Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5647 del 21/02/2022
Cassazione civile sez. lav., 21/02/2022, (ud. 10/12/2020, dep. 21/02/2022), n.5647
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 6834-2017 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 175,
(DIREZIONE AFFARI LEGALI DI ROMA DI POSTE ITALIANE), presso lo
studio dell’avvocato DOMENICO ALBERTO MARIA PROCOPIO, rappresentata
e difesa dall’avvocato SERGIO GALASSI;
– ricorrente –
contro
V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ITALO CARLO
FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato ANGELO COLUCCI, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO MONALDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 202/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,
depositata il 27/09/2016 R.G.N. 663/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
10/12/2020 dal Consigliere Dott. LEO GIUSEPPINA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
FRESA MARIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato DOMENICO PROCOPIO per delega verbale Avvocato SERGIO
GALASSI;
udito l’Avvocato ANGELO COLUCCI.
Fatto
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza n. 630/2006, il Tribunale di Ancona ha revocato il decreto ingiuntivo emesso in favore di Poste Italiane S.p.A., nei confronti di V.F., per la somma lorda di Euro 36.338,38, a titolo di restituzione di somme corrisposte in esecuzione di una pronunzia del Tribunale, poi riformata dalla Corte di Appello di Ancona – con la quale era stata disposta, in favore del V., la conversione di un contratto di lavoro a termine in uno a tempo indeterminato -, limitando la condanna della società datrice al pagamento della indennità omnicomprensiva di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, nella misura di due mensilità e mezzo dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. In sede di opposizione, Poste Italiane S.p.A. ha, infatti, riconosciuto che parte della somma ingiunta non era dovuta, in quanto la somma da ripetere era da limitare a quella pagata dalla società con il cedolino dello stipendio del novembre 2006, pari alla somma lorda di Euro 23.500,91; somma, quest’ultima, al pagamento della quale, in favore della società, il Tribunale di Ancona, con la sentenza n. 242/2015, ha condannato il lavoratore opponente, previa detrazione degli oneri fiscali, nonché della somma di Euro 5.479,81 (dovuta a titolo di indennità della L. n. 183 del 2010, ex art. 32), oltre interessi, come per legge.
Con sentenza pubblicata il 27.9.2016, la Corte di Appello di Ancona, “in parziale riforma della sentenza appellata” confermata nel resto -, ha disposto che “dalla somma di Euro 5.749,81, indicata nel dispositivo della sentenza, debbano ulteriormente detrarsi i relativi oneri fiscali”, ai sensi dell’art. 17 TUIR, essendo la predetta indennità soggetta a tassazione separata (v., in particolare, pag. 4 della sentenza impugnata). Per la cassazione della sentenza Poste Italiane S.p.A. ha proposto ricorso articolando tre motivi, cui V.F. ha resistito con controricorso.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si censura, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 in correlazione alle circolari ed alle risoluzioni dell’amministrazione finanziaria”, ed in particolare, si lamenta che la Corte di merito si sia limitata a riportare, a fondamento della decisione impugnata, “un mero stralcio della sentenza n. 1464/2012 della Suprema Corte”, senza “un compiuto esame in ordine alla tassatività delle ipotesi di rimborso delle imposte non dovute ed alla legittimazione a richiederne la restituzione come interpretato dalla Corte di Cassazione che, invece, nello stabilire se il datore di lavoro nel procedere al recupero di somme indebitamente erogate ai propri dipendenti debba effettuarlo al lordo o al netto delle ritenute fiscali previdenziali ed assistenziali, ha svolto un’analisi più complessa ed articolata”. Si deduce, inoltre, che la Corte di Appello avrebbe del tutto omesso di verificare, una volta accertato che il datore di lavoro Poste Italiane S.p.A. possa ripetere l’indebito, quale sia la norma che dia titolo al recupero e se la società Poste, quale sostituto di imposta, possa ricorrere alla procedura di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 per ottenere la restituzione delle ritenute a suo tempo operate, anche in considerazione del fatto che, poiché il citato D.P.R. n. 602 del 1973, art. 64, comma 1, definisce il sostituto di imposta come colui che “in forza di disposizione di legge è obbligato al pagamento d’imposte in luogo di altri…. ed anche a titolo d’acconto”, lo stesso presuppone che anche il lavoratore-sostituito debba ritenersi dall’origine, e non solo in relazione alla fase di riscossione, obbligato solidale di imposta e, quindi, anch’esso soggetto al potere di accertamento ed a tutti i conseguenti oneri: con la conseguenza che, a parere della società ricorrente, il datore di lavoro può pretendere dal lavoratore la restituzione delle somme indebitamente erogate al lordo delle ritenute di legge soltanto ove, come nel caso di specie, non abbia già effettuato la richiesta di restituzione dell’imposta non dovuta all’Amministrazione finanziaria.
2. Con il secondo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del (TUIR) D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. d-bis “in correlazione alle circolari e risoluzioni dell’amministrazione finanziaria”, ed in particolare, si lamenta che la Corte di merito non abbia considerato il fatto che il citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. d-bis, consente al dipendente, nel periodo in cui la somma è restituita, di poter operare una corrispondente deduzione dal proprio imponibile pari all’importo lordo di ritenute corrisposto al datore di lavoro.
3. Con il terzo motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, e si deduce che, comunque, “tale ultima norma dà la possibilità al soggetto che restituisce le somme di operare la deduzione fiscale anche negli anni futuri (quando, cioè, avrà un reddito), oppure di presentare un’istanza di rimborso in carta libera agli uffici territoriali dkAgenzia delle Entrate in un termine biennale, decorrente dalla data di scadenza del termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel quale sono state restituite le somme…”.
4. I motivi – da trattare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione – non sono fondati; al riguardo, è da premettere che la Corte di merito è pervenuta alla decisione oggetto del presente giudizio conformandosi agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità – del tutto condivisi da questo Collegio che non ravvisa ragioni per discostarsene (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 29758/2019; 23519/2019; 15755/2019; 6942/2019; 12933/2018; 12933/2018; 1464/2012) -, alla stregua dei quali, qualora le ritenute fiscali non siano state versate direttamente ai lavoratori, il datore di lavoro non può pretenderne la ripetizione da parte dei dipendenti, perché, appunto, da questi non percepiti. Ed invero, il D.P.R. n. 602 del 1973, all’art. 38, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 143 del 2005, prevede che “Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all’Intendente di Finanza nella cui circoscrizione ha sede il concessionario presso cui è stato eseguito il versamento, istanza di rimborso entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell’obbligo di versamento…. L’istanza di cui al comma 1 può essere presentata anche dal percipiente delle somme assoggettate a ritenuta entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data in cui la ritenuta è stata operata”. E ciò, in quanto (cfr., tra le altre, Cass. nn. 9756/2019; 21699/2011) l’azione di restituzione e riduzione in pristino, proposta a seguito della riforma o cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad una esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e, dunque, a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti: e, pertanto, ad un pagamento non dovuto.
Fatte queste premesse – ed altresì ribadito che il rimborso di quanto indebitamente versato può essere richiesto all’Amministrazione finanziaria sia dal soggetto che ha effettuato il versamento (c.d. “sostituto di imposta”), sia da colui che ha percepito le somme assoggettate a ritenuta (c.d. “sostituito”), ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38 (cfr., tra le molte, Cass. nn. 440/2019; 31503/2018; 239/2006) -, si osserva che, nella fattispecie, è pacifico che le ritenute fiscali non siano state versate direttamente al V.; per la qual cosa, la società datrice, a prescindere da ogni altra considerazione, non avrebbe potuto ripeterle nei confronti dello stesso, perché, appunto, dallo stesso non percepite.
Pertanto, Poste Italiane S.p.A. non può pretendere somme al lordo delle ritenute fiscali, poiché le stesse non sono mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore (cfr., ex multis, Cass. nn. 13530/2019; 19459/2018; 2135/2018; 1464/2012, cit.; negli stessi termini, v. pure, Cons. Stato, Sez. VI, n. 1164/2009, con riguardo al rapporto di pubblico impiego), come condivisibilmente argomentato dai giudici di seconda istanza.
Argomenti contrari neppure possono ricavarsi dalla modifica del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10 ad opera del D.L. n. 34 del 2020, art. 150, comma 1, convertito in L. n. 77 del 2020, con cui è stato aggiunto al citato art. 10, comma 2-bis (ai sensi del quale “le somme di cui alla lettera d-bis del comma 1, se assoggettate a ritenuta, sono restituite al netto della ritenuta subita e non costituiscono oneri deducibili”), inapplicabile alla fattispecie, poiché, in base allo stesso art. 150, comma 3, “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano alle somme restituite dall’1 gennaio 2020”, e che, comunque, quanto alla previsione dell’obbligo di restituzione al netto delle somme ricevute dal lavoratore, positivizza l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato e non consente, dunque, di pervenire alla diversa interpretazione patrocinata dalla società ricorrente.
Per le considerazioni innanzi svolte, i motivi non sono idonei ad incidere la sentenza oggetto del giudizio di legittimità relativamente alle censure sollevate e, pertanto, il ricorso va respinto.
5. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
6. Avuto riguardo, infine, alla conclusione del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.200,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2022