Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5639 del 12/03/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 5639 Anno 2014
Presidente: SEGRETO ANTONIO
Relatore: VIVALDI ROBERTA

Ud. 15/01/2014

SENTENZA

PU

sul ricorso 13338-2008 proposto da:
IM SRL , DI PALO SERGIO, DI PALO ROSA, DI PALO
UMBERTO, DI PALO RAFFAELE, DI PALO CHIARA, CERBONE
CONCETTA, elettivamente domiciliati ex lege in ROMA,
presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,
rappresentati e difesi dall’avvocato MONTEMURRO
2014

ROBERTO giusta delega a margine;
– ricorrenti –

82

contro

ALMEREST

SRL,

in

persona

del

suo

legale

rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in

1

o

Data pubblicazione: 12/03/2014

ROMA, VIA DI PORTA PINCIANA 4, presso lo studio
dell’avvocato SANTARONI MARIO, rappresentata e difesa
dall’avvocato DI MEGLIO GIUSEPPE giusta delega in
calce;
– controricorrente –

DE MAIO LUCIANO, DE MAIO GENNARO;
– intimati –

avverso la sentenza n. 847/2007 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, depositata il 21/03/2007 R.G.N. 3342/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/01/2014 dal Consigliere Dott. ROBERTA
VIVALDI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. AURELIO GOLIA che ha concluso per
l’accoglimento p.q.r. del ricorso.

2

nonchè contro

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza non definitiva in data 27.5.1998, il tribunale di
Napoli, nel giudizio promosso da Luigi Di Palo nei confronti di
Almerest srl, e Luciano e Gennaro De Maio, accolse la domanda di
risoluzione del contratto del 27.5.1993 concluso fra l’attore e

Almerest srl.
Con separata ordinanza rimise, quindi, la causa in istruttoria
al fine di accertare il

quantum

del risarcimento dovuto,

riferito al valore dell’immobile, oggetto dell’inadempiuta
promessa di vendita ed il suo valore locativo.
Quindi, con sentenza definitiva del 18.4.2002, condannò
convenuti in solido Almerest srl e Luciano e Gennaro De Maio al
risarcimento dei danni come quantificati in sentenza in favore
della interventrice, ex art. 111 c.p.c., IM srl.
Proposero, appello principale avverso entrambe le sentenze
Almerest srl e Luciano e Gennaro De Maio contestando l’erroneità
delle decisioni adottate.

Si contituiron0 IN

srl

e Raffaele, Rosa, UMbertg, Sergio e

Chiara Di Palo e Concetta Cerbone, quali eredi di Luigi Di Palo
chiedendo il rigetto dell’appello principale, e proponendo, a
loro volta, appello incidentale avverso la sentenza resa in via
definitiva.
La Corte d’Appello, con sentenza del 21.3.2007, rigettò entrambi
gli appelli.

3

l’Almerest srl, e rigettò le domande riconvenzionali proposte da

Hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi
la società I.M. srl, Raffaele, Rosa, Umberto, Sergio e Chiara Di
Palo e Concetta Cerbone.
Resiste con controricorso Almerest srl.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza
pubblicata una volta entrato in vigore il D. Lgs. 15 febbraio
2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in
materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi,
delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I.
Secondo l’art. 366-bis c.p.c. introdotto dall’art. 6 del
decreto – i motivi di ricorso devono essere formulati, a pena di
inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei
casi previsti dall’ art. 360, n. l), 2), 3) e 4, l’illustrazione
di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un
quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360,
primo comma, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve
contenere la chiara indicazione del fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume omessa o
contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta
insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare
la decisione.
Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c.,
l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di
inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in
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MOTIVI DELLA DECISIONE

relazione al quale la motivazione si assume omessa o
contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta
insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare
la decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di
sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva

in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua
ammissibilità (S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n.
16002).
Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione
risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di
diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere
formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la
violazione di norme di diritto, in modo tale da collegare il
vizio denunciato alla fattispecie concreta ( v. S.U. 11.3.2008
n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art.
366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui
quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere
generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo
della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie
in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a
definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi
desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il
primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del
suddetto articolo).

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puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze

La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella
di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del
solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della
questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal
giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del

8463; v, anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433).
Inoltre, l’art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di
formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta – ai
fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimità, a
seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dai numeri l,
2, 3 e 4 dell’art. 360, primo comma, c.p.c., ovvero del motivo
previsto dal numero 5 della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura

– come già detto – deve,

all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di
diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va
funzionalizzata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., all’enunciazione
del principio di diritto, ovvero a

dicta

giurisprudenziali su

questioni di diritto di particolare importanza.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui
al n. 5 dell’art. 360 c. p.c.c. (il cui oggetto riguarda il solo
iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una
illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve
concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto
controverso ( cd. momento di sintesi) – in relazione al quale la
6

r

ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass.7.4.2009 n.

motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle
ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la
motivazione a giustificare la decisione (v. da ultimo Cass.
25.2.2009 n. 4556; v. anche Cass. 18.11.2011 n. 24255).
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ex

art.360 n. 3,

relazione all’art. 1453 c.c..
Contestano il mancato riconoscimento – da parte della Corte di
merito – della rivalutazione delle somme dovute in restituzione
a seguito della risoluzione del contratto preliminare di
compravendita concluso fra le parti.
Il motivo non è fondato per le ragioni che seguono.
La questione della natura del debito di restituzione di somme di
denaro, versate in forza di un contratto risolto per
inadempimento dell’altra parte, è stata oggetto di vivace
dibattito in dottrina ed in giurisprudenza.
Secondo

un

indirizzo

giurisprudenziale

il

debito

di

restituzione, conseguente alla risoluzione per inadempimento del
contratto in forza del quale la somma di denaro da restituire
sia stata versata, ha natura di debito di valore, ciò,
desumendosi dalla efficacia retroattiva della risoluzione (art.
1458 c.c.) e, soprattutto, dalla funzione della restituzione
stessa, che, analogamente al risarcimento del danno (oggetto di
un debito di valore per eccellenza), mira a rimettere le parti
nella stessa situazione nella quale le stesse si trovavano prima
della conclusione del contratto, così come il risarcimento del
7

violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1224 c.c. in

danno tende a reintegrare in modo pieno il patrimonio del
danneggiato, neutralizzando le conseguenze dell’evento lesivo.
Su tale base, quindi, la parte, che in forza del contratto
risolto per sua colpa abbia ricevuto una somma di denaro, è
obbligata a restituire la somma rivalutata; cioè automaticamente

(Cass.

23.8.1985 n.

4510;

Cass.

26.2.1986 n.

1203;

Cass.

12.6.1987 n. 5143; Cass. 27.8.1990 n. 8834; da ultimo
Cass.13/05/2004 n. 9091).
Secondo un indirizzo opposto, invece, alla base dell’obbligo di
restituzione non vi è una sorta di obbligazione risarcitoria, ma
il semplice venir meno della causa giustificativa delle
attribuzioni patrimoniali.
Situazione questa che si verifica, non solo nel caso di
risoluzione, ma anche nei casi di nullità, annullamento,
rescissione del contratto ed, in genere, in tutti i casi in cui
venga meno il vincolo originariamente esistente e che
concretizza, in sostanza, una situazione di indebito oggettivo
ex art. 2033 c.c..
L’accipiens

è tenuto alla restituzione della prestazione

pecuniaria ricevuta, ed il suo è un debito di valuta,
insensibile, come tale, al fenomeno della svalutazione
monetaria, salvo che il creditore non dimostri – e questa è una
regola riguardante tutti i casi di inadempimento o di tardivo
adempimento delle obbligazioni pecuniarie in generale – di aver

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adeguata alla svalutazione monetaria eventualmente sopravvenuta

subito,

in conseguenza della svalutazione monetaria,

un

particolare pregiudizio, per l’indisponibilità della somma.
Pregiudizio, questo, risarcibile ai sensi dell’art. 1224, cpv.,
c.c. (in tal senso, v. per tutte Cass. 17.7.2002 n. 10373 e
successive conformi).

riferimento ad un caso di risoluzione di un contratto di
compravendita, le Sezioni Unite Civili di questa Corte Suprema,
che, con la sentenza n. 12942 del 4 dicembre 1992, hanno
composto il contrasto in adesione all’indirizzo che considera
debito di valuta soggetto, quindi, al principio nominalistico,
l’obbligazione in questione, enunciando il principio, secondo
cui l’obbligazione del venditore di restituire al compratore la
somma ricevuta a titolo di prezzo, in conseguenza della
risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento,
configura un debito di valuta, avente ad oggetto l’originaria
prestazione pecuniaria, del tutto distinto dal risarcimento del
danno spettante, in ogni caso, all’adempiente.
Non può, dunque, procedersi alla rivalutazione automatica della
somma dovuta in restituzione, ma della svalutazione monetaria
dovrà tenersi conto nella liquidazione dei danni derivanti dalla
mancata disponibilità di quella somma.
Il principio è stato riconfermato da S.U. 17.5.1995, n. 5391,
che hanno affermato che alla parte adempiente, oltre al
risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 1453 c.c., può
eventualmente spettare soltanto il maggior danno rispetto agli
9

A dirimere il contrasto giurisprudenziale sono intervenute, con

interessi moratori, ai sensi dell’art. 1224, c. 2, c.c., sulla
somma da restituire, sempre che questo risarcimento ulteriore,
del quale il richiedente ha l’onere di provare le condizioni,
non rimanga assorbito dal risarcimento accordato per il danno
derivante dall’inadempimento, dovendosi evitare

danno (nello stesso senso Cass. 8.11.2002 n. 15696; Cass.
17.7.2002 n. 10373; Cass. 5.5.2003 n. 6758; Cass. 7.6.2006 n.
13339).
Questa Corte ritiene di aderire a tale ultimo orientamento; e
ciò perché le restituzioni in favore della parte adempiente, in
caso di risoluzione del contratto, non ineriscono ad una
obbligazione risarcitoria, derivando dal venir meno, per effetto
della pronuncia costitutiva della risoluzione, della causa delle
reciproche obbligazioni.
Quindi, quando siano relative a somme di danaro, danno luogo a
debiti, non di valore, ma di valuta, non soggetti a
rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno
rispetto a quello soddisfatto con gli interessi legali, ai sensi
dell’art. 1224 c.c.; danno che va, quindi, provato.
Con il secondo motivo si denuncia

ex art. 360 nn. 3 e 5 per

omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e per
violazione e falsa applicazione degli artt. 441 e 116 c.p.c. e
2697 c.c..
Il motivo è inammissibile.

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un’ingiustificata duplicazione del risarcimento dello stesso

La Corte di merito ha liquidato in via equitativa il danno per
non essere stata fornita alcuna prova del maggior danno.
A questa conclusione è correttamente pervenuta ritenendo
insufficienti a fornire la prova del preciso ammontare del danno
risarcibile le conclusioni della consulenza tecnica espletata

Trattasi di valutazione di merito che, congruamente motivata,
non è censurabile in sede di legittimità sottolineandosi,
peraltro, che la consulenza tecnica d’ufficio non può
costituire, essa stessa, prova di un maggior danno non provato.
Con il terzo motivo si denuncia subordinatamente al motivo n. 2,
violazione, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., per omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione e per violazione e
falsa applicazione degli artt. 1223 e 1224 c.c. in relazione
agli artt. 1453 e 1458 c.c..
Il motivo non è fondato.
La Corte di merito ha confermato la decisione di primo grado che
aveva condannato i convenuti al pagamento della somma di lire
248 milioni, quali frutti non percepiti fino al giugno 1998,
data della pronuncia della risoluzione sul corretto presupposto
per il quale il risarcimento del danno dovuto al promissario
acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo
di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente
venditore, consiste nella differenza, tra il valore commerciale
del bene, da determinarsi con riferimento al momento della
proposizione della domanda, ed il prezzo pattuito.
11

nel giudizio di primo grado.

Il riferimento alla data della pronuncia e non a quella della
domanda toglie pregio alla censura relativa alla rivalutazione
monetaria.
Peraltro,

si tratta, anche in questo caso, di valutazione di

merito, non censurabile in questa sede.

lacunosità delle indicazioni esposte nel motivo, nel quale non è
riportato il contenuto della richiesta formulata nel giudizio di
appello, la censura viene presentata come un’omessa pronuncia su
di un capo della domanda ( quella relativa al riconoscimento
della rivalutazione monetaria), denunciabile, quindi, ai sensi
dell’art. 360 n. 4 c.p.c., e non ai sensi degli artt. 360 nn. 3
e 5 c.p.c.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’articolo 91 del
c.p.c..
Il motivo è inammissibile.
La contestazione della disposta compensazione, da parte della
Corte di merito, non può formare oggetto di censura in sede di
legittimità, appartenendo un tale potere al giudice del merito
che, nella specie, ha giustificato un tale regolamento delle
spese in virtù della reciproca soccombenza.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo
in favore della resistente, sono poste a carico solidale dei
ricorrenti.

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Non senza ulteriormente osservare che, anche a prescindere dalla

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al
pagamento delle spese, in favore della resistente Almerest srl,
che liquida in complessivi C 3.200,00, di cui C 3.000,00 per
compensi, oltre accessori di legge.

consiglio della terza sezione civile della Corte di cassazione.

Così deciso il 15 gennaio 2014 in Roma, nella camera di

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