Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5647 del 02/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 02/03/2021, (ud. 10/12/2020, dep. 02/03/2021), n.5647

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11816/2019 proposto da:

CARAPELLI FIRENZE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CAIO NARIO 27,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ALESSANDRO MAGNI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ENRICO CECCARELLI;

– ricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAMERINO

15, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA VICINANZA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALENTINO IMBERTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 301/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 08/02/2019 R.G.N. 1389/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/12/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per inammissibilità e in subordine

rigetto;

udito l’Avvocato VALENTINO IMBERTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 2462/2018, rigettò l’opposizione proposta, nell’ambito di un procedimento di impugnativa di licenziamento ex L. n. 92 del 2012, dalla Carapelli Firenze Spa nei confronti di B.L. avverso l’ordinanza con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice all’esito di una procedura di riduzione di personale, con applicazione della tutela reintegratoria e indennitaria prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come novellato dalla L. n. 92 del 2012 citata.

2. Con sentenza pubblicata in data 8 febbraio 2019, la Corte di Appello di Milano ha respinto il reclamo della società, confermando integralmente la decisione di primo grado per un duplice ordine di ragioni.

La Corte ha innanzitutto considerato che, “trattandosi di lavoratrice con inquadramento impiegatizio”, “per valutare se fosse la B., tra gli impiegati in servizio, a dover essere licenziata, la società avrebbe dovuto effettuare verifica comparativa con il resto del personale con professionalità fungibile, individuando ex ante, ai fini di effettuare il raffronto ed orientare la scelta, criteri valutativi certi e verificabili”.

Secondo la Corte, “l’omissione di tale individuazione, come ritenuto dal Tribunale, si traduce in vizio nell’applicazione dei criteri di scelta L. 23 luglio 1991, n. 223, ex art. 5, comma 1”, conseguendo il regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 4, novellato, per “violazione dei criteri di scelta”.

La Corte territoriale ha poi aggiunto altra ragione “parimenti e autonomamente idonea a fondare la statuizione del Tribunale”. Ha argomentato che “la società ha individuato la B. come eccedentaria in quanto ella svolgeva ad Inveruno, da ultimo, mansioni di assistente magazzino materiali ausiliari confezionamento, profilo professionale indicato come eccedentario dalla comunicazione di apertura, in ragione della sostanziale cessazione dell’attività di produzione e stoccaggio” in quello stabilimento; tuttavia -prosegue la Corte – “l’assegnazione di detto profilo professionale alla lavoratrice è frutto di una condotta illecita del datore di lavoro” per violazione dell’art. 2103 c.c.; “se così è, la soppressione dell’attività lavorativa il cui svolgimento è stato illegittimamente imposto da Carapelli a B. non può costituire esigenza tecnico-organizzativa idonea a giustificare l’intimazione del licenziamento ad una lavoratrice che in azienda avrebbe dovuto occupare posizione e ruolo diverso da quello investito dalla riorganizzazione” aziendale.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con 2 motivi; ha resistito con controricorso B.L., illustrato anche da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, in relazione all’art. 115 c.p.c., e art. 2697 c.c..

Richiamando Cass. n. 9356 del 2017, si sostiene che la Corte di Appello sarebbe incorsa in un “errore di percezione” sulla “ricognizione del contenuto oggettivo della prova”, avendo ritenuto “provato che la ricorrente prima del licenziamento” avesse svolto attività non solo nel reparto produzione ma anche in altri reparti dell’azienda; circostanza questa, secondo la ricorrente, assolutamente non vera e contraddetta da quanto dichiarato dalla B. nel ricorso introduttivo del giudizio.

Si critica, poi, l’altra argomentazione contenuta nella sentenza impugnata circa il fatto che l’assegnazione della lavoratrice alle mansioni di “assistente al magazzino materiali ausiliari e confezionamento” rappresentasse un illecito.

Si eccepisce: “sia che si considerino le mansioni svolte da B.L. in precedenza, sia quelle che le sono state successivamente attribuite, B.L. non avrebbe dovuto essere oggetto di comparazione con nessun altro prestatore di lavoro subordinato del sito produttivo di Inveruno, in quanto facente parte di un ramo di azienda che non esisteva più e che, quindi, non aveva più alcuna necessità di addetti”.

Infine, invocando a sostegno Cass. n. 13 del 2016, si deduce che la ricorrente lavoratrice non avrebbe offerto alcuna prova del fatto che, se paragonata ad altri colleghi, avrebbe ottenuto il mantenimento del posto di lavoro.

2. Il motivo non può trovare accoglimento.

Non è dubbio che la valutazione se più lavoratori svolgano o meno mansioni fungibili involge un apprezzamento di fatto affidato all’accertamento del giudice di merito. Se si critica il risultato di tale valutazione, peraltro nella specie conformemente effettuata dai giudici di entrambi i gradi di merito, non si denuncia un errore di diritto bensì si invoca un sindacato su di una quaestio fatti precluso in sede di legittimità.

Inoltre la critica di parte ricorrente si incentra sull’assunto che la B. non avrebbe svolto attività presso altri reparti, ma non è affatto questa circostanza che i giudici del merito pongono a fondamento del loro convincimento, quanto piuttosto che la lavoratrice licenziata aveva un inquadramento impiegatizio e non era stata effettuata alcuna comparazione con altri lavoratori di V livello rimasti in servizio, senza che l’azienda spiegasse perchè le mansioni fossero da ritenere infungibili.

Tanto in coerenza con principi più volte ribaditi da questa Corte.

Infatti, in tema di licenziamento collettivo, il doppio richiamo operato dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, comporta che la riduzione del personale deve, in linea generale, investire l’intero ambito aziendale, potendo essere limitato a specifici rami d’azienda soltanto se caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre. Ne consegue che il riferimento al “personale abitualmente impiegato”, aggiunto all’originario testo dell’art. 4, comma 3, della L. n. 223, dal D.Lgs. n. 151 del 1997, comporta che i profili professionali da prendere in considerazione sono quelli propri di tutti i dipendenti potenzialmente interessati (in negativo) alla mobilità, tra i quali potrà, all’esito della procedura, operarsi la scelta dei lavoratori da collocare in mobilità. La dimostrazione della ricorrenza delle specifiche professionalità o comunque delle situazioni oggettive che rendano impraticabile qualunque comparazione, costituisce onere probatorio a carico del datore di lavoro (Cass. nn. 22824 e 22825 del 2009; Cass. n. 14612 del 2006; più di recente v. Cass. n. 203 del 2015 e Cass. n. 19105 del 2017).

Pertanto, non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perchè impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. n. 14612 del 2006; Cass. n. 25353 del 2009, Cass. n. 9711 del 2011; v. pure Cass. n. 26376 del 2008; Cass. n. 11034 del 2006; Cass. n. 13783 del 2006). Ne consegue l’illegittimità del licenziamento collettivo operato da un datore di lavoro che non abbia in alcun modo esperito il confronto tra tutti i lavoratori aventi professionalità omogenea a quella posseduta dagli altri lavoratori rimasti in servizio (Cass. n. 17177 del 2013).

Naturalmente grava sul datore di lavoro provare che lavoratori dotati del medesimo inquadramento professionale non siano in grado di svolgere le mansioni di posizioni lavorative residuate all’esito della riorganizzazione aziendale, mentre la società ricorrente ancora insiste nel ricorso per cassazione che la B. faceva parte “di un ramo d’azienda che non esisteva più e che, quindi, non aveva più alcuna necessità di addetti”, come se la sola circostanza dell’adibizione al reparto soppresso fosse sufficiente a giustificare la mancata comparazione con il personale ancora in servizio.

Inconferente poi il richiamo, nel motivo in esame, a Cass. n. 13 del 2016 che ha riguardo ad altra materia. Ove poi esso debba intendersi al principio secondo cui “l’annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 5, nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche ex L. n. 92 del 2012, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perchè avente rilievo determinante rispetto al licenziamento” (Cass. n. 24558 del 2016; Cass. n. 13871 del 2019), risulta parimenti inconferente; infatti, nella specie, non occorre verificare se, in concreto, la violazione dei criteri di scelta abbia avuto (o meno) influenza sul licenziamento impugnato in ragione di una errata applicazione di criteri di scelta astrattamente legittimi, ma piuttosto si controverte di un criterio di scelta – l’adibizione al reparto soppresso radicalmente illegittimo in mancanza di una comparazione con lavoratori di pari inquadramento professionale.

Poichè una delle ragioni poste a fondamento della decisione di confermare l’illegittimità del licenziamento resiste alle censure che le sono mosse, resta del tutto irrilevante l’esame della critica rivolta all’altra ratio decidendi che sostiene la sentenza impugnata, atteso che, anche laddove detta critica fosse fondata, comunque ciò non comporterebbe la cassazione della pronuncia autonomamente retta dalla prima ratio che ha resistito al vaglio di legittimità.

3. Il secondo motivo denuncia: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi di lavoro in relazione alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, alla L. n. 223 del 1991, art. 5, ed alla L. n. 300 del 1970, art. 18”.

Si lamenta chi sarebbero state elencate una serie di “mancanze” che la società avrebbe commesso nella comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, ma “espressamente non si dice chi sarebbe stato il dipendente o i dipendenti rimasti in servizio mentre il diritto spettava alla ricorrente”. Si eccepisce che, anche quando le carenze di comunicazione denunciate non esistessero e fossero fondate, non troverebbe mai applicazione la tutela reintegratoria, quanto piuttosto quella indennitaria stabilita in caso di “violazione delle procedure”.

4. La censura è infondata.

La L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, successivamente alla novella L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 46, distingue la tutela indennitaria in caso di “violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12” dalla tutela anche reintegratoria nell’ipotesi di “violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”.

La giurisprudenza di questa Corte ha definito il confine tra “vizio formale” (incompletezza della comunicazione circa i criteri di scelta) e ‘vizio sostanzialè (violazione dei criteri di scelta) al fine di individuare le tutele previste dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3. In particolare ha chiarito che la “violazione dei criteri di scelta”, legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria, si ha “allorquando i criteri di scelta siano illegittimi, perchè in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perchè attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive” (Cass. n. 12095 del 2016; conf. Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 2587 del 2018). Perchè un conto è l’omissione o l’inadeguatezza della comunicazione di chiusura della procedura con cui occorre spiegare come sono stati individuati i lavoratori da licenziare (violazione della procedura), altro conto è selezionare i lavoratori da licenziare in difformità dalle prescrizioni legali o dalle previsioni collettive (violazione dei criteri di scelta); nel primo caso, laddove vi sia esclusivamente una violazione dell’obbligo procedurale, il lavoratore può essere comunque destinatario di un licenziamento che lo selezioni sulla base di criteri di scelta in concreto correttamente applicati, mentre, nel secondo caso, il lavoratore non è stato individuato sulla base di criteri legittimi.

Si è così ribadito il principio secondo cui: “Quando la comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 9, carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta si sia risolta nell’accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è, in conformità ai principi di questa Corte (v. Cass. n. 2587 del 2018; Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 12095 del 2016), annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (ex art. 18, comma 4, testo novellato)” (in termini, Cass. n. 19010 del 2018).

Nella specie, quindi, la Corte territoriale non ha commesso alcun errore di diritto, perchè ha applicato la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, non per una mera violazione formale, quanto piuttosto perchè non era stata effettuata alcuna comparazione della B. con personale ritenuto fungibile, in violazione dei principi di diritto innanzi richiamati secondo i quali il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti al reparto soppresso o ridimensionato laddove detti lavoratori siano comunque giudicati idonei ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta conforme a legge la scelta di lavoratori solo perchè impiegati in detto reparto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre unità organizzative.

5. Conclusivamente il ricorso va rigettato, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigètta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2021

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