Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5680 del 09/03/2010

Cassazione civile sez. trib., 09/03/2010, (ud. 20/01/2010, dep. 09/03/2010), n.5680

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4774-2008 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

F.LLI DI BIASE & C. SOCIETA’ SEMPLICE in persona

dell’Amministratore

e legale rappresentante pro tempore, D.B.A., D.C.

E., DI.BI.AN. e D.C.I., tutti elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA AURELIA 325 presso lo studio dell’Avvocato

DI GIOVANNI NICOLETTA e, rappresentati e difesi dall’Avvocato DI

CARLO FABRIZIO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 323/2007 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE SEZIONE DISTACCATA di PESCARA, depositata il 13/11/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2010 dal Consigliere Dott. EUGENIA MARIGLIANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato ALESSANDRO DE STEFANO, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato FABRIZIO DI CARLO, che ha chiesto

il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso e in subordine per l’accoglimento dello stesso.

 

Fatto

A seguito di verifica della Guardia di finanza di Pescara, l’Ufficio II.DD. di quella città notificava alla società semplice Di Biase Fratelli & C., azienda agricola vinicola, ed ai soci, coniugi D. B.A. e D.C.E. e Di.Bi.An. e D. C.I., avvisi di accertamento con i quali si addebitava, rispettivamente, un reddito d’impresa per l’anno 1996 di Euro 733.474,31 oltre sanzioni ed interessi in luogo del reddito agrario dichiarato e per i soci un reddito pro quota I.R.Pe.F. per complessivi Euro 391.117,45 ed Euro 391.652,94 comprensivi di sanzioni ed accessori.

Avverso detti atti la società ed i soci proponevano distinti ricorsi innanzi alla C.T.P. di Pescara chiedendone l’annullamento per omessa allegazione del p.v.c. della Guardia di finanza, per violazione dell’art 12, commi 4 e 5, dello Statuto del contribuente, per omessa e contraddittoria motivazione dell’atto ed affermando il diritto della società a beneficiare delle disposizioni in materia di reddito agrario; contestavano inoltre, il ridotto riconoscimento della superficie dei terreni coltivati di proprietà e la ritenuta simulazione del contratto di comodato su altri 12 ettari di vigneto, nonchè della produttività per ettaro. Eccepivano, infine, che il reddito d’impresa andava riconosciuto solo su quella parte di reddito determinabile in base al prodotto acquistato in eccedenza. Resisteva l’ufficio, reiterando le considerazioni dell’avviso di accertamento.

La C.T.P. riuniva i ricorsi e sulla base della disposta C.T.U. accertava e dichiarava la natura agricola dell’attività della società, statuiva come dovuta la tassazione come reddito d’impresa unicamente sull’eccedenza, accertata in q. 2.677 di uva oggetto dell’attività di trasformazione e di commercializzazione rispetto al limite quantitativo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 29, comma 2, lett. c).

Impugnava l’Ufficio chiedendo la riforma della sentenza; si costituivano i contribuenti chiedendo la conferma dell’impugnata decisione.

La C.T.R. dell’Abruzzo accoglieva parzialmente l’appello, accertando e dichiarando in q. 5.860, l’eccedenza del prodotto acquistato, oggetto dell’attività di trasformazione e di commercializzazione della società rispetto al limite quantitativo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 29, comma 2, lett. c), costituente reddito d’impresa ex art. 51, comma 1, D.P.R. cit.; confermava nel resto.

Avverso detta decisione l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi. Resistono con controricorso la società semplice Di Biase Fratelli & C. ed i soci, coniugi D.B. A. e D.C.E. e Di.Bi.An. e D.C. I..

Diritto

Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2135 c.c. e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 29, comma 2, lett. c), nel testo vigente all’epoca dei fatti, nonchè motivazione insufficiente ed illogica, per avere la C.T.R. ritenuto che l’attività della società fosse, da un punto di vista qualitativo, agricola per cui il reddito che andava tassato come reddito d’impresa doveva essere limitato solo a quella parte relativa all’eccedenza di uva acquistata, oggetto dell’attività di trasformazione e di commercializzazione, rispetto al limite quantitativo di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 29, comma 2, lett. c), nulla rilevando l’esistenza di un enopolio ritenuto adeguato alle esigenze produttive della società, in contrasto con quanto dedotto dall’Ufficio che invece riteneva che, una volta superato il limite prescritto dall’art. 29 citato e cioè che la quantità del prodotto ottenuto debba derivare per almeno la metà dal terreno, tutto il reddito doveva essere considerato d’impresa e come tale tassato in modo ordinario.

Insiste, inoltre, parte ricorrente sulla sproporzione tra le dimensioni degli stabilimenti di trasformazione e le capacità produttive dei fondi coltivati direttamente dalla contribuente, indipendentemente dal fatto che essi fossero comprensivi o meno di quelli asseritamene condotti in comodato.

Con la seconda censura si deduce l’insufficiente ed illogica motivazione della sentenza nella parte in cui disattende la tesi dell’Ufficio secondo cui il contratto di comodato stipulato era da considerarsi simulato allo scopo di fare figurare una maggiore disponibilità di terreni (ettari 12) e, conseguentemente, di prodotto onde far ritenere che la connessa attività di trasformazione e commercializzazione rientrasse nell’esercizio normale dell’agricoltura, mentre contro tale tesi militavano i fatti che il contratto era stato stipulato con scrittura privata priva di data certa, che il contratto di comodato attribuisce il diritto di uso del fondo ma non quello di appropriarsi dei frutti, che nell’anno 1996 nè il comodante nè il comodatario avevano modificato il reddito agrario dichiarato, malgrado l’asserito intervenuto trasferimento di 12 ettari.

Con l’ultimo motivo infine si deduce l’insufficiente ed illogica motivazione sull’errata quantificazione dei terreni produttivi, pur avendo la C.T.R., rispetto alla decisione della C.T.P., maggiorato il dato relativo all’eccedenza di prodotto, quantificandolo in q. 5.860, ma tralasciando il fatto che la stessa società aveva dichiarato di aver trasformato un quantitativo complessivo di q. 27.119( di cui 12.221 prodotti e 14.898 acquistati) per cui per raggiungere il dato complessivo dichiarato la minore produzione propria si doveva necessariamente tradurre in un aumento del prodotto acquistato con maggiorazione dell’eccedenza da quantificarsi in q. 9.043, anzichè 5.860.

Parte resistente, oltre a contrastare quanto dedotto dall’A.F., deduce l’inammissibilità dei motivi perchè diretti a contrastare la ricostruzione e la valutazione in fatto eseguiti dalla C.T.R., con motivazione adeguata. Sostiene, inoltre, che la tesi della C.T.R., condivisa da parte intimata trova riscontro non solo nel combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 29 e 51 nel testo vigente all’epoca dei fatti, ma anche nelle istruzioni ufficiali allegate alla denuncia dei redditi dell’anno 1996, uguali anche per i successivi.

Si rileva, infine, che il reddito del 1996 non può identificarsi con la produzione vinicola dell’anno, ma risulta dalla vendita del prodotto degli anni precedenti e solo in parte della produzione dell’annualità stessa.

E’ pregiudiziale l’esame della questione relativa all’inammissibilità del ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., sollevata dai resistenti con la memoria difensiva prodotta ex art. 378 c.p.c., questione, peraltro, rilevabile anche d’ufficio.

Il ricorso deve essere respinto per inammissibilità dei motivi, in applicazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 366 bis c.p.c..

L’art. 366 bis c.p.c. dispone che nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo deve, a pena d’inammissibilità, concludersi con la formulazione di un quesito di diritto (cfr., Cass. civ. sentt. nn. 27130 del 2006 e 19769 del 2008) e la stessa previsione, anche se articolata in modo diverso, è statuita anche per l’ipotesi che si avanzino censure in merito alla motivazione della decisione impugnata.

Invero l’Agenzia, per come sarà successivamente chiarito, ha formulato per il primo motivo un quesito inidoneo perchè non rispondente alle previsioni di legge ed ai principi di diritto ormai consolidatisi in materia presso questa Suprema Corte, mentre per il secondo e terzo motivo ne ha del tutto omesso la formulazione.

Il quesito di diritto formulato per il primo motivo è errato in quanto non è stata esposta la regola iuris applicata dal giudice a quo, ritenuta errata da parte ricorrente; infatti questa Corte ha più volte espresso il seguente principio di diritto, condiviso completamente da questo Collegio, secondo il quale: “Il quesito di diritto di cui all’art 366 bis cod. proc. civ. deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo.

La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile”. (cfr., per tutte, Cass. civ. sent. n. 24339 del 2008).

Per il secondo e terzo motivo come sopra detto non è stato formulato alcun quesito, mentre a norma del più volte citato art. 366 bis c.p.c., secondo periodo, è chiaramente specificato che: “nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Parte ricorrente, invece, ha del tutto obliterato detta statuizione, non formulando alcun quesito.

Nè può in ogni caso ritenersi che il quesito di diritto – e la chiara indicazione del fatto controverso o delle ragioni della insufficienza della motivazione – sarebbero in ogni caso presenti nell’illustrazione dei motivi, sottoposti all’esame di questa Corte, poichè la prescrizione formale introdotta dalla norma in esame non può essere interpretata nel senso che il quesito di diritto – e la chiara indicazione del fatto controverso o delle ragioni della insufficienza della motivazione – possano desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo di ricorso, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbero nell’abrogazione tacita della norma in questione che ha introdotto, a pena di inammissibilità, il rispetto di un requisito formale, che deve esprimersi, per i motivi da 1 a 4 dall’art. 360 c.p.c., nella formulazione di un esplicito quesito di diritto tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte – quesito che deve trovare la sua collocazione a conclusione dell’illustrazione di ciascun motivo di ricorso che, da sola, non è perciò sufficiente ai fini del rispetto della norma in esame e per l’art. 360 c.p.c., n. 5 l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, così come dettagliatamente espresso dal citato art. 366 bis c.p.c., comma 1, secondo periodo. (cfr., ex multis, Cass. civ. sent. n. 23153 del 2007).

La formulazione del quesito così come richiesto dalla legge e la chiara indicazione del fatto controverso e delle ragioni dell’insufficienza della motivazione, nei termini innanzi specificati, non si rinvengono nei motivi sottoposti all’esame di questa Corte.

Ciò premesso, il ricorso va rigettato per inammissibilità dei motivi conseguente alla violazione dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, e applicabile nella specie ai sensi dell’art. 27, comma 2, Decreto cit. trattandosi di ricorso contro provvedimento pubblicato dopo la data della sua entrata in vigore (Cass. civ. S.U., sent. n. 7258 del 2007).

Si ritiene tuttavia equo compensare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di cassazione, sezione tributaria, il 20 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2010

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