Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5604 del 02/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/03/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 02/03/2021), n.5604

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO G. M. – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al numero 2517 del ruolo generale dell’anno

2014, proposto da:

R.F., rappresentato e difeso, giusta procura speciale

apposta a margine del ricorso, dall’avv. Giuseppe Romano,

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv.to Angelo

Caliendo in Roma, Via Cagliari n. 14;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore;

– resistente –

e

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t.

– intimato –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Campania, n. 285/50/13, depositata in data 4 giugno

2013, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11 novembre 2020 dal Relatore Consigliere Maria Giulia Putaturo

Donati Viscido di Nocera.

 

Fatto

RILEVATO

che:

-con sentenza n. 285/50/13, depositata in data 4 giugno 2013, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Campania, rigettava l’appello proposto da R.F. nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 81/19/2012, della Commissione tributaria provinciale di Napoli che aveva rigettato il ricorso proposto dal suddetto contribuente avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) con il quale l’Ufficio di Castellammare di Stabia, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex artt. 39, comma 1, lett. d), del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, aveva contestato nei confronti di quest’ultimo, esercente attività di commercio al dettaglio di articoli di abbigliamento, maggiori ricavi, ai fini Irpef, Irap e Iva, per l’anno 2006, in base allo scostamento tra il reddito dichiarato e quello derivante dall’applicazione dello studio di settore e all’emersa antieconomicità della gestione aziendale;

– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che:1) come già rilevato, sia pure sinteticamente, nella sentenza di primo grado, l’accertamento impugnato- disposto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. a (rectius d) e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies – era scaturito dall’andamento gestionale dell’esercizio di vendita al dettaglio del contribuente contrassegnato da una antieconomicità, alla stregua dell’esistenza costante di ingenti perdite di esercizio e di indici di redditività poco remunerativi e realistici, se rapportati a quelli di analoghe imprese sul medesimo territorio; 2)in particolare, come si evinceva dall’avviso di accertamento, le rimanenze iniziali al 2006 erano state ridotte dal contribuente al 31 dicembre di Euro 324.190,00 e su questo importo le percentuali applicate erano state quelle dei saldi mentre sugli importi degli acquisti dell’anno era stata applicata una ricarica lorda del 30,40%, da ritenersi irrisoria nel campo dell’abbigliamento; 3) nè in primo grado nè in sede di gravame, il contribuente aveva fornito elementi idonei a documentare le proprie ridotte capacità reddituali tali da scardinare il metodo logico di accertamento adottato dall’Ufficio;

– avverso la sentenza della CTR, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi; l’Agenzia delle entrate ha depositato “atto di costituzione” al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione; è rimasto intimato il Ministero dell’economia e delle finanze;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– va preliminarmente dichiarato inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze – rimasto intimato-in quanto privo di legittimazione passiva, per essere stato il giudizio d’appello azionato dopo il primo gennaio 2001, spettando, in tema di contenzioso tributario, la legittimazione “ad causam” e ad “processum”, esclusivamente all’Agenzia delle entrate con riferimento ai procedimenti introdotti successivamente al 1 gennaio 2001 (ex multis, Cass. Sez. 5, Ord. n. 29183 del 06/12/2017);

– con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia e, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, art. 2729 c.c. e art. 53 Cost., per avere la CTR – omettendo di valutare i dati forniti dal contribuente e le istanze difensive di quest’ultimo-erroneamente ritenuto legittimo l’avviso di accertamento impugnato, ancorchè la ricostruzione analitico-induttiva dei maggiori ricavi fosse stata operata dall’Ufficio sulla base del mero disallineamento tra ricavi dichiarati e valori determinati in base agli studi di settore senza che tale scostamento fosse confortato da altri elementi presuntivi – gravi, precisi e concordanti – tratti dalla peculiare realtà commerciale del contribuente;

– il motivo si profila complessivamente inammissibile;

– in primo luogo il ricorrente col mezzo all’esame ha cumulato censure per violazioni di legge e per vizi motivazionali senza però distinguere tra di essi nell’illustrazione del motivo: in tal modo impedendo un sicuro esercizio nomofilattico; al riguardo va ricordato il principio reiteratamente affermato da questa Corte (cfr., ex multis, Cass. n. 21611 del 2013; v. anche Cass. 7009 del 2017) secondo cui “il motivo di impugnazione che (come nel caso qui vagliato) prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate, e dalla deduzione del vizio di motivazione, è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione”;

– peraltro, il contribuente -al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura – non ha assolto, in punto di autosufficienza, all’onere di riportare in ricorso, nelle parti rilevanti, il contenuto degli atti difensivi dei gradi di merito onde consentire a questa Corte di verificare gli esatti termini della questione e di averne la completa cognizione al fine di valutare la fondatezza della censura; invero, il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (ex multis, Cass. n. 7825 e n. 12688 del 2006; Cass. n. 14784 del 2015);

– in ogni caso, quanto al dedotto vizio di violazione di legge, premesso che, come affermato da questa Corte, “Il dato che l’accertamento sia “basato” sullo studio di settore non esclude che esso possa trovare anche altre giustificazioni come, ad esempio, riscontrate irregolarità contabili o la ritenuta antieconomicità della gestione aziendale. Un accertamento tributario può dirsi basato su uno studio di settore, però, sol quando trovi in esso il suo fondamento prevalente. Tanto non si verifica quando, ad esempio, mediante l’utilizzo degli studi di settore siano emerse incongruenze nella contabilità di impresa che abbiano indotto l’Ente accertatore ad approfondire l’analisi, riscoprendo altri, e prevalenti, indici rivelatori dell’esistenza di una operatività economica non dichiarata, raccogliendo l’Amministrazione finanziaria elementi gravi, precisi e concordanti, posti a fondamento dell’accertamento tributario (cfr. Cass. sez.V, n. 15344 del 2019; n. 31814 del 2019); e che “Nel caso di accertamento basato esclusivamente sugli studi di settore, l’Amministrazione finanziaria è obbligata ad instaurare il contraddittorio preventivo con il contribuente ai sensi della L. n. 146 del 1998, art. 10, mentre detto obbligo non opera qualora l’accertamento si fondi anche su altri elementi giustificativi, quali riscontrate irregolarità contabili o antieconomiche gestioni aziendali” (Cass.,sez. 5, Cass. n. 1505 del 2020; n. 31814 del 05/12/2019; Sez. 5, n. 27617 del 30/10/2018; n. 27401 del 2017);nella specie, il motivo di ricorso, pur prospettando una violazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, comma 3, in combinato all’art. 2729 c.c. e art. 53 Cost., in realtà tende inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, ponendo in discussione l’accertamento in fatto compiuto dalla CTR secondo cui la ricostruzione analitico-induttiva da parte dell’ufficio dei maggiori ricavi (non dichiarati) era basata non solo sull’applicazione degli studi di settore ma anche sulla rilevata antieconomicità del comportamento del contribuente, avuto riguardo a precisi indici presuntivi -gravi, precisi e concordanti- tratti dalla concreta realtà commerciale di questi, quali la esistenza costante di ingenti perdite di esercizio, la riduzione delle rimanenze iniziali al 2006 con l’applicazione delle percentuali dei saldi, l’applicazione sul costo degli acquisti dell’anno 2006 di un ricarico lordo (del 30,40%) assolutamente irrisorio nel campo dell’abbigliamento; peraltro, a fronte di tali risultanze, la CTR ha ritenuto – sempre con un insindacabile apprezzamento di merito – che il contribuente non avesse fornito, nè in primo grado nè in sede di gravame, elementi idonei a documentare le proprie ridotte capacità reddituali tali da inficiare il metodo logico di accertamento adottato dall’Ufficio; al riguardo, va ribadito l’orientamento di questa Corte secondo cui “E’ inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 18721 del 13/07/2018);

– quanto al dedotto vizio del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il motivo si profila inammissibile, posto che il vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 4 giugno 2013) concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015); nella specie, la ricorrente non ha assolto il suddetto onere, non avendo dedotto l’omesso esame di un “fatto storico”, ma peraltro di profili involgenti accertamenti in fatto operati dal giudice di appello, la rivalutazione dei quali è preclusa a questa Corte;

– con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “error in iudicando-difetto di motivazione- la violazione dell’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente e dell’art. 24 Cost.” per avere la CTR erroneamente ritenuto legittimo l’avviso di accertamento ancorchè – come dedotto dal contribuente nei gradi di merito- fosse carente di motivazione, non avendo indicato i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche sottese alla pretesa impositiva (il che, peraltro, aveva comportato il difetto motivazionale, sotto tale profilo, anche della sentenza di primo grado);

– il motivo si profila inammissibile non avendo la contribuente assolto, in punto di autosufficienza, all’onere di riportare in ricorso nè, nelle parti rilevanti, gli atti difensivi dei gradi di merito, nè testualmente il contenuto dell’atto impositivo la sufficienza della cui motivazione viene censurata. Al riguardo, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (Cass. sez. 5, n. 16147 del 28/06/2017) essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento (Cass. sez. 5, n. 9536 del 19/04/2013);

-in ogni caso, la censura tende ad una inammissibile rivisitazione di valutazioni di merito effettuate dal giudice di appello avendo questi osservato che – come già posto in rilievo sia pure in maniera sintetica dalla sentenza di primo grado – l’accertamento in questione scaturiva dalla verifica dell’andamento gestionale dell’esercizio commerciale del contribuente (vendita al dettaglio di articoli di abbigliamento) contrassegnato da una antieconomicità, alla stregua dell’esistenza costante di ingenti perdite di esercizio e di indici di redditività poco realistici e remunerativi, se rapportati a quelli di analoghe imprese sul medesimo territorio; in particolare, come si evinceva dall’avviso di accertamento (pag. 3), le rimanenze iniziali al 2006 erano state ridotte dal contribuente al 31 dicembre di Euro 324.190,00 e su questo importo le percentuali applicate erano state quelle dei saldi mentre sugli importi degli acquisti dell’anno era stata applicata una ricarica lorda del 30,40%, da ritenersi irrisoria nel campo dell’abbigliamento, rapportata alle mode, agli invenduti etc.;

– in conclusione, il ricorso va rigettato;

– nulla sulle spese del giudizio di legittimità, essendo rimasta resistente l’Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2021

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