Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5602 del 11/03/2014


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 5602 Anno 2014
Presidente: NUZZO LAURENZA
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA

appalto

sul ricorso proposto da:
IMPRESA EDILE LAZZERINI

GIANCARLO (00965450414), in

persona dell’omonimo titolare, rappresentata e difesa, per

procura

speciale a margina

del

ricorso, dagli

Avvocati

Giuseppe Bartolini e Vinicio D’Alessandro, elettivamente
domiciliata presso lo studio del secondo in Roma, Via di
Campo Marzio n. 69;
– ricorrente contro
MARCHINI Claudio, MARCHINI Sergio, MARCHINI Ivana,
rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al
controricorso, dagli Avvocati Maurizio Della Costanza e

2ffi/(3

1 –

Data pubblicazione: 11/03/2014

Arturo Marzano, elettivamente domiciliati presso lo studio
del secondo in Roma, via Sabotino n. 45;
– controricorrenti e

– intimato avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona n.
508/06, depositata il 4 novembre 2006.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 16 ottobre 2013 dal Consigliere relatore Dott.
Stefano Petitti;
sentito,

per i controricorrenti, l’Avvocato Carlo

Marzano con delega;
sentito

il Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. Costantino Fucci, che
ha chiesto il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO •
Con atto di citazione notificato il 3 giugno 1994, la
ditta Lazzerini Giancarlo conveniva in giudizio, dinnanzi
al Tribunale di Pesaro, Marchini Lidia, Marchini Sergio,
Màrchini Claudio e Marchini Ivana per sentirli condannare,
in solido tra loro, al pagamento della somma di lire
17.173.303, oltre interessi, a titolo di saldo per lavori
di ristrutturazione eseguiti su un fabbricato di proprietà
dei convenuti, e consistiti nella realizzazione di un

CARTONI Enzo;

solaio calpestabile e della relativa scala di accesso.
L’attore esponeva che i convenuti avevano corrisposto solo
un acconto di lire 10.000.000 e che, nonostante i lavori
fossero stati ultimati secondo le esigenze manifestate dai

effettuare ulteriori versamenti.
Si costituivano i convenuti chiedendo il rigetto della
domanda, sul rilievo che i lavori commissionati non erano
neanche stati portati a termine dal Lazzerini, il quale li
aveva interrotti, e che i lavori stessi non erano stati
eseguiti a regola d’arte. In via riconvenzionale,
chiedevano la condanna del Lazzerini al risarcimento dei
danni subiti per la negligente esecuzione dei lavori.
Espletata una c.t.u. e assunta la prova testimoniale
articolata, il processo veniva dichiarato interrotto per
effetto del decesso di Marchini Lidia; la causa veniva
riassunta nei confronti degli eredi della Marchini, già in
causa, nonché nei confronti del marito Enzo Cartoni.
Veniva disposto il rinnovo della c.t.u. e all’esito della
istruttoria l’adito Tribunale rigettava tutte le domande
proposte dalle parti.
Il Tribunale riteneva che il contratto di appalto
fosse nullo, in quanto avente un oggetto illecito per
violazione delle norme imperative di cui agli artt. 31 e
41 della legge n. 1150 del 1942 e degli artt. 10 e 13

convenuti stessi, questi ultimi avevano rifiutato di

della legge n. 675 del 1967; nulla poteva quindi
pretendere l’appaltatore in esecuzione di detto contratto.
L’unica azione che l’appaltatore avrebbe potuto proporre
era quella di indebito arricchimento, ma, nella specie,

domanda riconvenzionale sul rilievo che non vi erano
elementi per ritenere che il costo delle opere realizzate
in base a valido accordo contrattuale fosse inferiore
all’acconto a suo tempo corrisposto.
L’Impresa edile Lazzerini Giancarlo proponeva appello
sostenendo che le opere ulteriori, non previste in
contratto, erano state volute dagli stessi committenti i
quali, dopo il rifacimento del solaio, avevano maturato
l’idea di renderlo abitabile, e che al momento dell’inizio
dei lavori il progetto dell’Arch. Barocci aveva ottenuto
la concessione edilizia dal Comune di San Leo.
Resistevano al gravame gli originari convenuti, i
quali proponevano appello incidentale volto
all’accoglimento delle domanda di restituzione della somma
pagata.
Con sentenza depositata il 4 novembre 2006, la Corte
d’appello di Ancona rigettava entrambi i gravami e
compensava le spese.
Quanto all’appello principale, la Corte rilevava che
le opere aggiuntive, non previste nel preventivo

detta azione non era stata proposta. Rigettava poi la

concordato nell’agosto 1992 tra l’impresa e i fratelli
Marchini, erano state commissionate nel corso dei lavori e
non per porre riparo a difetti di esecuzione dei lavori
convenuti, ma per rendere abitabile il sottotetto. Le

Micheloni, erano state eseguite in spregio alle
disposizioni della Regione Marche e alla autorizzazione
comunale, che escludeva la utilizzazione a fini abitativi
del piano sottotetto, utilizzabile solo come vano
accessorio dei piani sottostanti. Tanto che
nell’autorizzazione rilasciata nell’ottobre 1993 per
l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria era
contenuto il divieto esplicito di mutamento di
destinazione d’uso del sottotetto. Correttamente, quindi,
il Tribunale aveva ritenuto operante il principio
affermato da Cass. n. 2884 del 2002, con la conseguenza
che nulla poteva pretendere il Lazzerini in esecuzione di
un contratto nullo. La domanda di equo indennizzo doveva
poi essere ritenuta nuova e quindi inammissibile, in
quanto mai esperita nel corso del giudizio di primo grado
e comunque preclusa dalla mancata impugnazione della
affermazione della sentenza di primo grado che accertava
il mancato esercizio della detta azione.
Quanto all’appello incidentale, la Corte d’appello lo
riteneva inammissibile, in quanto avente ad oggetto una

stesse opere, poi, come accertato dal c.t.u. Arch.

domanda nuova, considerato che l’acconto di lire
10.000.000 fu versato dai committenti a fronte del
semplice rifacimento del solaio, previsto dal preventivo
originario dell’agosto 1992 e correttamente eseguito

le opere aggiuntive in violazione delle norme urbanistiche
applicabili. In sostanza, il compenso era stato
legittimamente incassato dalla Impresa per i lavori
esattamente eseguiti in una prima fase; il che comportava
anche il rigetto della domanda di risarcimento danni,
atteso che i lavori eseguiti in difformità a quanto
commissionato erano quelli aggiuntivi.
Per la cassazione di questa sentenza l’Impresa edile
Lazzerini Giancarlo ha proposto ricorso sulla base di tre
motivi; hanno resistito con controricorso, Marchini
Claudio, Sergio e Ivana, mentre non ha svolto attività
difensiva Cartoni Enzo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
l. – Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente
denuncia il vizio di omessa motivazione, dolendosi del
fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto che i lavori
originari fossero stati effettuati sulla base del
preventivo approvato nell’agosto 1992, mentre risultava
dagli atti che la concessione era stata rilasciata
nell’ottobre 1993 e che solo dopo tale data i lavori erano

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dall’Impresa Lazzerini, prima che quest’ultima effettuasse

cominciati, sicché nulla consentiva di affermare che le
opere aggiuntive rispetto al preventivo dell’agosto 1992
fossero abusive.
La Corte d’appello, sostiene il ricorrente, avrebbe

concordato nell’agosto 1992 e la concessione rilasciata
nell’ottobre 1993, non essendo a tal fine sufficiente il
richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alle
relazioni del c.t.u., delle quali la Corte stessa ha
stravolto il contenuto. In realtà, le opere eseguite erano
limitate a quelle necessarie per rendere più agevole
l’accesso al sottotetto, sistemando una scala di accesso
già esistente; le stesse opere, quindi, non potevano in
alcun modo essere idonee a determinare il mutamento di
destinazione ritenuto vietato.
1.1. – Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello ha infatti accertato, con specifico
riferimento alle risultanze della consulenza tecnica
d’ufficio dell’Axch. Mirio Micheloni, che le opere
aggiuntive, non previste nel preventivo concordato
nell’agosto 1992, furono commissionate durante
l’esecuzione dei lavori ed eseguite dall’Impresa Lazzerini
Giancarlo per rendere abitabile il sottotetto. Ha altresì
accertato che tale finalità delle opere aggiuntive era
illegittima, in quanto la normativa vigente non consentiva

del tutto omesso di prendere in esame il preventivo

il mutamento della destinazione del sottotetto da locale
accessorio rispetto ai piani sottostanti, in unità
abitativa aggiuntiva.
Orbene, a fronte di tali precise affermazioni, le

rilevare che anche le opere aggiuntive furono considerate
nell’autorizzazione all’esecuzione dei lavori di
manutenzione straordinaria, si risolve in una
inammissibile diversa valutazione della documentazione
acquisita nel corso del giudizio di primo grado e delle
risultanze degli accertamenti svolti dal c.t.u., prima
richiamati. Il tutto, peraltro, senza rendere evidenti né
in termini descrittivi, né in termini quantitativi, quali
fossero le variazioni apportate rispetto al progetto
originario e quelle pure apportate all’autorizzazione
dell’ottobre 1993. In altri termini, dalle deduzioni
svolte dalla impresa ricorrente non è dato cogliere quali
fossero le opere cui si riferiva l’autorizzazione
dell’ottobre 1993, e segnatamente se il progetto
autorizzato fosse, e in quale misura, diverso e più
oneroso rispetto al preventivo delle opere proposto dalla
stessa impresa ricorrente agli odierni resistenti. Il
tutto, giova ribadirlo, in un contesto in cui, dalla
sentenza impugnata, emerge chiaramente che le opere

deduzioni della impresa ricorrente, la quale insiste nel

aggiuntive furono commissionate durante l’esecuzione dei
lavori ed eseguite per rendere abitabile il sottotetto.
D’altra parte, se nel progetto approvato nel 1993
fossero state inserite quelle opere chiaramente e

voluta destinazione abitativa, certamente si sarebbe
dovuta affermare la conformità delle opere
all’autorizzazione; ma tale conformità è stata
motivatamente esclusa dalla Corte d’appello e le critiche
sul punto svolte dalla impresa ricorrente appaiono volte
ad ottenere una inammissibile valutazione di merito, in
assenza, peraltro, di idonee specificazioni in ordine al
discrimine tra opere da preventivo e opere da progetto
approvato.
2. – Con il secondo motivo il ricorrente deduce
violazione degli artt. 1346, 1418, 1419, 1423, 1424 cod.
civ. delle leggi n. 1150 del 1942, n. 765 del 1967, n. 10
del 1977, n. 47 del 1985, n. 724 del 1994, n. 85 del 1995
e successive modificazioni e integrazioni anche per
effetto del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il ricorrente sostiene che il principio applicato
dalla Corte d’appello non si attaglierebbe al caso di
specie, essendo quello destinato ad operare solo in caso
di totale assenza della concessione edilizia e non anche
in caso di difformità parziale.

univocamente finalizzate ad imprimere al sottotetto la

A conclusione del motivo il ricorrente formula il
seguente quesito di diritto: «il contratto d’appalto
diretto alla costruzione di un’opera edilizia è nullo solo
in mancanza della prescritta licenza o concessione

caso deriva l’inesistenza del diritto dell’appaltatore al
corrispettivo pattuito. In caso di parziali difformità dal
progetto assentito all’appaltatore spetterà comunque il
corrispettivo pattuito se la difformità è di così lieve
entità da non poter essere dallo stesso conosciuta
soprattutto nel caso in cui sia stato il direttore dei
lavori a specificare in concreto le opere da realizzare».
In subordine, il ricorrente sostiene che il corrispettivo
avrebbe dovuto essere diminuito dell’importo dovuto in
riferimento alle sole opere abusive.
2.1. – Il motivo è infondato.
Le censure del ricorrente muovono, infatti, dalla
premessa per cui la difformità delle opere realizzate
rispetto a quelle approvate fosse marginale, laddove era
proprio la destinazione delle opere a rendere abitabile il
sottotetto, segnatamente mediante la realizzazione di una
scala che facilitasse l’accesso a quei locali, a rendere
l’esecuzione difforme dal progetto approvato, il quale,
come accertato dalla Corte d’appello, puntualmente
escludeva per il sottotetto, oggetto della richiesta di

edilizia (ora D.I.A. o permesso di costruire). Solo in tal

manutenzione straordinaria, la possibilità di un mutamento
di destinazione, e quindi la possibilità di una sua
trasformazione in unità abitativa autonoma.
Il motivo, e il conseguente quesito di diritto,

fatto – e segnatamente ad una situazione in cui le opere
realizzate conformemente al progetto approvato fossero ben
distinte da quelle realizzate successivamente per rendere
il sottotetto abitabile – che deve ritenersi esclusa sulla
base della ricostruzione in fatto effettuata, con
motivazione logica e quindi non censurabile in questa
sede, dalla Corte d’appello sulla base degli accertamenti
tecnici svolti nel corso del giudizio di merito.
3. – Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia
violazione degli artt. 2041 cod. civ. e 345 cod. proc.
civ., in riferimento all’art. 36 cod. proc. civ.,
rilevando che l’azione di arricchimento può essere
proposta per la prima volta anche in grado di appello,
purché non siano modificati la causa petendi e il petitum
della domanda originariamente proposta. A conclusione del
motivo formula il seguente quesito di diritto: «l’azione
di arricchimento senza causa può essere proposta per la
prima volta in grado di appello, non consistendo domanda
nuova, sempre che sia fondata sulle stesse circostanze di
fatto prospettate in primo grado».

risultano formulati con riferimento ad una situazione di

3.1. – Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello ha infatti rigettato la domanda di
equo indennizzo ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., sia
perché detta domanda doveva essere considerata nuova, mai

sul capo della sentenza di primo grado con cui veniva
accertato il mancato esercizio della detta domanda, doveva
ritenersi intervenuto il giudicato, non avendo
l’appellante formulato sul punto uno specifico motivo di
gravame.
Orbene, le deduzioni svolte dalla impresa ricorrente
nel terzo motivo di ricorso si riferiscono, all’evidenza,
a una sola delle rationes decídendi utilizzate dalla Corte
d’appello per rigettare la domanda di equo indennizzo.
Trova, quindi, applicazione il principio per cui
«qualora la decisione impugnata si fondi su di una
pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome,
ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente
sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che
• non formuli specifiche doglianze avverso una di tali
rationes decidendi,

neppure sotto il profilo del vizio di

motivazione» (v., da ultimo, Cass., S.U., n. 7931 del
2013).
4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

esperita nel corso del giudizio di primo grado, sia perché

In applicazione del principio della soccombenza
l’impresa ricorrente deve essere condannata al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da
dispositivo.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al

pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che
liquida in euro 2.000,00 per compensi, oltre ad euro
200,00 per esborsi e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione,
il 16 ottobre 2013.

PER QUESTI MOTIVI

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