Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5593 del 11/03/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 5593 Anno 2014
Presidente: PETTI GIOVANNI BATTISTA
Relatore: CARLEO GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso 31651-2007 proposto da:
BAROLLO ELEONORA, ROMANI FRANCO RMNFNC40P16L359J,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONSERRATO
34, presso lo studio dell’avvocato GUELI GIUSEPPE,
rappresentati e difesi dall’avvocato ROSSATO
GIANCARLO giusta delega in atti;
– ricorrenti –

2013

2066

contro

COMUNE LENDINARA, in persona del Sindaco pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
VITTORIA COLONNA 27, presso lo studio dell’avvocato

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Data pubblicazione: 11/03/2014

PANZARANI

MASSIMO,

e

rappresentato

difeso

dall’avvocato GARBIN ANNA MARIA giusta delega in
atti;
ROSSATO IOLANDA RSSLND49H43A574R,
GRINGL48A29A539M,

FORIN

GIRI ANGELO
ANNA

MARIA

ROMA, V.CICERONE 49, presso lo studio dell’avvocato
BERNARDINI SVEVA, che li rappresenta e difende
unitamente all’avvocato DUO’ VIELMO giusta delega
in atti;
– controricorrenti

avverso la sentenza n. 739/2007 della CORTE
D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 08/06/2007
R.G.N. 1288/2003;
udita lo

rRlazione della causa svolta nella

pubblica udienza del 08/11/2013 dal Consigliere
Dott. GIOVANNI CARLEO;
udito l’Avvocato MASSIMO PANZARANI;
udito l’Avvocato SVEVA BERNARDINI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

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FRNMNN41H51E522V, elettivamente domiciliati in

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 3 marzo 1995, il Comune
di Lendinara conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di
Rovigo, Franco Romani ed Eleonora Barollo per ottenere il
ristoro dei danni subiti in conseguenza di una frana

della sede stradale della via comunale Sabbioni Alti di
Lendinara, fronteggiante la proprietà dei predetti Franco Romani
ed Eleonora Barollo. Il Comune assumeva che la frana era stata
causata da lavori di spianamento effettuati dai convenuti, opere
che avevano provocato la verticalizzazione del pendio nella
parte inferiore, con asportazione di terreno al piede del pendio
medesimo. Precisava l’ente attore che i convenuti erano stati
diffidati, al pari di tutti i proprietari frontisti, ad eseguire
le opere di sistemazione della scarpata e di pavimentazione di
un tratto della strada comunale via Sabbioni Alti, opere
ritenute necessarie per il ripristino della strada. Esponeva
ancora che convenuti non avevano provveduto al ripristino della
scarpata, avendo negato la loro responsabilità in merito alla
frana in questione. Affermando di avere sostenuto per
l’effettuazione di tali opere una spesa di circa L 21 milioni,
Iva compresa, il Comune chiedeva la condanna dei convenuti al
pagamento della somma di L. 22.105.042, Iva compresa, oltre agli
interessi legali e alla rivalutazione monetaria dalla data della
diffida (24 giugno 1991). I convenuti, costituitisi in giudizio,
contestavano di aver modificato il pendio della scarpata,

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verificatasi in data 5 luglio 1989, che aveva interessato parte

sostenendo di essersi limitati a liberare detta area da alcune
piante infestanti, da essi recise al ceppo. Affermavano altresì
di aver mantenuto il piano campagna inalterato, sostituendo due
filari di pero alla coltivazione di cereali sul terreno di loro
proprietà. Deducevano poi che lo smottamento di parte della sede

canale Adigetto era stato coibentato con lastre di cemento e ciò
aveva provocato il venir meno della falda freatica nella
porzione di strada posta a Sud dell’Adigetto, con conseguente
mgreto1a~to del fondo sabbioso;

dall’altro,

sempre in

conseguenza della esecuzione dei lavori sull’Adigetto,

i

proprietari dei fondi posti a Nord rispetto alla sede stradale
avevano modificato lo stato dei luoghi nel senso che, mentre
prima dei lavori le acque meteoriche defluivano verso la sponda
del canale Adigetto, successivamente le stesse avevano preso a
defluire sulla banchina della sede stradale interessata dalla
frana. Chiamavano perciò in garanzia i proprietari dei fondi
posti a nord della sede stradale franata, Angelo Giri, Iolanda
Rossato e Anna Maria Forin, per essere manlevati da questi
ultimi nell’ ipotesi in cui fosse stata accertata la loro
responsabilità. I terzi chiamati si costituivano in giudizio
chiedendo l’integrale rigetto di tutte le domande proposte nei
loro confronti dai convenuti. Espletata l’istruzione probatoria
della causa mediante una consulenza tecnica il G.O.A. della
Sezione Stralcio del Tribunale di Rovigo condannava i convenuti
Franco Romani ed Eleonora Barollo al risarcimento in favore del

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stradale era dovuto a più fattori concomitanti: da un lato, il

Comune di Lendinara del danno subito in conseguenza della frana,
verificatasi in data 5 luglio 1989. Quantificava il danno in
questione in euro 11.416,30 (pari al lire 22.105.042, Iva
compresa) oltre rivalutazione monetaria secondo l’indice Istat e
gli interessi legali sul capitale rivalutato di anno in anno a

convenuti nei confronti dei chiamati, ponendo le spese legali a
carico degli

attori. Avverso tale decisione il Romani

Barollo proponevano appello ed

e la

in esito al giudizio, in cui

si

costituivano sia il Comune di Lendinari sia il Giri, la Rossato
e la Forin. la Corte di Appello di Venezia con sentenza
depositata in data 8 giugno 2007 e notificata in data 2 ottobre
2007 rigettava l’impugnazione e provvedeva al governo delle
spese. Avverso la detta sentenza i soccombenti hanno quindi
proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi,
illustrato da memoria. Resistono con controricorso il Comune di
Lendinara, il Giri, la Rossato e la Forin.
MOTIVI DELLA DECISIONE

Con la prima doglianza,

deducendo l’illogicità e contrarietà

della motivazione della sentenza di appello e quindi la
violazione dell’art.360 co.1 n.5 cpc, parte ricorrente ha
censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di
Appello ha erroneamente interpretato la relazione del CTU
affermando contraddittoriamente da un lato che i convenuti
avrebbero impiantato un frutteto sulla parte orizzontale della
scarpata e dall’altro che essi avrebbero rimosso una banchina

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far data dal 24 giugno 1991; rigettava le domande proposte dai

con conseguente livellamento del terreno ed indebolimento
dell’intera scarpata.
Inoltre – ed in tale rilievo si sostanzia la seconda doglianza,
articolata sotto il profilo della violazione dell’art.360 n.5 cc
per erronea valutazione delle prove orali richieste – la Corte

in appello, relative alla situazione dei luoghi alla data del
18.7.2002 e quelle riguardanti la successiva frana osservando
che tali circostanze, ove anche provate, non avrebbero escluso
la responsabilità degli appellanti per la frana del 5.7.89. Il
ragionamento della Corte sarebbe stato sul piano motivazionale
“viziato dal presupposto della modifica dello stato dei luoghi
non operato dagli attuali ricorrenti, ma soltanto presupposto
con criterio di possibilità da parte del Ctu ” (v. pag.12 del
ricorso). Entrambi i motivi, afferenti a vizi motivazionali,
non sono accompagnati da alcun momento di sintesi, omologo del
quesito di diritto previsto dall’art.366 bis cpc, onde la loro
inammissibilità. Ed invero, secondo il consolidato orientamento
di questa Corte, nel vigore dell’art.366 bis cpc, in base al

territoriale aveva ritenuto di non ammettere le prove richieste

capoverso di tale articolo, il ricorrente che denunci un vizio
di motivazione della sentenza impugnata è tenuto nel
confezionamento del relativo motivo – a formulare in riferimento
alla anzidetta censura un c.d. quesito di fatto e cioè indicare
chiaramente in modo sintetico, evidente ed autonomo, il fatto
controverso rispetto al quale la motivazione si assume omessa o
contraddittoria, così come le ragioni per le quali la dedotta

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insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare
la decisione. A tal fine è necessaria la enunciazione conclusiva
e riassuntiva di uno specifico passaggio espositivo del ricorso
nel quale tutto ciò risulti in modo non equivoco. Tale
requisito, infine, non può ritenersi rispettato allorquando solo

una interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione
della parte ricorrente, consenta di comprendere il contenuto ed
significato delle censure, posto che la ratio che sottende la
disposizione di cui all’art.366 bis cpc è associata alle
esigenze deflattivo del filtro di accesso alla Suprema Corte, la
quale deve essere posta in condizione di comprendere dalla
lettura del solo quesito di fatto quale sia l’errore commesso
dal giudice del merito Cass. n.6549/2013).
Ne deriva pertanto l’inammissibilità del ricorso in esame. Né
elementi di segno contrario possono essere tratti dalle
considerazioni rassegnate nella memoria illustrativa ex art. 378
cpc dai ricorrenti, i quali, a fronte dell’eccezione di
inammissibilità del ricorso formulata dal Comune di Lendinara,
hanno dedotto che, contrariamente al rilievo del
controricorrente,

“il punto decisivo della controversia appare

esattamente indicato a pagina 8 del ricorso laddove è riportato
il passaggio della Corte di appello in cui il Giudice del merito
ha ritenuto come fatto pacifico e provato in causa la modifica
della situazione preesistente da parte di Franco Romani ed
Eleonora

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la completa lettura dell’illustrazione del motivo, all’esito di

Ed invero, le considerazioni riportate non hanno pregio alcuno
ove si consideri, in primo luogo, che le memorie, di cui
all’art. 378 cod. proc. civ., sono destinate esclusivamente ad
illustrare e chiarire le ragioni svolte con l’atto di
costituzione senza poter integrare il contenuto delle originarie

secondo luogo, il momento di sintesi, mancante nella specie,
deve consistere in una parte del motivo a ciò specificamente
destinata, elaborata dallo stesso ricorrente in termini compiuti
ed autosufficienti, senza che la Corte sia obbligata ad una
attività di interpretazione della doglianza complessivamente
illustrata, al fine di poter individuare sia il fatto
controverso, cui si riferisce il ricorrente, sia le ragioni per
cui la motivazione sarebbe stata omessa o comunque sarebbe
insufficiente e/o contraddittoria. Il mancato assolvimento di
tale onere comporta l’inammissibilità delle censure.
A tale declaratoria segue la condanna dei ricorrenti in solido
alla rifusione, in favore di ciascuna delle due parti contro
ricorrenti, delle spese di questo giudizio di legittimità,
liquidate come in dispositivo, alla stregua dei soli parametri
di cui al D.M. n.140/2012 sopravvenuto a disciplinare i compensi
professionali.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i
ricorrenti in solido al pagamento, in favore di ciascuna parte
controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che

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difese, colmando le lacune presenti negli atti precedenti. In

liquida in complessivi

2.700,00 di cui

compensi, oltre accessori di legge, ed

2.500,00 per

200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma in camera di Consiglio in data 8.11.2013

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