Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5648 del 21/02/2022

Cassazione civile sez. lav., 21/02/2022, (ud. 10/12/2020, dep. 21/02/2022), n.5648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10118-2017 proposto da:

L.M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIAN GIACOMO

PORRO 8, presso lo studio degli avvocati ANSELMO CARLEVARO e MARCO

DI TORO, che lo rappresentano e difendono;

– ricorrente principale –

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DARDANELLI 13, presso lo studio dell’avvocato LEONARDO ALESII, che

la rappresenta e difende;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 4491/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/10/2016 R.G.N. 5150/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/12/2020 dal Consigliere Dott. LEO GIUSEPPINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO, che ha concluso per l’accoglimento del terzo e quarto

motivo, rigetto primi due, accoglimento ricorso incidentale;

udito l’Avvocato ANSELMO CARLEVARO;

udito l’Avvocato VALERIA COSENTINO per delega verbale Avvocato

LEONARDO ALESII.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Roma aveva emesso decreto ingiuntivo, su richiesta della Rete Ferroviaria italiana S.p.A. (RFI S.p.A.), nei confronti di L.M.R., per la somma di Euro 45.292,68, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, a titolo di recupero delle somme versate dalla società in esecuzione della sentenza n. 5019/1999, resa dal Tribunale di Torino (successivamente riformata dalla Corte di Appello della stessa sede, che aveva rigettato l’originaria domanda), con la quale la società Ferrovie dello Stato S.p.A. (oggi RFI S.p.A.) era stata condannata a corrispondere al L.M. la somma complessiva di Euro 50.369,50 (Lire 97.528.951), comprensiva di sorte rivalutata e di interessi legali maturati, per effetto del dichiarato diritto del lavoratore ad essere inquadrato nel profilo di “capostazione sovraintendente, area quadri, 8 categoria”, con conseguente corresponsione, da parte della società datrice di lavoro, della “indennità di funzione quadri” a far data dal 30.10.1992. A seguito di opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal lavoratore, il Tribunale di Roma, ritenute parzialmente fondate le doglianze dell’opponente circa l’entità della somma pretesa in restituzione dalla società, nonché la prescrizione quinquennale degli interessi maturati sulla detta somma, revocato il decreto ingiuntivo opposto, ha condannato il lavoratore al pagamento della somma di Euro 42.903,53, oltre interessi legali dal 21.2.1996, sino al soddisfo, ritenendo non dovuto alla società l’importo di Euro 2.389,15 versato dalla RFI S.p.A. agli enti competenti a titolo di contribuzione previdenziale. La Corte territoriale di Roma, con sentenza depositata il 18.10.2016, ha respinto l’appello principale interposto dal lavoratore, il quale sosteneva di dovere restituire solo quanto effettivamente percepito e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale della società, ha condannato il dipendente “al pagamento sulla somma liquidata dal primo giudice, anche della rivalutazione monetaria dal marzo 2001”.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso L.M.R. con quattro motivi ulteriormente illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste con controricorso la società, che spiega ricorso incidentale affidato ad un motivo e deposita memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale il ricorrente deduce la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 413 c.p.c. in relazione all’incompetenza territoriale del Foro di Roma, essendo competente in via esclusiva il Foro di Torino”, perché i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere che, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., commi 2 e 3, nel rito del lavoro, anche per le controversie introdotte dal datore di lavoro, i fori speciali esclusivi sono tre e, cioè, quello in cui è sorto il rapporto di lavoro, quello in cui si trova l’azienda e quello della dipendenza alla quale è addetto il lavoratore, “non consentendo la lettera della legge l’unificazione dei fori nel luogo di svolgimento dell’attività lavorativa”, così escludendo la competenza del Tribunale di Torino, luogo in cui è sorto il rapporto.

2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c.”, per avere la Corte di merito ritenuto, conformemente alla decisione di primo grado, non coperta da giudicato la domanda di restituzione delle somme proposte da RFI S.p.A.. Al proposito, il ricorrente assume che sulla domanda di restituzione delle somme erogate dalla società al lavoratore, la Corte di Appello di Torino si sarebbe già pronunziata, rigettandola, con la sentenza n. 329/2001, di riforma di quella di primo grado n. 5019/1999; e tale conclusione si evincerebbe, a parere del ricorrente, attraverso una lettura integrativa tra la parte dispositiva della suddetta pronunzia e quanto argomentato dalla Corte nella parte motiva della stessa. Pertanto, secondo la prospettazione del ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe erronea per non avere considerato il contrasto tra motivazione e dispositivo della sentenza di riforma della Corte torinese, limitandosi a confermare quanto già stabilito dal Tribunale circa il principio della prevalenza del dispositivo rispetto alla motivazione; ed inoltre, perché l’accoglimento del decreto ingiuntivo emesso nei confronti di esso ricorrente avrebbe generato un contrasto con il principio del ne bis in idem, secondo cui una stessa domanda non può essere riproposta se già decisa con sentenza passata in giudicato.

3. Con il terzo motivo si censura, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2033 c.c. e dell’art. 336 c.p.c.”, per avere la Corte di Appello di Roma condannato il ricorrente a restituire ad RFI S.p.A. gli importi percepiti in forza della sentenza di primo grado, poi riformata dalla Corte di Appello di Torino, al lordo delle ritenute fiscali “senza peraltro tenere conto che allorché RFI ha agito in restituzione – era ormai preclusa per il L.M. – perché prescritta – la possibilità di richiedere i relativi rimborsi all’amministrazione finanziaria”.

4. Con il quarto mezzo di impugnazione si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1224 c.c. e dell’art. 429 c.p.c., per avere la Corte di merito, in accoglimento dell’appello incidentale proposto da RFI, erroneamente condannato il lavoratore al pagamento della rivalutazione sul capitale oggetto della domanda restitutoria, senza considerare che, nella fattispecie, non si verte in tema di inadempimento di obbligazioni, ma di restituzione di un pagamento indebito e che “il diritto alla rivalutazione monetaria a titolo di risarcimento ex art. 1224 c.c., comma 2, è configurabile in relazione all’obbligazione pecuniaria di ripetizione dell’indebito solamente ove sussista il presupposto dell’obbligazione risarcitoria inerente alla colpa del debitore, da dimostrare di volta in volta attesa la presunzione di buona fede del medesimo, mentre, nel caso di specie, RFI nulla ha dedotto, allegato né tanto meno provato in ordine al profilo soggettivo del L.M.”; ed inoltre, per non avere i giudici di seconda istanza tenuto in considerazione quanto osservato dal giudice di primo grado relativamente al fatto che “la società non ha allegato alcunché in merito al saggio medio di rendimento dei titoli di Stato con scadenza annuale né in ordine al rendimento del capitale investito nella propria azienda né all’eventuale indebitamento bancario”.

1.1.II primo motivo non è fondato, poiché la sentenza oggetto del presente giudizio è del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che, in più occasioni, ha sottolineato che la disposizione dell’art. 413 c.p.c., comma 2, prevede tre fori speciali (quello in cui è sorto il rapporto, quello in cui ha sede l’azienda e quello della dipendenza cui il lavoratore è addetto o presso la quale prestava la sua opera alla fine del rapporto), di carattere alternativo, senza attribuire valore esclusivo o prevalente ad alcuno di essi, “atteso che deve escludersi che il luogo dove si trova l’azienda (che, in caso di società, coincide con la sede sociale dove di fatto si accentrano i poteri di direzione ed amministrazione dell’azienda stessa) e quello in cui si trova una sua dipendenza alla quale sia addetto il lavoratore indichino un unico foro consistente nel luogo di esercizio dell’attività lavorativa” (cfr., tra le molte, Cass. nn. 14449/2019; 11207/2013; 15530/2012; 12418/2003). Per la qual cosa, correttamente confermata la qualificazione della causa come “controversia ai sensi dell’art. 409 c.p.c.,” trattandosi di domanda che si ricollega al pregresso rapporto di lavoro, in quanto avente ad oggetto la restituzione di un pagamento di credito di lavoro accordato dalla pronuncia di primo grado e successivamente negato dalla sentenza di appello”, condivisibilmente, la Corte distrettuale ha reputato che il foro competente, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., fosse quello di Roma, in quanto luogo della sede legale della originaria ricorrente RFI S.p.A..

2.2. Il secondo motivo non è da accogliere, in quanto, innanzitutto, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, neppure è prodotta – né trascritta per intero, né indicata tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso di legittimità – la sentenza del Tribunale cui si fa riferimento; pertanto, questo Collegio non è stato messo in grado di apprezzare compiutamente la fondatezza della censura sollevata dal ricorrente principale con il mezzo di impugnazione in esame (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). E, comunque, secondo i consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, “va ritenuta prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale” (v., tra le altre, Cass. 12246/2016; 17910/2015); in tal senso, la Corte territoriale ha correttamente stabilito che “Conformemente alla giurisprudenza di legittimità il Tribunale, alla stregua del principio della prevalenza – nel rito del lavoro del dispositivo rispetto alla motivazione ha ritenuto che ove il giudice di appello ometta di pronunciare sul punto, la parte potrà o impugnare l’omessa pronunzia con ricorso in cassazione oppure riproporre la domanda restitutoria in separato giudizio, senza che ivi, stante la menzionata facoltà di scelta, le sia opponibile il giudicato derivante dalla mancata impugnazione della sentenza per omessa pronuncia (Cass. n. 9287/2012)”. Del resto, lo stesso lavoratore ha ammesso di avere ricevuto il pagamento, da parte della società datrice, della somma stabilita nella sentenza del Tribunale, poi riformata, in sede di gravame, dalla Corte di Appello di Torino.

3.3. Il terzo motivo del ricorso principale è fondato. Al riguardo, è da premettere che la Corte di merito è pervenuta alla decisione oggetto del presente giudizio senza conformarsi agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità – del tutto condivisi da questo Collegio che non ravvisa ragioni per discostarsene (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 29758/2019; 23519/2019; 15755/2019; 6942/2019; 12933/2018; 12933/2018; 1464/2012) -, alla stregua dei quali, qualora le ritenute fiscali non siano state versate direttamente ai lavoratori, il datore di lavoro non può pretenderne la ripetizione da parte dei dipendenti, perché, appunto, da questi non percepiti. Ed invero, il D.P.R. n. 602 del 1973, all’art. 38, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 143 del 2005, prevede che “Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all’Intendente di Finanza nella cui circoscrizione ha sede il concessionario presso cui è stato eseguito il versamento, istanza di rimborso entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento…. L’istanza di cui al comma 1 può essere presentata anche dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata”. E ciò, in quanto (cfr., tra le altre, Cass. nn. 9756/2019; 21699/2011) l’azione di restituzione e riduzione in pristino, proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e, dunque, a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti: e, pertanto, ad un pagamento non dovuto.

Fatte queste premesse – ed altresì ribadito che il rimborso di quanto indebitamente versato può essere richiesto all’Amministrazione finanziaria sia dal soggetto che ha effettuato il versamento (c.d. “sostituto di imposta”), sia da colui che ha percepito le somme assoggettate a ritenuta (c.d. “sostituito”), ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 (cfr., tra le molte, Cass. nn. 440/2019; 31503/2018; 239/2006) -, si osserva che, nella fattispecie, è pacifico che le ritenute fiscali non siano state versate direttamente al L.M.; per la qual cosa, la società datrice, a prescindere da ogni altra considerazione, non avrebbe potuto ripeterle nei confronti dello stesso, perché, appunto, dallo stesso non percepite.

Pertanto, RFI S.p.A. non può pretendere somme al lordo delle ritenute fiscali, poiché le stesse non sono mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore (cfr., ex multis, Cass. nn. 13530/2019; 19459/2018; 2135/2018; 1464/2012, cit.; negli stessi termini, v. pure, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1164/2009, con riguardo al rapporto di pubblico impiego).

Tutto quanto innanzi osservato non si pone in contrasto con l’art. 336 c.p.c. – secondo cui “la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata” -, poiché non è in discussione il diritto del datore di lavoro alla restitutio in integrum, ma unicamente la procedura da seguire al fine di porre la parte adempiente nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza; e ciò in ragione della divaricazione del versamento eseguito in favore del lavoratore ed in favore del fisco.

Argomenti contrari neppure possono ricavarsi dalla modifica del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, ad opera del D.L. n. 34 del 2020, art. 150, comma 1, convertito in L. n. 77 del 2020, con cui è stato aggiunto il comma 2-bis all’art. 10 citato (ai sensi del quale “le somme di cui alla lettera d-bis del comma 1, se assoggettate a ritenuta, sono restituite al netto della ritenuta subita e non costituiscono oneri deducibili”), inapplicabile alla fattispecie, poiché, in base al comma 3 dello stesso art. 150, “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano alle somme restituite dall’1 gennaio 2020”, e che, comunque, quanto alla previsione dell’obbligo di restituzione al netto delle somme ricevute dal lavoratore, positivizza l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato e non consente, dunque, di pervenire alla diversa interpretazione patrocinata dalla società ricorrente.

4.4. Altresì da accogliere è il quarto motivo del ricorso principale, con il quale si censura la condanna del dipendente al pagamento della rivalutazione sul capitale oggetto della domanda restitutoria, poiché, nella fattispecie, la rivalutazione monetaria del credito avrebbe potuto essere riconosciuta solo se la società avesse dimostrato, ex art. 1224 c.c., la sussistenza del maggior danno conseguente alla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora, non compensato dalla corresponsione degli interessi legali nella misura determinata dallo stesso art. 1224 c.c.. E, dunque, in mancanza di allegazioni riguardo “al saggio medio di rendimento dei titoli di Stato con scadenza annuale né al rendimento del capitale investito nella propria azienda né all’eventuale indebitamento bancario”, da parte della società datrice, la quale neppure ha invocato il criterio presuntivo indicato dalle SS.UU. di questa Corte (sent. n. 19499/2008), il L.M. non avrebbe potuto essere condannato “al pagamento sulla somma liquidata dal primo giudice, anche della rivalutazione monetaria dal marzo ‘01”. 5. Con l’unico motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di Appello erroneamente “ritenuto l’assoggettamento del credito di interessi alla prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c., n. 4”.

5.1. Il motivo è fondato. Ed invero, trattandosi nella fattispecie della restituzione di una somma pagata in unica soluzione, anche il termine della prescrizione per gli interessi è da considerare decennale (cfr., ex plurimis, Cass. n. 23519/2019; 22978/2015; 18238/2003); pertanto, non può applicarsi la disposizione dell’art. 2948 c.c., n. 4, che prevede la prescrizione quinquennale, perché si verte in una ipotesi di indebito che scaturisce da una riforma parziale di sentenza, non da fatto illecito; per cui, essendo gli interessi legali una parte integrante del credito restitutorio, gli stessi sono, appunto, soggetti alla prescrizione decennale, in quanto pagabili in un’unica soluzione. E, dunque, avendo la società datrice dimostrato la tempestiva interruzione del termine di prescrizione decennale (la sentenza della Corte di Appello di Torino è stata depositata il 9.5.2001; il giudicato si è formato il 9.5.2002: data dalla quale decorre il termine decennale di prescrizione degli interessi; la società ha interrotto la prescrizione con diffida del 4.1.2011), alla medesima sono dovuti anche gli interessi della somma richiesta in ripetizione.

6. Per tutto quanto esposto, rigettati i primi due motivi del ricorso principale, la sentenza va cassata, in relazione al terzo ed al quarto motivo dello stesso ricorso, ed altresì in relazione al ricorso incidentale, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito, ai principi innanzi affermati, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale; rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi del ricorso principale accolti ed al ricorso incidentale e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2022

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