Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5711 del 09/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 09/03/2010, (ud. 12/01/2010, dep. 09/03/2010), n.5711

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8107-2008 proposto da:

T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI MILLE

41/A, presso lo studio dell’avvocato AMORELLI GIAMPIERO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA n. 175, (C/O

Direzione Affari Legali di Poste Italiane); l’avv. URSINO ANNA MARIA

ROSARIA, la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato ELENA

NIZZA, giusta mandato a margine del ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4181/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/12/2007 R.G.N. 5380/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/01/2010 dal Consigliere Dott. PAOLO STILE;

udito l’Avvocato AMORELLI GIAMPIERO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

T.A., dipendente dell’Amministrazione delle Poste, in conseguenza del suo arresto avvenuto in data (OMISSIS), veniva cautelarmente sospeso dal servizio a decorrere da tale data, ai sensi e per gli effetti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 91.

Successivamente, essendogli stata concessa la libertà provvisoria, veniva riammesso in servizio con decorrenza dal (OMISSIS).

Essendo intervenuta, in data 10.7.1987, sentenza penale definitiva di condanna per il reato di peculato ex art 314 c.p., il Ministero delle Poste, con provvedimento del Direttore centrale dell’11.9.1987, dichiarava il T. destituito di diritto dall’impiego D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ex art. 85 con effetto dalla data della sentenza.

Avverso detto provvedimento l’interessato proponeva ricorso al Giudice Amministrativo, respinto dal competente TAR. Il T. proponeva, quindi, appello al Consiglio di Stato che, con decisione n. 409 del 9.02.1990, pubblicata il 27.3.1990, procedeva all’annullamento del provvedimento impugnato in quanto adottato esclusivamente in forza del summenzionato art. 85, lett. a), dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte Costituzionale n. 971 del 14.10.1988, e faceva salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione in ordine all’apertura ed allo svolgimento del procedimento disciplinare a suo carico. In data 3.3.1990, ovvero prima che si concludesse il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato, il T. rivolgeva istanza di riammissione in servizio, ai sensi della L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 10 previo espletamento del procedimento disciplinare. A conclusione di tale procedimento, con D.M. del 4 agosto 1990, al T. veniva irrogata la sanzione disciplinare della sospensione della qualifica con privazione dello stipendio ai sensi dell’art. 81, lett. a), in relazione al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 80, lett. e) per la durata di sei mesi e riconosciuta la reintegrazione nel ruolo con la qualifica, il livello e l’anzianità posseduti al 21.9.1987, data in cui gli era stato comunicato il provvedimento di destituzione.

Il T. adiva, quindi, il Giudice del lavoro per accertare, ai fini della carriera, il diritto al computo del periodo intercorso tra la destituzione e la riammissione in servizio ( (OMISSIS)) nonchè il diritto alla sottrazione del periodo di sospensione cautelare dalla sospensione comminata in sede disciplinare e l’ulteriore diritto all’inquadramento nella qualifica di dirigente di esercizio UL dal (OMISSIS). Il Giudice di primo grado dichiarava la carenza di giurisdizione. Successivamente il Tribunale annullava la detta sentenza rimettendo le parti al primo giudice, che rigettava la domanda.

Avverso tale pronuncia proponeva appello il T. reiterando le domande di primo grado. Le Poste resistevano, chiedendo il rigetto del gravame. Con sentenza del 18 maggio 2006-18 dicembre 2007, l’adita Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della impugnata decisione, dichiarava il diritto dell’appellante alla sottrazione dal periodo di sospensione irrogata come sanzione disciplinare, del periodo (OMISSIS) di sospensione in via cautelare precedentemente disposta, rigettando le altre domande.

A sostegno della decisione e per quanto ancora interessa in questa sede, la Corte d’appello osservava che, pur se la L. n. 19 del 1990 era intervenuta pochi giorni dopo la decisione del Consiglio di Stato, le Poste si erano pienamente conformate al decisum del Consiglio di Stato, traducendo in atto, nel caso concreto, le prescrizioni dell’art. 10, comma 4, della Legge predetta, giusta la quale il dipendente riammesso è reintegrato nel ruolo con la qualifica, il livello e l’anzianità posseduti alla data di cessazione dal servizio.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre T.A. con tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste la società Poste Italiane con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, il T., denunciando violazione del giudicato formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato, sez. 6^, n. 409 del 1990 e dell’art. 2909 c.c. violazione e falsa applicazione della L. n. 19 del 1990, art. 10, spec. commi 2 e 4 omessa e/o insufficiente motivazione su altrettanti punti decisivi della controversia, violazione del principio secondo cui la rinuncia agli atti giudiziari e/o ai relativi effetti deve potersi desumere da atti idonei e non equivoci, violazione del D.L. 1 dicembre 1993, n. 487, art. 6, comma 2, e art. 10, comma 1, conv. in L. 29 gennaio 1994, n. 71 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), deduce che, contrariamente a quanto affermato dal Giudice a quo, la sua posizione sarebbe diversa da quella di altri richiedenti la riassunzione ex lege n. 19 del 1990 in quanto, a suo dire, l’annullamento del provvedimento di destituzione dall’impiego adottato dal direttore centrale ULA del D.P.R. n. 3 del 1957, ex art. 85, lett. a) con effetto dal 10.07.1987, sarebbe stato disposto a seguito della decisione del Consiglio di Stato n. 409/1990.

Da ciò il ricorrente trae argomento per affermare che l’obbligo amministrativo di provvedere all’apertura di un nuovo procedimento disciplinare sarebbe avvenuto proprio in virtù di tale decisione e non già per effetto della L. n. 19 del 1990. Il motivo è infondato.

E’ incontestato in causa ed affermato, del resto, dalla impugnata decisione che la legge appena menzionata è entrata in vigore anteriormente alla pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 409 del 9.2.1990 con cui è stato annullato il provvedimento di destituzione di diritto dall’impiego del T. adottato del D.P.R. n. 3 del 1957, ex art. 85, lett. a) con effetto dal 10.7.1987 “non per vizi intrinseci, bensì facendo applicazione della sentenza n. 971/1988 della Corte Costituzionale”.

Il Giudice amministrativo, con la citata decisione, nel dichiarare l’illegittimità del provvedimento destitutorio del T., in quanto adottato in forza di una norma – il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 85, lett. a) dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza 12/14 ottobre 1988 n. 981 della Corte Costituzionale – ha fatto salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione “in ordine all’apertura ed allo svolgimento del procedimento disciplinare del Sig. T. in conformità ai principi affermati dalla Corte Costituzionale”.

In questa situazione è indubbio che la pronuncia del Consiglio di Stato, passata in giudicato, fa stato nella fattispecie in esame, alla quale bene il Giudice a quo ha applicato il regime instaurato dalla L. n. 19 del 1990.

Questa Corte, infatti, ha chiarito che, nella norma della L. 7 febbraio 1990, n. 19, (art. 9) che elimina la destituzione automatica per i pubblici dipendenti, è ravvisabile – alla stregua della sentenza della Corte Costituzionale n. 134 del 1992 – un principio di portata generale, che è applicabile anche riguardo a provvedimento di destituzione a carico di dipendente dell’Ente delle Ferrovie dello Stato ed anche qualora detto provvedimento sia fatto oggetto d’impugnazione il cui giudizio sia pendente al tempo dell’entrata in vigore della citata legge (Cass. 24 febbraio 1993 n. 2250).

Ciò che si è verificato nella specie .considerato che prima del deposito della sentenza il giudizio deve ritenersi ancora pendente.

Ne consegue che alla data di pubblicazione della citata sentenza del Consiglio di Stato la L. n. 19 del 1990 era già entrata in vigore e il T. aveva già presentato all’Amministrazione istanza datata 3.3.1990, per essere riammesso in servizio ai sensi dell’art. 10, comma 2 di detta Legge, previa apertura di un nuovo procedimento disciplinare.

Quanto, poi, alla reiterata doglianza del T. in ordine all’assimilazione della sua posizione a quella dei richiedenti la riassunzione L. n. 19 del 1990, ex art. 10 è opportuno riportare quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 415 del 19.11.1991 con riguardo ad analoga fattispecie, nella quale la rilevanza della questione era stata valutata proprio sul presupposto che l’annullamento del provvedimento di destituzione, con il conseguente diritto all’integrale restituzione ex tunc della carriera, si sarebbe posto in netto contrasto con quanto statuito dalla L. n. 19 del 1990, il cui art. 10 comporta, invece, la reintegrazione nel ruolo “con la qualifica, il livello e l’anzianità posseduti alla data di cessazione dal servizio, operando quindi con effetto ex nunc. Con tale pronuncia si afferma che “per le posizioni … caratterizzate dall’inflizione della destituzione, contro la quale sia stata esperita impugnativa ed il relativo giudizio sia ancora pendente, è dei pari applicabile la nuova legge, che … è espressione di una rilevante esigenza di pubblico interesse alla concreta e rapida definizione delle situazioni pendenti e, come tale, regola la materia prevalendo su ogni altra i precedente, fissando limiti e termini, specifici al giudizio”. Si realizza così – puntualizza la Consulta – “un sistema normativo, sostanziale e procedimentale, che ha come momento iniziale la cessazione dell’atto destitutivo e come momento finale la rideterminazione dello status del dipendente, a seguito della rinnovata valutazione della sua condotta. La nuova disciplina agevola il dipendente, facendo cessare la destituzione, e lo recupera all’amministrazione tutte le volte che il procedimento disciplinare lo consente. Si realizza, così, un trattamento unitario di tutte le pregresse posizioni di destituzione, con l’impossibilità di perseguire soluzioni differenziate dal modello descritto”. Si impedisce, inoltre – prosegue la Corte – “la prosecuzione dell’impugnativa in corso con le (eventuali) pronunce di annullamento. Anche le posizioni ad esse relative vengono assorbite nel disegno unificatore, ispirato al perseguimento delle già dette esigenze pubbliche e si consente al dipendente, già destituito e riammesso ai sensi della L. n. 19 del 1990, art. 10, commi 2 e 3, di essere “reintegrato nel ruolo, con la qualifica, il livello e l’anzianbità posseduti alla data di cessazione del servizio”.

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 19 del 1990, art. 10, comma 4 (art. 360 c.p.c., n. 3), sostiene che già prima della destituzione di diritto era stato utilmente collocato nella graduatoria di concorso per titoli professionali di dirigente di servizio UL; pertanto, anche a ritenere applicabile la sopra richiamata normativa, sarebbe dovuto essere inquadrato nella nominata funzione dirigenziale, con decorrenza 1 gennaio 1982. Il motivo è infondato.

Osserva il Collegio che correttamente il Giudice a quo ha ritenuto che, non retroagendo, la riammissione in servizio, a tutti i fini, ma solo ai fini voluti dalla L. del 1990, poichè risultava che all’epoca della scelta dei posti relativi a tale qualifica il T. era destituito, non essendosi completata la procedura concorsuale, la richiesta non poteva essere accolta.

Anche il terzo motivo di ricorso, con cui si denuncia omessa pronuncia e conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4), non può trovare accoglimento.

L’omissione, infatti – tiene a precisare il ricorrente – non riguarderebbe la richiesta, accolta dal Giudice a quo, acchè “al periodo della irrogata sanzione disciplinare dalla qualifica fosse sottratto quello già trascorso in sospensione cautelare ( (OMISSIS))” in modo da evitare che due sospensioni, cumulate, duplicassero la sanzione, bensì quella, formulata nelle conclusioni dell’atto di appello, di condanna delle Poste Italiane a corrispondergli, con interessi e rivalutazione ” i ratei di stipendio non percepiti per il non avvenuto scomputo di quelli non corrisposti nel periodo di sospensione cautelare ((OMISSIS)) da quelli da non corrispondere (e non corrisposti) per effetto del provvedimento di sospensione disciplinare ((OMISSIS))”.

Il ricorrente, tuttavia, non specifica se la richiesta era stata avanzata anche in primo grado, riproducendo i termini della domanda.

Va, in proposito rammentato, che qualora il ricorrente in sede di legittimità si dolga della mancata trattazione nella sentenza di appello di una richiesta avanzata o di una eccezione sollevata, ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 20 agosto 2003 n. 12255). Per quanto precede, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 12,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2010

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