valida e non affetta da nullità, e si

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3, c.c., in relazione all’ art. 360, n. 3, c.p.c., formulando, ai sensi dell’ad. 366 bis c.p.c.

tratti perciò unicamente di prescegliere e di far prevalere una diversa interpretazione
rispetto a quella desumibile letteralmente, in quanto quest’ultima appare affetta da
inconvenienti ovvero appare improduttiva di effetti ovvero in quanto si tratti di far prevalere
tra varie diverse interpretazioni possibili, tutte valide e legittime, quella che non appare
affetta da possibili inconvenienti e che sia, invece, produttiva di effetti. Per converso, se il

dalla stessa formulazione letterale della clausola, e se in tale caso debbano sopperire non
già i criteri interpretativi degli artt. 1362, comma 2, e 1363 c.c., ma unicamente il rimedio
dell’art. 1424 c.c., unica norma destinata a trovare applicazione, ogni qualvolta le
espressioni letterali usate dalle parti determinino di per se stesse la nullità del contratto o
della singola pattuizione”.
v.,Lv.
4. Con il quartainarrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt.

1366 c.c. e degli artt. 99 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., formulando il
seguente quesito di diritto: “dica la Corte di cassazione se il ricorso ai criteri ermeneutici
integrativi di cui agli artt. 1362, comma 2, e segg. c.c., sia possibile e consentito solo
qualora la pattuizione da interpretare non sia intrinsecamente nulla, e se, in caso di
riconosciuta nullità, l’unico mezzo sostanziale per sottrarre il contratto o la clausola dalla
declaratoria di nullità sia la conversione del contratto nullo, per la quale occorre, peraltro,
specifica domanda di parte”.

5. Con il quinto mezzo il ricorrente ha dedotto — sempre ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. —
la supposta violazione e falsa applicazione degli artt. 1366 e 2466 c.c., esponendo, al
riguardo, il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. nei seguenti termini: “dica la Corte di
cassazione se i criteri interpretativi-integrativi del contratto, di cui agli artt. 1362, comma 2,
1363 e segg. c.c., e se, in particolare, l’interpretazione ex art. 1366 c.c. valga solo tra le
parti contraenti e stipulanti, ovvero sia opponibile, ex art. 2644 c.c., anche a terzi aventi
causa dalle stesse”.
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ricorso ai predetti criteri possa o meno avvenire in presenza di una nullità che emerge

6. Con la sesta censura il ricorrente ha prospettato — ancora in relazione all’art. 360 n. 3
c.p.c. – la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, comma 2, 1363 e segg., 1366
c.c., nonché la violazione dei principi di diritto in tema di gerarchia tra i criteri interpretativi
del contratto, indicando il seguente quesito di diritto: “dica la Corte di cassazione se, prima
di fare applicazione del criterio interpretativo-integrativo di cui all’ad. 1366 c.c., occorra far

intenzione delle parti, in base al loro comportamento complessivo, anche posteriore alla
conclusione del contratto”.
7. Con il settimo motivo (proposto subordinatamente al mancato accoglimento delle
precedenti doglianze) il ricorrente ha dedotto il vizio di omessa e/o insufficiente e/o
contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia relativo alla mancata
valutazione della planimetria costituente parte essenziale del rogito del 1959, poiché, in
base alla stessa, sarebbe stato possibile ricostruire l’effettiva volontà delle parti,
graficamente rappresentata, senza necessità di far ricorso ad alcun criterio interpretativointegrativo.
8. Con l’ottavo motivo il ricorrente ha inteso far valere la supposta violazione — avuto
riguardo all’art. 360 n. 3 c.p.c. — degli artt. 949 e 2697 c.c., deducendo, in proposito, il
seguente quesito di diritto: “dica la Code di cassazione se colui che agisce con actio
negatoria servitutis, sia tenuto o meno a dimostrare anche l’inesistenza di modificazione
dello stato dei luoghi, successive all’atto da cui risulti l’inesistenza della servitù”.
9. Con il nono motivo il ricorrente ha dedotto un ulteriore profilo di omessa e/o insufficiente
e/o contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia attinente alla ritenuta
irragionevolezza della rappresentazione grafica allegata al predetto rogito notarile.
10. Con il decimo ed ultimo motivo il ricorrente ha denunciato l’omessa e/o insufficiente
e/o contraddittoria motivazione attinente alla ritenuta inutilità della clausola con la quale
era stata previsto il diritto di passaggio sulla sola parte di strada del Tiriduzzi che portava
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riferimento al criterio di cui all’ad. 1362, comma 2, c.c., ai fini di indagare sulla comune

alla particella 238 alla v. Settevalli, qualora interpretata nel senso di costituire la servitù
limitatamente ad un ben distinto tratto della strada.
11. Rileva il collegio che i primi sei motivi del ricorso sono esaminabili congiuntamente in
quanto risultano strettamente connessi ed attinenti alla critica dei criteri ermeneutici
applicati dalla Corte di appello perugina con riferimento alla ricostruzione del contenuto

ottobre 1959 con il quale l’originario proprietario del fondo (prima unico) in questione,
Tiriduzzi Pietro, aveva alienato ai coniugi Dominici-Tortoioli — che, successivamente,
venderanno ai germani Tassi e alla signora Lustri Argentina — parte della residua proprietà
(identificantesi con la particella 238, scaturente dal frazionamento della particella 7),
stabilendosi, nel relativo atto di compravendita, la costituzione del diritto di passaggio
“sulla strada privata del compratore” per accedere al terreno.
In particolare, con le prime sei complesse censure formulate (assistite da idonei quesiti di
diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., “ratione temporis” applicabile), il ricorrente lamenta,
in sostanza, la supposta illegittimità della disposta conversione d’ufficio della nullità
afferente il negozio costitutivo del diritto di servitù (siccome la relativa pattuizione si
sarebbe dovuta considerare priva della sua causa giuridica, stante l’irragionevolezza
logico-giuridica della costituzione di una servitù di passo in favore del proprietario della
strada), realizzatasi con il conferimento — ad opera della Corte territoriale —
dell’attribuzione del riferimento alla parola “venditore” in sostituzione di quella di
“compratore” risultante dal titolo di vendita (considerata inserita dallo stesso giudice di
appello quale conseguenza di un mero “lapsus calami”), anche in virtù della prospettata
violazione dei criteri interpretativi applicabili in ambito contrattuale (e, in particolar modo,
del loro regime di graduazione) e della ravvisata illegittimità della pregnante valorizzazione
del criterio integrativo della buona fede previsto dall’art. 1366 c.c. (ritenuto — ingiustamente
– prevalente su quelli primari di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c.), senza, oltretutto,
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della clausola costitutiva della controversa servitù inserita nell’atto presupposto del 20

considerare che la Corte perugina non aveva dato rilievo anche al contenuto della nota di
trascrizione, nella quale era stata riprodotta la suddetta clausola nei medesimi termini
emergenti dal titolo di provenienza.
Ritiene il collegio che la ricostruzione giuridica operata dalla difesa del ricorrente non sia
meritevole di pregio per le seguenti ragioni.

nella giurisprudenza di questa Corte: v., ad es., Cass. n. 10498 del 2001 e, da ultimo,
Cass. n. 6633 del 2012) secondo cui il giudice non è legittimato ad esaminare d’ufficio la
questione della conversione del negozio giuridico nullo, osserva, tuttavia, il collegio che,
nella fattispecie, non può ritenersi che la Corte territoriale abbia propriamente provveduto
(in conformità del disposto di cui all’art. 1424 c.c.) ad una conversione del contratto
intercorso tra le parti, mutandolo in un contratto diverso, ma si è limitata ad interpretare —
nella contrapposizione tra le parti — la convenzione costitutiva della servitù di passaggio
(inserita nel più ampio contesto di un atto di vendita), pervenendo alla ragionevole
conclusione — sul piano ermeneutico — che il riferimento alla parola “compratore” aveva
costituito il frutto di un mero errore riconducibile all’attività del notaio rogante nel riportare
nell’atto la volontà espressa dalle parti, dovendosi, in effetti, ritenere che egli avesse
inteso volersi riferire (esattamente) al “venditore”.
Invero, al fine di valutare la sussistenza dei presupposti (non ricorrenti nel caso di specie)
per la configurazione della possibilità di conversione del contratto nullo, ai sensi
dell’articolo 1424 c.c., è necessario (cfr. Cass. n. 5451 del 1980 e, da ultimo, Cass. n.
6004 del 2008) che si proceda ad una duplice indagine, l’una rivolta ad accertare la
obiettiva sussistenza di un rapporto di continenza tra il negozio nullo e quello che
dovrebbe sostituirlo e l’altra implicante un apprezzamento di fatto sull’intento
negoziale dei contraenti, riservato al giudice di merito, diretta a stabilire se la

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Pur ritenendosi condivisibile — sul piano generale – il richiamato principio (già affermato

volontà che indusse le parti a stipulare il contratto nullo possa ritenersi orientata
anche verso gli effetti del contratto diverso.
Diversamente, la Corte di secondo grado (conformemente al giudice di prima istanza) ha
risolto correttamente la “questio iuris” in discorso ponendo riguardo ai criteri ermerneutici
codicistici, conferendo preminenza — in funzione della ricostruzione della effettiva volontà

servitù inserita nel contesto complessivo dell’atto di vendita che la conteneva — al canone
della buona fede (che conduceva a ritenere che il riferimento alla parola compratore nella
clausola fosse il frutto di un “lapsus calami”).
Del resto, il giudice di appello ha rafforzato — con motivazione indubbiamente sufficiente —
il suo convincimento anche sul piano logico. Invero, la Corte umbra, dopo aver descritto la
situazione dei luoghi e riportato analiticamente le vicende relative alle alienazioni del fondo
(originariamente unico) appartenente al Tiriduzzi successivamente frazionato, ha
evidenziato che, proprio in virtù del tenore della clausola costitutiva del diritto di servitù (“i
compratori e loro aventi causa hanno diritto di passo sulla strada privata del compratore
per accedere al terreno in oggetto”) e sul presupposto che i compratori (coincidenti con i
danti causa dei Tassi-Lustri) non avevano acquistato alcuna strada, ne sarebbe dovuto
scaturire che — dovendosi attribuire un significato plausibile alla previsione contrattuale (e,
quindi, anche un’idoneità alla stessa sul piano dell’efficacia) – non poteva che trattarsi della
strada privata del “venditore”.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha, in proposito, chiarito che, se è vero che
per accertare il contenuto e la portata di una servitù costituita convenzionalmente il giudice
di merito deve cogliere l’intenzione delle parti, fondandosi anzitutto sulle espressioni
letterali usate, è altrettanto vero che qualora permangono dubbi, per insufficienza del
criterio utilizzato, deve fare ricorso alle altre regole dell’ermeneutica che disciplinano la
interpretazione dei contratti. Pertanto, a tale scopo, deve considerare le finalità che le parti
9

delle parti in ordine alla previsione della controversa clausola costitutiva del diritto di

hanno voluto raggiungere, tenendo conto dello stato dei luoghi, della consistenza e
ubicazione dei fondi, dell’utilità del fondo dominante che si vuole perseguire con il peso
imposto, con contemperamento delle esigenze dei due fondi, il dominante e il servente, al
quale deve essere arrecato il minimo aggravio, il tutto nell’ottica della valorizzazione del
canone della buona fede (di cui all’art. 1366 c.c.) al quale deve comunque ispirarsi il

In merito, deve sottolinearsi che il criterio della buona fede nella interpretazione dei
contratti è funzionale ad escludere il ricorso a significati unilaterali o contrastanti
con un criterio di affidamento dell’uomo medio; esso rappresenta, perciò, il punto di
congiunzione tra la ricerca della reale volontà delle parti (costituente il primo
momento del processo interpretativo, in base alla comune intenzione ed al senso
letterale delle parole) ed il persistere di un dubbio sul preciso contenuto della
stessa volontà contrattuale (in base ad un criterio obbiettivo, fondato su di un
canone di reciproca lealtà nella condotta tra le parti, ed inteso alla tutela
dell’affidamento che ciascuna parte deve porre nel significato della dichiarazione
dell’altra), e rappresenta, pertanto, un criterio ermeneutico utilmente invocabile e,
quindi, valorizzabile quando il giudice del merito non abbia, attraverso l’esame degli
elementi di prova raccolti, già “aliunde” accertato, in modo univoco e logico,
l’effettiva volontà delle parti (cfr., in proposito, per opportuni riferimenti, Cass. n. 6819
del 2001 e Cass. n. 5239 del 2004).
Del resto il risultato ermeneutico conclusivo a cui è pervenuta la Corte perugina soddisfa,
dal punto di vista logico-giuridico, anche il principio generale in base al quale “nemini

res sua servir, il quale, per l’appunto, trova applicazione quando uno stesso
soggetto sia titolare del fondo servente e del fondo dominante, non essendo,
invero, possibile configurare una servitù qualora lo stesso fondo si trovi a rivestire,
contemporaneamente, in ordine alla medesima utilità oggettiva, la qualità di
10

percorso ermeneutico.

dominante e di servente, essendo caratteristica delle servitù quella di essere uno

“ius in re aliena” (cfr. Cass. n. 1738 del 1969 e Cass. n. 4697 del 1986).
Rileva il collegio che non coglie nel segno — al fine della confutazione del dictum della
Corte perugina — nemmeno la specifica censura dedotta dal ricorrente con il quinto motivo
(in punto trascrizione), alla stregua del quale, pur qualora si fosse voluta ritenere valida

servitù mediante la sostituzione della parola “venditore” a quella di “compratore”, essa non
sarebbe stata opponibile ai terzi, i quali erano tenuti a rispettare solo il contenuto della
trascrizione nella quale la clausola controversa era stata riprodotta in modo identico,
ragion per cui non sarebbe stato possibile per il Lombrici dedurre — dal mero tenore della
nota — chi fosse il reale soggetto passivo della servitù.
Ed invero la censura non tiene conto del dato essenziale che la funzione della nota di
trascrizione non è quella di sostituire l’atto a cui si riferisce, ma di conferire la
dovuta (trattandosi di immobili) pubblicità all’atto trascritto, che continua a regolare
la fattispecie in base a quelli che ne sono i contenuti. In altri termini, la trascrizione
non supplisce all’atto né lo elide, ma lo rende conoscibile ai terzi, che in base alla
nota stessa sono così in grado di sapere quale sia la effettiva situazione del bene in
questione; tuttavia, i diritti spettanti non potranno che essere desunti dall’atto, che
costituisce l’unico assetto regolatore di eventuali controversie al riguardo. Tanto

rende inconsistenti le considerazioni dedotte, nel caso di specie, dal ricorrente in ordine
alla pretesa inconferenza dell’interpretazione dell’atto compiuta dalla Corte umbra, senza
valutare i corrispondenti dati desumibili dalla nota di trascrizione.
12. Ciò posto con riguardo ai primi sei motivi, ritiene il collegio che i restanti quattro (di cui
il 70, 9 0 e 10 0 rivolti alla prospettazione di vizi motivazionali e l’ottavo relativo alla supposta
violazione degli artt. 949 e 2697 c.c.) siano inammissibili per mancata osservanza del
requisito stabilito dal richiamato art. 366 bis c.p.c..
11

l’interpretazione dell’atto pubblico di vendita contenente la clausola costitutiva del diritto di

Detta norma processuale, nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso
in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo,
una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza
dei motivi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., ovvero del motivo
previsto dal numero 5 della stessa disposizione.

quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come
attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dicta”
giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in
rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (il cui oggetto riguarda il solo “iter”
argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da
rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto
controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a
giustificare la decisione.
Orbene, con riferimento ai motivi settimo, nono e decimo del ricorso, va evidenziato che gli
stessi, all’esito dello svolgimento delle relative doglianze, non risultano corredati, in modo
specifico ed autonomo, delle necessarie sintesi dei vizi di supposta insufficienza
motivazionale e dall’indicazione del fatto controverso in ordine alle denunciate omissioni o
contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata.
L’ottavo motivo presenta, invece, un quesito di diritto (come già riportato in precedenza)
del tutto generico, la cui formulazione non risulta certamente idonea ad assumere
rilevanza ai fini della decisione della doglianza ed a chiarire l’errore di diritto imputato alla
sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (senza, oltretutto, trascurare di
evidenziare che lo stesso investe un inammissibile accertamento di fatto, siccome
adeguatamente motivato dalla Corte territoriale).
12

Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un

13. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere
interamente rigettato. Sussistono, tuttavia, giusti ed obiettivi motivi — riconducibili alla
peculiarità della fattispecie e alla controvertibilità di alcune delle questioni giuridiche
dedotte — per disporre l’integrale compensazione, fra le parti costituite, delle spese del
presente giudizio di legittimità (non occorrendo adottare, invece, alcuna pronuncia al

svolto attività difensiva in questa sede).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa, per intero, le spese del presente giudizio di
legittimità fra le parti costituite.

Così deciso nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 6 febbraio 2014.

riguardo circa i rapporti processuali instauratisi con le altre parti intimate, che non hanno

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