Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5603 del 02/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 02/03/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 02/03/2021), n.5603

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. NONNO G. M. – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al numero 14346 del ruolo generale dell’anno

2013, proposto da:

S.E., rappresentato e difeso, giusta procura speciale

apposta a margine del ricorso, dall’avv.to Valerio Tavormina e

dall’avv.to Michela Natale, elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’ultimo difensore, in Roma, Via C. Mirabello, n. 23;

– ricorrente –

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 172/46/12, depositata in data 12

dicembre 2012, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11 novembre 2020 dal Relatore Consigliere Putaturo Donati

Viscido di Nocera Maria Giulia.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

– con sentenza n. 172/46/12, depositata in data 12 dicembre 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Campania, rigettava l’appello proposto da S.E. nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 64/03/2011, della Commissione tributaria provinciale di Pavia che aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dal suddetto contribuente avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) con il quale l’Ufficio di Pavia, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, aveva contestato nei confronti di quest’ultimo, esercente attività di installazione di impianti elettrici, un maggiore reddito di impresa (in Euro 99.399,00), ai fini Irpef, Irap e Iva, per l’anno 2004, in base alla emersa incongruenza tra i ricavi dichiarati e i costi sostenuti, anche in relazione al tempo e all’impiego di lavoro svolto dal titolare e al conteggio delle ore lavorate dagli operai, con applicazione di un maggiore ricarico (del 35%) sui costi dei materiali;

– la CTR – nel confermare la sentenza di primo grado che, in parziale accoglimento del ricorso, aveva ridotto la percentuale di ricarico sui materiali (dal 35% al 30%) con rideterminazione del reddito imponibile in Euro 70.000,00 – in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che: 1) la ricostruzione- con metodo analitico-induttivo-operata dall’Ufficio del maggiore reddito di impresa era legittima in quanto basata su rilevanti elementi di produzione dei ricavi, dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, tratti dall’esame della contabilità del contribuente, mediante l’elaborazione di quanto acquisito documentalmente da quest’ultimo in risposta al questionario notificatogli; 2) in particolare, andava confermata la percentuale di operatività – determinata dal giudice di prime cure nel 40%- del titolare ricorrente, avuto riguardo al suo indispensabile intervento diretto nella installazione di impianti elettrici, e, non disconoscendone, al contempo, gli impegni extra cantieri; 3) condivisibile era anche il conteggio delle ore lavorate dagli operai, diviso in operai generici e specializzati, da cui era stata tratta la determinazione dei ricavi in funzione delle ore di lavoro dipendenti, avendo l’ufficio considerato i costi per salari e stipendi indicati nella dichiarazione dei redditi e il numero delle giornate (per otto ore) lavorate, suddiviso in base alle categorie dei dipendenti, emergente dallo studio di settore presentato dallo stesso contribuente in allegato alla dichiarazione dei redditi; 4) la minore percentuale di ricarico (del 30% anzichè del 35%) sui costi dei materiali determinata dal giudice di primo grado era da confermare in quanto corrispondente a quanto esposto in merito dal contribuente per alcuni cantieri, peraltro in subappalto; 5) i costi sostenuti (in Euro 383.944,00) risultavano sproporzionati rispetto ai ricavi dichiarati (in Euro 385.622,00), considerando anche che non venivano esposte rimanenze in magazzino di materiale elettrico; 6) nel conto economico risultava l’esposizione di un utile esiguo (di Euro 2.225,00) denotante verosimilmente un’antieconomicità dell’attività di impresa; 7) inoltre, dall’uso contabile del “Conto titolare” in luogo dell’usuale “Conto Cassa”, risultava l’annotazione soprattutto dei prelevamenti del titolare e il pagamento delle fatture dello stesso con un saldo attivo di Euro 52.861,33 mentre dalla Scheda “Stazioni di rifornimento carburante” risultava la registrazione, mese per mese, dei rifornimenti, poi pagati in data 31.12.2004 tramite esborsi in contanti del titolare (“Conto titolare”);

– avverso la sentenza della CTR, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui ha resistito, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;

– il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380bis.1 c.p.c.;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, anche in combinato disposto con gli artt. 2727,2729 c.c. e art. 115 c.p.c., comma 1, per avere la CTR ritenuto legittimo l’accertamento analitico-induttivo operato dall’Ufficio, ancorchè difettassero elementi presuntivi – gravi, precisi e concordanti- di un maggiore reddito imponibile, essendo la sentenza impugnata basata su mere “convinzioni o asserzioni” – inidonee a fondare valide presunzioni – circa la scarsa remuneratività del reddito dichiarato in relazione al tempo e all’impiego del personale lavoro del titolare dell’impresa, produttivo di ricavi, ai costi sostenuti, alla mancanza, a fine esercizio, di rimanenze finali (circostanza, peraltro, giustificata dal contribuente, per essere tutte le scorte state vendute entro la fine dell’esercizio, e rimasta incontestata dall’Ufficio ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 1), all’uso, in luogo dell’usuale “Conto Cassa”, del “Conto Titolare” (anche se tutti i relativi movimenti erano stati analiticamente e sistematicamente registrati nelle scritture contabili) e alla scheda “Stazioni di rifornimento carburante” nella quale i rifornimenti risultavano pagati, in data 31.12.04, tramite esborsi in contanti del titolare (anche se la regolare registrazione in contabilità dei prelievi di carburante era rimasta circostanza incontestata ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 1);

– con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 1, artt. 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, anche in combinato disposto con l’art. 115 c.p.c., comma 1, per avere la CTR erroneamente ritenuto che il 40% (anzichè soltanto il 10% come prospettato dal contribuente) dell’astratta capacità lavorativa del contribuente fosse stato dedicato, nel 2004, alla prestazione di mano d’opera, senza considerare che quest’ultimo, mentre per l’attività di installatore di impianti elettrici, si avvaleva di cinque operai, era tenuto a svolgere personalmente altre numerose mansioni di carattere amministrativo e commerciale;

– con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 1, artt. 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, art. 115 c.p.c., comma 1, nonchè, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di documenti circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per avere la CTR determinato il numero di ore effettivamente lavorate dai dipendenti sulla base della semplice affermazione dell’Ufficio (secondo cui nell’allegato alla dichiarazione del contribuente tutte le giornate lavorative erano indicate come effettivamente lavorate per otto ore al giorno) ovvero in contrasto con fatti incontestati, sulla base di presunzioni prive dei requisiti di legge e con omesso esame di risultanze documentali (libro presenze, regolarmente vidimato dall’Inali, dell’azienda, allegato al ricorso di primo grado);

– i primi tre motivi- di cui l’ultimo consta di due sub-censure per vizio di violazione di legge e vizio motivazionale – sono da trattare congiuntamente per connessione e, si profilano in parte inammissibili, in parte infondati;

– va premesso che l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente, dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata (ex multis: Cass., sez. 5, n. 16825 del 2020; n. 33508 del 2018; n. 20060 del 2014);

– quanto al censurato malgoverno del materiale probatorio da parte del giudice di merito, è pacifico che competa alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poichè se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., sez. 5, ord. 19352 del 2018, Cass., sez. 6-5, n. 10973/2017, Cass., sez. 5, n. 1715/2007). Infatti, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., n. 3 (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360 c.p.c.), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Sez. 3 -, Sentenza n. 19485 del 04/08/2017; Sez. 3, Sentenza n. 17535 del 26/06/2008). Ebbene, in ordine all’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti, accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova. La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che dunque rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi, o anche di un solo significativo indizio, a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria. Nella sentenza gravata la CTR ha correttamente applicato i principi di diritto in tema di formazione della prova presuntiva, in quanto – confermando la decisione di primo grado (che aveva ridotto il reddito di impresa accertato da Euro 99.399,00 a Euro 70.000,00)- con una valutazione in fatto- rispondente ai suddetti criteri giuridici- non sindacabile in sede di legittimità- ha ritenuto che la ricostruzione analitico-induttiva del maggiore imponibile ad opera dell’ufficio fosse stata basata su elementi indiziari, idonei ad assurgere a prova presuntiva, tratti dall’esame della contabilità del contribuente, elaborando quanto acquisito documentalmente dal medesimo in risposta al questionario; in particolare, l’Ufficio, aveva accertato maggiori ricavi del contribuente, a fronte – anche in presenza di regolare contabilità – della emersa scarsa remuneratività del reddito dichiarato in relazione ai costi sostenuti con evidente antieconomicità dell’attività di impresa, e il giudice di appello – con una insindacabile valutazione in fatto, in ossequio ai suddetti principi – ha ritenuto dotati dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, gli elementi presuntivi di maggiori ricavi fondanti il detto accertamento, quali: il tempo e l’impegno di lavoro svolto personalmente dal contribuente – determinato dal giudice di prime cure nella percentuale, condivisa dalla CTR, del 40% avuto riguardo all’indispensabilità del suo intervento diretto nella installazione di impianti elettrici e non disconoscendo gli impegni extra cantieri-; il numero delle giornate (per otto ore) lavorative dei dipendenti suddiviso in base alle categorie di operai specializzati e generici, determinato avuto riguardo allo studio di settore presentato dallo stesso contribuente in allegato alla dichiarazione dei redditi; il controvalore dei materiali acquistati – con un maggiore ricarico rispetto a quanto dichiarato, nella percentuale pur ridotta dal giudice di primo grado dal 35% al 30%, ritenuta condivisibile dal giudice di appello in quanto corrispondente a quanto esposto in merito dal contribuente per alcuni cantieri, peraltro in subappalto; l’assenza, per l’esercizio in questione, di rimanenze finali in magazzino di materiale elettrico; l’uso contabile del “Conto titolare” in luogo dell’usuale “Conto Cassa” dove risultavano annotati i prelevamenti del titolare e il pagamento fatture dello stesso con un saldo attivo di Euro 52.861,33; la scheda “Stazioni di rifornimento carburante” nella quale risultavano registrati, mese per mese, i rifornimenti, poi pagati in data 31.12.2004 tramite esborsi in contanti del titolare; tale giudizio della CTR è stato, pertanto, formulato secondo le modalità di legge in tema di valutazione della prova indiziarla, in piena conformità al principio di diritto secondo cui “La valutazione della prova presuntiva esige che il giudice di merito esamini tutti gli indizi di cui disponga non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perchè equivoci, cosi da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5787 del 13/03/2014; sez. 5, n. 16825 del 7/8/2020); ogni altra argomentazione sottesa alla proposta censura tende evidentemente ad una inammissibile rivalutazione di fatti e risultanze probatorie come accertate dal giudice di appello;

– questa Corte ha, peraltro, precisato che “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (tra le altre, Cass. n. 23518 del 2018; Cass. n. 571 del 2017; n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2013) nella specie, invece, proprio un’indebita valutazione il ricorrente intende sostenere senza che, tuttavia, per quanto appena ricordato, possa ritenersi violato l’art. 2697 c.c.;

-per dedurre, invece, la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., sez. 6 – 3, n. 26769 del 23/10/2018); in particolare, la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere imputata al giudice del merito sotto due distinti profili: da un lato, ove, nell’esercizio del suo potere discrezionale quanto alla scelta ed alla valutazione degli elementi probatori – donde la mancanza d’uno specifico dovere d’esame di tutte le risultanze e di confutazione dettagliata delle singole argomentazioni svolte dalle parti, del che meglio in seguito – ometta tuttavia di valutare quelle risultanze delle quali la parte abbia espressamente dedotto la decisività, salvo ad escluderne la rilevanza in concreto indicando, sia pure succintamente, le ragioni del suo convincimento, il difetto della quale indicazione ridonda, peraltro, in vizio della motivazione; dall’altro, ove, in contrasto con i principi della disponibilità e del contraddittorio delle parti sulle prove, ponga a base della decisione o fatti ai quali erroneamente attribuisca il carattere della notorietà o la propria scienza personale, cosi dando ingresso a prove non fornite delle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè discussi, ai quali non può essere riconosciuto, in legittima deroga ai richiamati principi, il carattere dell’universalità della conoscenza e, quindi, dell’autonoma sussumibilità nel materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione. E’, dunque, solo l’esorbitanza da tali limiti ad essere suscettibile di sindacato in sede di legittimità per violazione dell’art. 115 c.p.C., sindacato che, con riferimento a tale norma, non può essere, invece, esteso all’apprezzamento espresso dal giudice del merito in esito alla valutazione delle prove ritualmente acquisite (Cass. n. 20382 del 2016), il che è appunto avvenuto nel caso di specie;

– quanto alla dedotta violazione motivazionale con il terzo motivo di ricorso, il vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 12 dicembre 2012)- nei cui ristretti limiti può essere censurato anche l’assunto errore di fatto ai sensi dell’art. 115 c.p.c. v. Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017 – concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015); nella specie, la ricorrente non ha assolto il suddetto onere, non avendo dedotto, con riguardo al motivo di gravame concernente l’assunta erronea determinazione da parte della CTR del numero di ore effettivamente lavorate dai dipendenti del contribuente, l’omesso esame di un “fatto storico”, ma, peraltro, di profili attinenti alle risultanze probatorie circa la sufficiente rilevazione del numero delle giornate lavorative dallo studio di settore presentato dallo stesso contribuente in allegato alla dichiarazione dei redditi – la rivalutazione delle quali è preclusa a questa Corte;

– con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la CTR confermato la determinazione, effettuata in primo grado, del reddito imponibile in Euro 70.000,00 (e non già in Euro 51.210,00), senza considerare che, a fronte di un totale di ricavi rideterminato giudizialmente in Euro 418.246,00 e di ricavi dichiarati in Euro 385.622,00, la somma dell’importo di Euro 32.624,00 – pari ai maggiori ricavi non dichiarati – all’imponibile dichiarato di Euro 18.586,00, avrebbe comportato un reddito imponibile di Euro 51.210,00 e non già di Euro 70.000,00;

– il motivo si profila inammissibile in quanto, in disparte il non avere il contribuente assolto all’onere di riportare in ricorso, nelle parti rilevanti, gli scritti difensivi dei gradi di merito onde permettere a questa Corte di comprendere gli esatti termini della prospettata questione, il ricorrente ha dedotto l’omesso esame non già di un “fatto storico” – non potendo essere qualificato tale “l’imponibile” – ma bensì di profili attinenti alle risultanze probatorie la rivalutazione delle quali è preclusa a questa Corte;

– in conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato;

– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.100,00 per compensi oltre spese prenotate a debito;

Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2021

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