Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5646 del 02/03/2020

Cassazione civile sez. trib., 02/03/2020, (ud. 20/12/2019, dep. 02/03/2020), n.5646

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24853/2012 R.G. proposto da:

STREPARAVA HOLDING S.P.A., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, giusta procura speciale del 23 ottobre 2012

autenticata dal notaio R.A., dalli avv. Andrea Russo, con

domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, via Castro Pretorio,

n. 122;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende come per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 97/26/11 della Commissione Tributaria

regionale della Lombardia depositata il 19 settembre 2011

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 dicembre 2019

dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott.ssa Mastroberardino Paola, che ha concluso chiedendo

il rigetto del ricorso;

udito il difensore della parte ricorrente, avv. Benedetta Rossi, per

delega dell’avv. Andrea Russo;

udito il difensore della parte controricorrente, avv. Gianna

Galluzzo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle entrate, sulla base dei rilievi contenuti nel processo verbale di constatazione redatto in data 29 settembre 2006, emetteva avviso di accertamento nei confronti della società Streparava Holding s.p.a., recuperando a tassazione, per l’anno d’imposta 2004, ai fini IRPEG e IRAP rispettivamente gli importi di Euro 200.584,00 ed Euro 28.409,00.

La ripresa a tassazione riguardava corrispettivi percepiti dalla società contribuente quali royalties per lo sfruttamento di marchi e know how dalla stessa concessi in uso alla controllata olandese, Streparava International B.V., e da quest’ultima a sua volta concessi in sub-licenza alla controllata spagnola Streparava Iberica S.L., ritenuti non corrispondenti al “valore normale” di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3 e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7.

Avverso il suddetto atto impositivo ricorreva la società contribuente deducendo il difetto di motivazione dello stesso, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 65,93 e 102 e, nel merito, la infondatezza dei rilievi contestati; in subordine, chiedeva, in caso di pronuncia ad essa sfavorevole, che la debenza e la riscossione delle maggiori imposte pretese fossero subordinate al preventivo espletamento e completamento delle speciali procedure tese ad evitare la doppia imposizione.

La Commissione provinciale adita, con la sentenza n. 43/15/08 del 14 marzo 2008, rigettava integralmente il ricorso e avverso tale decisione proponeva appello la contribuente.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza in questa sede impugnata, rigettava il gravame, confermando l’avviso di accertamento.

Osservava che nessuna rilevanza poteva essere attribuita alla circostanza che la contribuente avesse fruito, per l’anno d’imposta 2000, del condono fiscale tombale, avendo l’Amministrazione finanziaria eccepito la novità dell’eccezione, sollevata soltanto in grado di appello, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57; disattendeva, altresì, le eccezioni di ordine formale, avendo l’Ufficio compiutamente indicato le ragioni giuridiche poste a fondamento dell’avviso di accertamento.

Considerava, quindi, legittimo l’accertamento operato dall’Agenzia delle entrate, affermando che “è norma di comune esperienza che la legislazione fiscale italiana è meno favorevole nei confronti dei contribuenti di quanto lo siano le legislazioni tributarie di altri Paesi” e che “è altresì evidente la sproporzione sussistente tra il compenso corrisposto dalla società iberica a quella olandese e quello corrisposto alla società verbalizzata dalla società olandese”.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione la Streparava Holding s.p.a., affidandosi a cinque motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la contribuente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato di cui all’art. 112 c.p.c. e si duole che la Commissione regionale, nel respingere l’appello, avrebbe tralasciato di esaminare che, dovendo l’operazione essere unitariatamente considerata, l’accertamento avrebbe dovuto interessare anche l’anno 2000, nel quale era stato stipulato il contratto di concessione in licenza, anno ormai coperto dal condono tombale, avendo la società aderito alla sanatoria di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 9.

La censura è infondata.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Cass., sez. 5, n. 29191 del 6/12/2017; Cass., sez. 2, ord. n. 20718 del 13/8/2018).

I giudici regionali, respingendo integralmente l’appello, hanno, sebbene implicitamente, disatteso tutte le eccezioni sollevate dalla contribuente, e quindi anche quella con cui si evidenziava la necessità che l’accertamento dovesse estendersi anche all’anno 2000, sicchè non è ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c..

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, per avere i giudici di appello erroneamente ritenuto che la questione prospettata relativa alla necessità di considerare l’operazione nella sua interezza fosse nuova, e come tale vietata in appello, pur essendo la stessa già presente nelle difese svolte in primo grado.

Formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “dica codesta Ecc.ma Suprema Corte di Cassazione se, ove eccepito già in I grado che l’accertamento dovesse riguardare l’intera operazione nel suo complesso e partire dall’anno 2000, anno nel quale l’operazione medesima era stata posta in essere, costituisca domanda nuova la circostanza che in relazione a tale annualità si fosse prescritto il diritto a procedere ad accertamento.

Dica pertanto, codesta Ecc. ma Suprema Corte di Cassazione se, nell’ambito del contenzioso tributario, incorra in nullità del procedimento e della sentenza per violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 4, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 la decisione (impugnata) la quale stabilendo che “Nessuna rilevanza può essere attribuita alla circostanza che parte contribuente abbia fruito per l’anno d’imposta 2000 del condono fiscale tombale, atteso che l’Ufficio ne ha chiesto la declaratoria di inammissibilità a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, trattandosi di domanda nuova. Pertanto, questo Collegio ritiene di non poter tener conto, ai fini della decisione, della presente causa, del condono tombale fruito per l’anno 2000 dalla parte contribuente, sotto il profilo dell’incontrovertibilità delle conseguenze scaturenti per gli anni successivi, tra cui quello del 2003, da un atto stipulato nell’anno 2000″, ritenga domanda nuova l’eccezione che l’operazione andasse considerata nel suo complesso e l’accertamento avrebbe dovuto innanzitutto avere ad oggetto l’anno 2000”.

2.1. Preliminarmente, va rilevato che l’art. 366-bis c.p.c. non è applicabile nella fattispecie ratione temporis, trattandosi di disposizione abrogata dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, che si applica alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge.

2.2. Il motivo è inammissibile in quanto non si confronta con la ratio decidendi.

I giudici di appello, aderendo alla tesi difensiva dell’Ufficio, hanno considerato “nuova”, perchè introdotta solo in grado di appello, l’eccezione con la quale la contribuente ha dedotto che l’anno d’imposta 2000 fosse ormai coperto dal condono tombale di cui alla L. n. 282 del 1992, ma non la diversa questione relativa alla necessità di considerare l’operazione nella sua interezza, sulla quale si sono implicitamente pronunciati, rigettandola.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 76 e 9, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto infondate le eccezioni e difese svolte in ordine al contestato transfer pricing.

Richiamando le argomentazioni difensive già esposte in primo ed in secondo grado, deduce che i giudici di merito ritengono che il transfer pricing si fondi su una presunzione rispetto alla quale occorre valutare la ricorrenza di circostanze gravi, precise e concordanti, mentre dalla giurisprudenza di legittimità è dato evincere che l’Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dimostrare che le operazioni poste in essere dalla società italiana rispondessero al fine precipuo di trasferire materia imponibile all’estero e, quindi, che l’imposizione fiscale in Italia fosse all’epoca effettivamente superiore rispetto a quella dei Paesi di residenza delle consociate estere, prova che non è stata offerta nel caso di specie, essendosi l’Agenzia delle entrate nelle proprie controdeduzioni limitata a riportare “brevi cenni sul fisco olandese”, del tutto generici e sprovvisti di qualsiasi riscontro.

I giudici di appello, ad avviso della ricorrente, hanno fondato il loro convincimento non su prove fornite dall’Agenzia delle entrate, ma su meri richiami a supposte “norme di comune esperienza”, poichè l’Amministrazione non ha svolto una verifica mediante raffronto con operazioni effettuate in regime di libera concorrenza, ossia tra imprese indipendenti oppure tra una società del gruppo e un’impresa indipendente, ma ha recepito, quale valore di controllo, il corrispettivo pattuito tra altre società all’interno del medesimo gruppo, ossia il corrispettivo pattuito tra la controllata olandese e la sua controllata spagnola, senza prendere in considerazione le specifiche caratteristiche e differenze delle due operazioni.

Evidenzia, al riguardo, che:

a) la transazione presa a comparazione per la verifica della congruità del prezzo di trasferimento del diritto di licenza del marchio non può essere considerata una “transazione di controllo”, trattandosi di operazione tra soggetti non indipendenti;

b) nel raffrontare i corrispettivi non si è tenuto conto dei costi di gestione della controllata olandese;

c) l’analisi di congruità doveva essere effettuata in base ad una stima previsionale e non a consuntivo, come ritenuto dall’Agenzia;

d) nel comparare le due transazioni l’Agenzia non aveva tenuto conto delle peculiari clausole contrattuali, ed in particolare della mancanza di esclusiva e del pagamento anticipato del corrispettivo;

e) il riferimento al tasso del 3 per cento da applicare al fatturato del licenziatario per quantificare il “valore normale” non poteva considerarsi attendibile, sia perchè non era un calcolo effettuato su stime previsionali, sia perchè avrebbe dovuto essere revisionato alla luce di altri criteri.

Formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “dica codesta Ecc.ma Suprema Corte di Cassazione se, ove effettuato accertamento in base al “valore normale” D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 75 e art. 9, l’accertamento debba essere fondato sulla prova che la fiscalità in Italia era superiore al paese terzo di residenza della consociata estera e sul concreto raffronto con operazioni intervenute tra società in condizioni di libera concorrenza. Dica, pertanto, codesta Ecc. ma Suprema Corte di Cassazone se, nell’ambito del contenzioso tributario, incorra in violazione e falsa applicazione D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 75 e art. 9 la decisione (impugnata) che ritenga legittimo un accertamento del valore normale fondato sulla “norma di comune esperienza che la legislazione fiscale italiana è meno favorevole nei confronti dei contribuenti di quanto lo siano le legislazioni tributarie di altri Paesi” e sulla evidenza della “sproporzione sussistente tra il compenso corrisposto dalla società iberica a quella olandese e quello corrisposto alla società verbalizzata, dalla società olandese”, facendole ritenere circostanze che giustificherebbero “la legittimità dell’operato del’Ufficio”.

3.1. Il motivo è infondato, anche se va integrata la motivazione in diritto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c..

3.2. Risulta pacifico che la contribuente, con contratto del 17 luglio 2000, ha concesso alla controllata olandese Streparava International B.V., in uso non esclusivo, marchi e know how, per un periodo di otto anni e undici mesi, a fronte di un corrispettivo totale di Lire 1.500.000.000, corrisposto in via anticipata ed in un’unica soluzione, e che la stessa contribuente ha contabilizzato, nell’anno 2004, l’importo di Euro 97.849,10, quale quota delle royalties percepite anticipatamente nell’anno 2000. La controllata olandese ha a sua volta subconcesso in uso i medesimi marchi e know how alla società Streparava Iberica S.L., controllata al 95 per cento dalla società olandese e al 5 per cento dalla odierna ricorrente, percependo royalties, per l’anno 2004, per Euro 766.286,00, pari al 3 per cento del fatturato della società spagnola.

L’Agenzia delle entrate, ritenendo che le royalties percepite dalla controllata olandese rappresentassero il “valore normale” della concessione in uso di tali beni immateriali, ha contestato all’odierna contribuente che la concessione in uso dei marchi e know how alla controllata olandese fosse avvenuta ad un prezzo inferiore al valore normale, trattandosi di cessione infragruppo, con licenziataria estera, ed ha pertanto proceduto al recupero a tassazione, ai fini Irpeg e Irap, dell’importo di Euro 668.436,90, quale differenza fra le royalties ricostruite a “valore normale” e la quota parte contabilizzata delle royalties, percepita anticipatamente dalla ricorrente nell’anno 2000, attualizzata all’anno 2004.

3.3. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7, nel testo applicabile ratione temporis, prevede che “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società, che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinati a norma del comma 2, se ne deriva un aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito”.

Per la determinazione del valore normale dei beni e dei servizi dello stesso art. 110 t.u.i.r., comma 2, rinvia alle disposizioni del precedente art. 9 dello stesso decreto, che, recependo il metodo del confronto dei prezzi indicato, tra gli altri, nelle direttive dell’OCSE, al comma 3 dispone che “per valore normale… si intende il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o i servizi sono stati acquisiti… “.

3.4. Come è stato chiarito da questa Corte, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5 (ora art. 110, comma 7) non integra una disciplina antielusiva, in senso proprio, perchè non prevede che l’amministrazione finanziaria debba provare il requisito della maggiore fiscalità nazionale ed è perciò applicabile anche in difetto di prova da parte dell’amministrazione finanziaria del conseguimento di un concreto vantaggio fiscale da parte del contribuente (Cass. n. 18392 del 18/9/2015).

Pertanto, in tema di determinazione del reddito d’impresa, la disciplina di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5 (ora 110, comma 7), essendo finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing, cioè dello spostamento di imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti, non richiede di provare, da parte dell’amministrazione, la funzione elusiva, ma solo l’esistenza di “transazioni” tra imprese collegate ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell’art. 9, comma 3, dello stesso decreto (Cass. n. 18392 del 2015, cit.; Cass. n. 7493 del 15/4/2016; Cass. n. 13387 del 30/6/2016; Cass. n. 27018 del 15/11/2017; Cass. 9673 del 19/4/2018; Cass. n. 28335 del 7/11/2018).

La ratio della normativa va dunque rinvenuta nel principio di libera concorrenza enunciato nel Modello di Convenzione OCSE, art. 9, il quale prevede la possibilità di sottoporre a tassazione gli utili derivanti da operazioni infragruppo che siano state regolate da condizioni diverse da quelle che sarebbero state convenute fra imprese indipendenti in transazioni comparabili effettuate sul libero mercato; si tratta, quindi, di verificare la sostanza economica dell’operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste.

3.5. La circolare n. 32 del 22 settembre 1980, avente ad oggetto “il prezzo di trasferimento nella determinazione dei redditi di imprese assoggettate a controllo estero”, richiama le direttive dell’OCSE sull’argomento e, soprattutto, la raccomandazione, riferibile alle amministrazioni fiscali degli Stati contraenti, di rispettare il principio “della libera concorrenza in sede di esame e di aggiustamento dei prezzi di trasferimento”.

In particolare, il capitolo V della circolare in esame prevede, in linea generale, che anche per le transazioni relative a beni immateriali l’indagine dell’Amministrazione debba ispirarsi al principio del prezzo di libera concorrenza, “che sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti”.

Tuttavia, in ragione della natura del bene trasferito che difficilmente consente il ritrovamento di transazioni comparabili, la medesima circolare, pur non escludendo che in alcuni casi possa trovare applicazione uno dei criteri base adottati per le cessioni dei beni materiali (confronto, rivendita o costo maggiorato), evidenzia che non va trascurato che un contratto di licenza dipende essenzialmente dalle previsioni del risultato che potrà essere conseguito dal licenziatario nel territorio cui si riferisce il diritto di sfruttamento e che è dunque necessaria la elaborazione di metodi sussidiari di valutazione, sempre ispirati al principio del prezzo di piena concorrenza, ossia al prezzo che sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti.

In ordine alla determinazione del canone concernente l’utilizzazione di beni immateriali, nella circolare si osserva che esso risente notevolmente delle caratterisiche specifiche del settore economico al quale il diritto immateriale si riferisce e che in genere esso viene commisurato percentualmente al fatturato del licenziatario, per cui il riferimento a tali indici costituisce un valido dato iniziale per l’accertamento del “valore normale”.

3.6. Per ottenere il massimo grado di omogeneità possibile, la seconda parte dell’art. 9 t.u.i.r. prevede che “per la determinazione del valore normale”, si deve fare riferimento “in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi”.

La presenza, nel caso di specie, di una seconda transazione commerciale infragruppo coglie appieno il significato estimativo dell’art. 9 t.u.i.r., così come del modello OCSE.

In tale caso, è possibile ed è, anzi, auspicata l’adozione del metodo del prezzo di rivendita – Resale Price Method – non solo dalla Circolare del 22 settembre 1980, n. 32/9/2267, ma anche dal rapporto OCSE del 1995.

Infatti, essendosi in presenza di società controllata, licenziataria del marchio, che costituisce un diritto di sub-licenza a favore di altra impresa controllata verso corrispettivo, il canone pagato dalla sublicenziataria, dedotto dei costi e di un margine di utile, consente la fissazione del “valore normale” del canone pattuito tra la società titolare del bene immateriale e la licenziataria.

Occorre, al riguardo, considerare che, nel caso di specie, la società controllata olandese non esercitava, come riconosciuto dalla stessa contribuente, attività di produzione o di commercializzazione di prodotti, ma si limitava a svolgere attività di holding per le partecipazioni estere di gruppo e di gestione dei marchi “Streparava” e “S” e del know how per la produzione di assali a ruote indipendenti, con facoltà di concedere in sublicenza l’uso di tali beni immateriali e percependo in tal modo royalties per un valore corrispondente al risultato teconologico conseguito dalla società sub-licenziataria, effettiva utilizzatrice dei marchi e del know-how.

Inoltre, la maggiorazione del prezzo di cessione nella seconda transazione non trova giustificazione in eventuali costi di gestione della controllata olandese, che, sebbene genericamente richiamati dalla ricorrente, sono rimasti privi di qualsiasi riscontro, non solo documentale, ma anche circostanziale, pure a fronte della precisa contestazione sollevata in controricorso dall’Agenzia delle entrate.

Ne consegue che l’accertamento operato che, ai fini della verifica della congruità del valore della transazione intercorsa tra la società italiana e la controllata olandese, opera un raffronto con il corrispettivo fissato nella transazione conclusa tra la società olandese e quella spagnola, pari a circa il 3 per cento del fatturato di quest’ultima, risulta in linea sia con i criteri richiamati dalla circolare n. 32 del 1980, che ha recepito le indicazioni del rapporto redatto dall’OCSE nel 1979, sia con il Rapporto OCSE del 1995.

Alla stregua delle considerazioni svolte ad integrazione della motivazione, la sentenza impugnata va, dunque, confermata laddove afferma la legittimità della ripresa a tassazione ai fini Irpeg e Irap, non rispondendo il canone pagato dalla società olandese alla odierna ricorrente ai criteri del “valore normale” di cui all’art. 9 t.u.i.r. e risultando l’operazione esclusivamente finalizzata a realizzare una strumentale interposizione della consociata olandese nei rapporti tra la odierna ricorrente e la società spagnola al solo fine di spostare redditi nei Paesi Bassi.

4. Con il quarto motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., assumendo che i giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi sulla dedotta illegittimità dell’atto di accertamento che non specificava le ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni difensive presentate dalla contribuente e, con il quinto motivo, riproponendo le medesime argomentazioni, sostiene che i giudici di appello avrebbero omesso di motivare in merito allo stesso motivo di gravame.

4.1. Il quarto motivo è infondato, in quanto, come già evidenziato al p. 1.1), non è configurabile vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Cass., sez. 5, n. 29191 del 6/12/2017; Cass., sez. 2, ord. n. 20718 del 13/8/2018).

La Commissione regionale, affermando che l’Ufficio ha compiutamente indicato le ragioni giuridiche poste a fondamento dell’avviso di accertamento, ha implicitamente ritenuto infondate tutte le contestazioni della contribuente concernenti la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.

4.2. Quanto, poi, alla dedotta mancanza di motivazione sulla medesima questione, occorre premettere che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la omessa motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tale caso, infatti, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., ha il potere di correggere la motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., anche a fronte di un error in procedendo, enunciando le ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti di implicito rigetto della domanda, sempre che la questione non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. Sez. U, n. 2731 del 2/2/2017; Cass. n. 28663 del 27/12/2013; Cass. n. 23989 del 11/11/2014, che afferma il medesimo principio con riferimento al caso di motivazione solo apparente).

Ne consegue che è possibile integrare la motivazione della sentenza impugnata, che sul punto risulta lacunosa, nei termini che seguono.

Come è stato precisato da questa Corte, in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, “è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni presentate dal contribuente ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, atteso che la nullità consegue solo alle irregolarità per cui essa sia espressamente prevista dalla legge, oppure, in difetto di previsione, allorchè ricorra una lesione di specifici diritti o garanzie tali da impedire la produzione di effetti da parte dell’atto cui ineriscono” (Cass. n. 3583 del 2016; Cass. 20781 del 14/10/2016; Cass. n. 15616 del 11/7/2016).

Ciò significa che all’obbligo dell’amministrazione finanziaria di “valutare” le osservazioni del contribuente (cui l’imposizione del termine dilatorio, a pena di nullità, è strumentale) non si aggiunge l’ulteriore obbligo di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo, a pena di nullità (Cass., sez. 6-5, ord. n. 8378 del 31/3/2017).

La mancata esplicitazione nella motivazione dell’atto impositivo della valutazione delle osservazioni difensive presentate dalla contribuente non è dunque causa di invalidità dell’atto di accertamento.

5. Da ultimo, va rilevato che con la memoria ex art. 378 c.p.c., la contribuente chiede la rideterminazione delle sanzioni previa applicazione della disciplina introdotta dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, ad essa più favorevole.

Come questa Corte ha chiarito, la modifica normativa in esame non opera in maniera generalizzata in favor rei, con la conseguenza che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata (Cass. n. 9505 del 12/4/2017; Cass. n. 17143 del 28/6/2018; Cass. n. 29046 del 11/11/2019).

Nel caso in esame, tuttavia, la ricorrente ha ritrascritto in modo puntuale nella memoria uno stralcio dell’avviso di accertamento indicante le violazioni accertate e le sanzioni in concreto irrogate e, richiamando la sanzione più favorevole introdotta dallo ius superveniens, ha anche rideterminato la misura della sanzione in concreto applicabile che risulta inferiore a quella irrogata.

6. Ne consegue che, rigettati i motivi del ricorso, la causa va rimessa alla competente Commissione tributaria regionale che dovrà procedere alla rideterminazione delle sanzioni secondo parametri edittali che risultino proporzionati e adeguati rispetto al trattamento più favorevole sopravvenuto, anche nel caso in cui esse rientrino quantitativamente nella nuova cornice sanzionatoria.

Il giudice del rinvio dovrà, altresì, provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando sul ricorso, rigetta i motivi e, in relazione alle sanzioni, cassa la sentenza con rinvio alla Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 2 marzo 2020

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