Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 559 del 15/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 15/01/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 15/01/2020), n.559

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 18642/2013 R.G. proposto da:

Tau Metalli S.p.A., in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa

dall’Avv. Domenico D’Arrigo, elettivamente domiciliata in Roma alla

via M. Prestinari n. 13, presso l’avv. Paola Ramadori;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 131/63/12 della Commissione Tributaria

Regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, pronunciata

in data 5/6/2012, depositata il 12/6/2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20/11/2019 dal

Consigliere Andreina Giudicepietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Basile Tommaso, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso principale e di quello incidentale;

udito l’Avv. Domenico D’Arrigo per la società ricorrente e

l’Avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per l’Agenzia delle

Entrate.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Tau Metalli S.p.A. ricorre con due motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 131/63/12 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, pronunciata in data 5/6/2012, depositata il 12/6/2012 e non notificata, che ha rigettato l’appello principale dell’Ufficio ed accolto parzialmente quello incidentale della società contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento per maggiore Ires, Irap ed Iva per l’anno di imposta 2004, oltre interessi e sanzioni.

2. Con la sentenza impugnata, la C.T.R., preliminarmente, ha rigettato l’appello dell’Ufficio, ritenendo che: in tema di buoni pasto, notoriamente attribuiti ai dipendenti a titolo di liberalità, trovasse applicazione l’art. 95 T.U.I.R.; inoltre, in ordine alla vendita della quota di immobile, non calcolata ai fini Irap, non potesse applicarsi l’art. 11, comma 3, poichè il capannone industriale suddetto non era mai entrato a far parte dei beni strumentali.

I giudici di appello, poi, accoglievano parzialmente l’appello incidentale della contribuente, ritenendo che: ai fini Irap non fosse rilevante la vendita di beni strumentali, che erano stati ceduti, non per il normale deperimento, ma per non essere mai entrati in funzione; inoltre, in ordine alle riprese Iva, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, non avrebbe richiesto, ai fini della mancata applicazione dell’Iva, che le lettere di intento pervenissero prima dell’operazione, ma solo che sussistessero effettivamente (per altro la C.T.R. riteneva che nel caso di specie risultava che le lettere di intento fossero state effettuate precedentemente all’operazione).

In relazione alla ripresa per l’accantonamento rischi futuri, la C.T.R. riteneva, invece, che la normativa applicabile fosse quella di cui agli artt. 105,106 e 107 T.U.I.R., e non quella di cui all’art. 112 T.U.I.R., che attiene alla corretta contabilizzazione degli IRS, non contestata dall’Ufficio.

Con riferimento alle sanzioni applicate, la C.T.R. rilevava che le stesse conseguivano alla mera violazione volontaria delle norme tributarie, spettando al contribuente la dimostrazione che il comportamento non gli è imputabile neanche a titolo di colpa.

3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate si costituisce e resiste con controricorso, con il quale spiega ricorso incidentale affidato a quattro motivi.

4. Il ricorso è stato fissato alla pubblica udienza del 20/11/2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo del ricorso principale, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 62, commi 1-3, in relazione allo stesso D.Lgs., art. 66, comma 3, e alla L. 29 ottobre 1991, n. 358, art. 7, commi 1-2-7-10 e 13, e al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente, il p.v.c. del 24/10/2007, richiamato nell’avviso di accertamento, era stato redatto dalla Direzione Regionale della Lombardia, cioè da un organo incompetente, poichè nell’anno 2007 non esisteva alcuna norma che consentiva alla direzione Regionale di effettuare verifiche fiscali, e da ciò derivava l’illegittimità dell’avviso di accertamento.

La ricorrente deduce che la C.T.R. avrebbe errato nel richiamare sia il D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3, che non attribuiva alcun potere di verifica alle Direzioni Regionali, introdotto solo con il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, a decorrere dal 1/1/2009, per i contribuenti con un volume di affari superiore a cento milioni di Euro, sia l’art. 2, comma 4, del regolamento di amministrazione dell’Agenzia, in quanto detto comma non era esistente.

1.2. Il motivo è infondato.

1.3. Secondo un orientamento consolidato di questa Corte, “in tema di accertamenti tributari, il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, conv. in L. n. 2 del 2009, non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su una norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 33289 del 21/12/2018; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 20856 del 14/10/2016; Sez. 5, Sentenza n. 24263 del 27/11/2015; Sez. 5, Sentenza n. 20915 del 03/10/2014).

Le citate pronunce hanno chiarito che, in tema di accertamenti tributari, le Direzioni regionali delle Entrate sono munite, in virtù delle previsioni di autorganizzazione dell’Agenzia delle Entrate, adottate in diretta attuazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 3, dei poteri di accesso, ispezione e verifica ispettiva, il cui esercizio, peraltro, è stato successivamente riconfigurato dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 13, conv., con modif., nella L. n. 2 del 2009, che ha riservato alle medesime Direzioni tali poteri di verifica nei confronti di contribuenti titolari di ingenti volumi di affari.

Dal complesso delle richiamate disposizioni legislative, statutarie ed organizzative, emerge evidente come la DRE della Lombardia, nel caso di specie, fosse indubbiamente competente a svolgere l’attività istruttoria (compendiata nel PVC redatto in data 24/10/2007) destinata a fornire il supporto probatorio della pretesa tributaria oggetto dell’avviso di accertamento emesso dalla Direzione provinciale di Brescia.

L’intervento normativo del 2008 (D.L. n. 185 del 2008 conv. in L. n. 2 del 2009), peraltro applicabile soltanto a far data dall’1.1.2009, non ha dunque attribuito alla DRE una competenza in materia di accertamento prima inesistente, ma ha inteso fondare su norma di fonte primaria (dunque sottratta tanto ad eventuali modifiche statutarie, quanto a successive modifiche attuate mediante esercizio di potestà regolamentare od organizzativa) il riparto delle competenze relative alla attività di verifica tra le strutture di vertice di livello periferico (DRE; DPE), istituendo una riserva di competenza esclusiva a favore della DRE in relazione alla rilevanza economico-fiscale del soggetto accertato.

2.1. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 105,106,107,109 e 112, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’avviso di accertamento oggetto di impugnazione contestava alla società contribuente l’indeducibilità per l’anno di imposta 2004 dell’accantonamento dei fondi rischi futuri di Euro 800.000,00, perchè sarebbe stato dedotto in violazione dell’art. 107 T.U.I.R., comma 4.

L’accantonamento era stato effettuato in via prudenziale a fini civilistici, in considerazione dell’andamento futuro dei contratti derivati posti in essere con le banche, della fattispecie IRS “Interest rate Swap”.

La società deduce di essersi avvalsa del Principio Contabile Nazionale del Consiglio dei Dottori Commercialisti n. 19, C VII, secondo il quale, per le operazioni fuori bilancio relative a contratti derivati su titoli, valute, tassi di interesse ed indici di borsa, devono applicarsi i medesimi criteri di valutazione stabiliti per le corrispondenti attività e passività di bilancio e che le perdite di valore rilevate alla fine dell’esercizio devono essere stanziate a conto economico e rilevate in apposito fondo del passivo di stato patrimoniale.

Secondo la ricorrente, la svalutazione di 800.000,00 Euro, operata con il bilancio al 31 dicembre 2004, era legittima, in quanto di importo inferiore alla differenza tra il valore dei contratti derivati al 31 dicembre 2003 e quello al 31 dicembre 2004, come prescritto dall’art. 112 T.U.I.R., comma 5, nella versione vigente ratione temporis.

La C.T.R., quindi, escludendo la deduzione dei componenti negativi derivati dalla valutazione di operazioni fuori bilancio, operata nel rispetto dei principi qualitativi e quantitativi imposti da tale ultima norma, avrebbe errato nel non rilevare che l’art. 107 T.U.I.R. ammette la possibilità di dedurre gli accantonamenti previsti dall’art. 112 T.U.I.R..

2.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

2.3. La C.T.R., nella sentenza impugnata ha ritenuto che la fattispecie in esame fosse riconducibile alla disciplina dettata in tema di accantonamenti dagli artt. 105,106, e 107 T.U.I.R. e che l’accantonamento in oggetto fosse indeducibile, in base alla previsione dell’art. 107 T.U.I.R., comma 4, secondo cui “non sono ammesse deduzioni per accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente capo”.

Secondo la ricorrente, la C.T.R. avrebbe male interpretato gli articoli suddetti, escludendo l’applicabilità dell’art. 112 T.U.I.R. alla fattispecie in esame e la deducibilità degli accantonamenti riferibili alle operazioni fuori bilancio, previste da tale ultima norma.

Deve, però, rilevarsi che nel caso di specie è pacifico che l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione contestava alla società contribuente l’indeducibilità per l’anno di imposta 2004 dell’accantonamento dei fondi rischi futuri di Euro 800.000,00.

L’accantonamento era stato effettuato dalla società in via prudenziale a fini civilistici, in considerazione dell’andamento futuro dei contratti derivati posti in essere con le banche, della fattispecie IRS “Interest rate Swap”.

La disciplina fiscale degli accantonamenti è contenuta negli artt. 105,106, e 107 T.U.I.R., che escludono la deducibilità di accantonamenti diversi da quelli espressamente previsti dalla legge (titolo II, capo II T.U.I.R.), tra i quali non rientra quello in esame, che non risulta espressamente previsto in alcuna specifica disposizione.

Pertanto, la C.T.R. ha ritenuto che alla fattispecie in esame fosse applicabile la disciplina fiscale degli accantonamenti di cui agli artt. 105,106 e 107 T.U.I.R. e che, trattandosi di deduzioni di costi in via anticipata rispetto al loro effettivo sostenimento, non era possibile ammettere la deduzione di accantonamenti non espressamente considerati dalla legge.

Dunque, dal tenore letterale e sistematico degli artt. 105,106 e 107 T.U.I.R., l’interpretazione delle norme effettuata dal giudice di appello appare corretta.

Secondo la ricorrente, l’accantonamento sarebbe stato, comunque, deducibile, in quanto componente negativo del reddito di impresa, derivante da contratti che assumevano come parametro di riferimento per la determinazione della prestazione l’andamento di un indice su tassi di interesse, in conformità alla previsione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 112, applicabile anche ai soggetti non svolgenti attività creditizia o finanziaria (come la società ricorrente) a norma del successivo comma 8.

In particolare, la società sostiene di aver adottato in sede di redazione del bilancio il Principio Contabile Nazionale del Consiglio dei Dottori Commercialisti n. 19, C VII, secondo il quale, per le operazioni fuori bilancio relative a contratti derivati su titoli, valute, tassi di interesse ed indici di borsa, devono applicarsi i medesimi criteri di valutazione stabiliti per le corrispondenti attività e passività di bilancio e che le perdite di valore rilevate alla fine dell’esercizio devono essere stanziate a conto economico e rilevate in apposito fondo del passivo di stato patrimoniale.

Secondo la ricorrente, la svalutazione di 800.000,00 Euro, operata con il bilancio al 31 dicembre 2004, era legittima, in quanto di importo inferiore alla differenza tra il valore dei contratti derivati al 31 dicembre 2004 e quello al 31 dicembre 2003, come prescritto dall’art. 112 T.U.I.R., comma 5, nella versione vigente ratione temporis.

La censura svolta non è idonea a contrastare la ratio decidendi complessivamente desumibile dalla sentenza impugnata, poichè il giudice di appello precisa che la disciplina applicabile al caso di specie è quella relativa agli accantonamenti e non quella relativa alla corretta contabilizzazione degli IRS, che l’Ufficio non contesta.

Inoltre, il richiamo all’art. 112 T.U.I.R. risulta inconferente nel caso di specie.

L’art. 112 T.U.I.R., vigente ratione temporis, prevedeva: “1. Alla formazione del reddito degli enti creditizi e finanziari indicati nel

D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, art. 1, concorrono i componenti positivi e negativi che risultano dalla valutazione delle operazioni “fuori bilancio”, in corso alla data di chiusura dell’esercizio, diverse da:

a) quelle poste in essere esclusivamente con finalità di copertura dei rischi di variazione del valore delle azioni, delle quote e degli strumenti finanziari di cui all’art. 85, comma 1, lett. c) e d);

b) quelle i cui rischi di variazione di valore sono esclusivamente coperti dalle medesime azioni, quote o strumenti finanziari.

2. I componenti positivi e negativi relativi alle operazioni di cui alle lettere precedenti diversi da quelli risultanti dalla valutazione concorrono alla formazione del reddito secondo le disposizioni dell’art. 109.

3. Alla formazione del reddito dei soggetti di cui al comma 1 non concorrono i componenti positivi e negativi delle operazioni fuori bilancio poste in essere anche non esclusivamente con finalità di copertura dei rischi di variazione di valore delle azioni, delle quote e degli strumenti finanziari aventi i requisiti di cui all’art. 87 e da quelle i cui rischi di variazione di valore sono coperti anche non esclusivamente dalle medesime azioni, quote o strumenti finanziari.

4. Ai fini del presente articolo si considerano operazioni fuori bilancio:

a) i contratti di compravendita non ancora regolati, a pronti o a termine, di titoli e valute;

b) i contratti derivati con titolo sottostante;

c) i contratti derivati su valute;

d) i contratti derivati senza titolo sottostante collegati a tassi di interesse, a indici o ad altre attività.

5. La valutazione di cui al comma 1 è effettuata secondo i criteri previsti dal D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, art. 15, comma 1, lett. c), art. 18, comma 3, art. 20, comma 3, e art. 21, commi 2 e 3. A tal fine i componenti negativi non possono essere superiori alla differenza tra il valore del contratto o della prestazione alla data della stipula o a quella di chiusura dell’esercizio precedente e il corrispondente valore alla data di chiusura dell’esercizio. Per la determinazione di quest’ultimo valore, si assume:

a) per i contratti uniformi a termine negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri, l’ultima quotazione rilevata entro la chiusura dell’esercizio;

b) per i contratti di compravendita di titoli il valore determinato ai sensi dell’art. 94, comma 4, lett. a) e b);

c) per i contratti di compravendita di valute, il valore determinato ai sensi del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, art. 21, comma 2, lett. a) e b);

d) in tutti gli altri casi, il valore determinato secondo i criteri di cui all’art. 9, comma 4, lett. c).

6. Se le operazioni di cui al comma 1 sono poste in essere con finalità di copertura dei rischi relativi ad attività e passività produttive di interessi, i relativi componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito, secondo lo stesso criterio di imputazione degli interessi, se le operazioni hanno finalità di copertura di rischi connessi a specifiche attività e passività, ovvero secondo la durata del contratto, se le operazioni hanno finalità di copertura di rischi connessi ad insiemi di attività e passività.

7. Ai fini del presente articolo l’operazione si considera con finalità di copertura quando ha lo scopo di proteggere dal rischio di avverse variazioni dei tassi di interesse, dei tassi di cambio o dei prezzi di mercato il valore di singole attività o passività in bilancio o “fuori bilancio” o di insiemi di attività o passività in bilancio o “fuori bilancio”.

8. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai soggetti diversi dagli enti creditizi e finanziari se valutano nei conti annuali le operazioni fuori bilancio di cui al comma 4, ferma restando, in ogni caso, l’applicazione dei commi 2 e 3″.

La norma, secondo un orientamento ormai costante di questa Corte, è stata interpretata nel senso che le società, che non sono enti creditizi o finanziari, non possono dedurre fiscalmente gli accantonamenti predisposti per la copertura del rischio legato al contratto di “interest rate swap”, se non ne dimostrano l’inerenza con l’attività imprenditoriale esercitata.

Questo perchè, proprio per la carenza del preliminare requisito dell’inerenza, intesa come compatibilità, coerenza e correlazione del costo all’attività di impresa svolta dalla società (nel caso di specie produttrice di metalli), resta vincolante, sotto il profilo della interpretazione delle regole del computo di costi e ricavi, la sussistenza delle condizioni di deducibilità di cui all’art. 109 T.U.I.R. (Cass. n. 29179/19; vedi anche n. 12738/18; n. 5160/17), cui l’art. 112 fa espresso richiamo.

Nel caso di specie la società (produttrice di beni nel campo dei metalli), nell’invocare l’applicazione della disciplina di cui all’art. 112 T.U.I.R., avrebbe dovuto allegare e provare la correlazione concretamente ravvisabile tra la perdita derivante dalla stipulazione di un contratto di “interest rate swap” e i ricavi o componenti positivi derivanti dall’attività di impresa.

In particolare, con la sentenza n. 29179/2019 (sopra citata), questa Corte ha chiarito che non “può affermarsi che l’inerenza, qualunque valore ad essa voglia attribuirsi (cfr. da ultimo Cass., ord. n. 450 del 2018), sussista ogni qual volta i costi siano riferibili a qualsiasi operazione idonea a produrre reddito, poichè la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sè, ma all’oggetto dell’impresa (costante in tal senso la giurisprudenza, Sez. 5, sent. n. 10269/2017; sent. n. 3746/2015; sent. n. 21184/2014; sent. n. 7701/2013)”.

Inoltre, nel quadro normativo delle operazioni su derivati, anche per soggetti diversi da istituti di credito e/o finanziari, trova applicazione il 15, comma 1 – lett. c), del 87/1992 (Consob, 11.4.2001, dem/1026875), il quale prevede che le attività e passività in bilancio e “fuori bilancio”, che siano tra loro collegate solo in quanto oggetto di operazioni di “copertura”, devono essere valutate in modo coerente tra loro (OIC-19, p. C.VII; conf. D.Lgs. citato, art. 18, comma 3, e art. 20, comma 3).

Pertanto, sarebbe stato onere della parte ricorrente, che invoca l’applicazione dell’art. 112 T.U.I.R., dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti dalla norma, nella formulazione vigente all’epoca, ed, in particolare, la finalità del contratto di interest rate swap di copertura di operazioni attinenti all’attività d’impresa.

La norma, infatti, esclude, limitatamente alla fiscalità delle operazioni fuori bilancio in corso alla data di chiusura dell’esercizio, che di esse debba attendersi l’esito “definitivo”, ossia la scadenza del termine, e prevede, invece, la possibilità, per i soggetti diversi dagli enti creditizi e finanziari, alla data di chiusura dell’esercizio, di imputare al reddito il risultato di una valutazione condotta secondo i criteri ivi stabiliti, determinando in tal modo obiettivamente la consistenza del ricavo o della perdita al momento della chiusura.

Pertanto, parte ricorrente avrebbe dovuto provare di aver portato in deduzione i componenti negativi determinati secondo i criteri e nel rispetto dei limiti previsti dalla norma in oggetto (rimanendo indimostrati, all’esito dei giudizi di merito, elementi quali la finalità speculativa o di copertura del rischio dell’operazione, l’eventuale sussistenza dei requisiti di cui all’art. 109 T.U.I.R., espressamente richiamato dall’art. 112 T.U.I.R., comma 2, che non risultano dedotti con il ricorso in cassazione, nè chiariti nei precedenti gradi di merito).

3.1. Passando al ricorso incidentale, con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 95 e 109 T.U.I.R. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Secondo l’Ufficio, la C.T.R. avrebbe erroneamente ritenuto che il costo relativo ai buoni pasto, contabilizzato alla voce “omaggi ai dipendenti”, era rappresentativo di liberalità e, quindi, detraibile dall’imponibile, nonostante l’Amministrazione Finanziaria ne avesse contestato l’inerenza all’attività d’impresa, in alcun modo dimostrata dalla società contribuente.

3.2 Il motivo è fondato sotto il profilo del vizio motivazionale e va accolto.

3.3. Invero, la fattura relativa ai suddetti costi non risultava riscontrata da alcuna documentazione e pertanto lo stesso Amministratore delegato, sig. V.G., aveva dichiarato ai verificatori che la spesa doveva ritenersi sostenuta per finalità estranee all’attività dell’impresa.

Pertanto, la C.T.R., nel ritenere tout court deducibili i costi in esame, non ha tenuto conto del fatto che, a fronte della contestazione dell’Amministrazione, incombeva alla società contribuente la dimostrazione dell’inerenza degli stessi all’attività di impresa.

4.1. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, l’Ufficio denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 3, e dell’art. 43 T.U.I.R., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo l’Agenzia ricorrente, la C.T.R., incorrendo in un travisamento del fatto, ha ritenuto, senza che la società avesse fornito alcuna prova della straordinarietà della vendita di un capannone industriale, che l’immobile non rientrasse tra i beni strumentali, non essendo mai stato adibito all’uso.

4.2. Il motivo è fondato.

4.3. In particolare, il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 3, nella formulazione vigente all’epoca, prevedeva:” Ai fini della determinazione della base imponibile (Irap) di cui agli artt. 5, 6 e 7 concorrono anche i proventi e gli oneri classificabili fra le voci diverse da quelle indicate in detti articoli, se correlati a componenti positivi e negativi del valore della produzione di periodi d’imposta precedenti o successivi e, in ogni caso, le plusvalenze e le minusvalenze relative a beni strumentali non derivanti da operazioni di trasferimento di azienda, nonchè i contributi erogati a norma di legge con esclusione di quelli correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione”.

Si tratta, quindi, di valutare se il capannone industriale in oggetto costituisse un bene strumentale all’esercizio dell’impresa, essendo incontestato che la vendita non riguardasse un trasferimento di azienda.

Nel caso di specie, il giudice di appello ha ritenuto che il capannone industriale non fosse mai entrato a far parte dei beni strumentali perchè era inadatto all’installazione di un certo impianto.

A norma dell’art. 43 T.U.I.R., comma 2, vigente ratione temporis, “2. Ai fini delle imposte sui redditi sì considerano strumentali gli immobili utilizzati esclusivamente per l’esercizio dell’arte o professione o dell’impresa commerciale da parte del possessore. Gli immobili relativi ad imprese commerciali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni si considerano strumentali anche se non utilizzati o anche se dati in locazione o comodato salvo quanto disposto nell’art. 77, comma 1. Si considerano, altresì, strumentali gli immobili di cui all’art. 62, comma 1-bis, u.p., per il medesimo periodo temporale ivi indicato”.

Con riferimento agli immobili sono, quindi, configurabili due diverse forme di strumentalità, una per destinazione ed una per “natura”, legata alle oggettive caratteristiche dell’immobile.

Orbene, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 43 (nel testo applicabile ratione temporis), considera strumentali gli immobili relativi ad imprese commerciali che per le loro caratteristiche “non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicale trasformazione, anche se non utilizzati o se dati in locazione o comodato…” e presuppone, secondo quanto precisato da questa Corte (Cass. sent. n. 12999/2007), la prova della funzione strumentale del bene non già in senso oggettivo, bensì in rapporto all’attività dell’azienda, non contemplando tale disposizione una categoria di beni la cui strumentalità è in re ipsa, e potendosi prescindere (ai fini dell’accertamento della strumentalità) dall’utilizzo diretto del bene da parte dell’azienda soltanto nel caso in cui risulti provata l’insuscettibilità (senza radicali trasformazioni) di una destinazione del bene diversa da quella accertata in relazione all’attività aziendale”, sicchè “la strumentalità del bene non può essere presunta, ma deve essere volta a volta provata” (vedi anche Cassazione civile sez. trib., 07/10/2016).

Il giudice di appello, in violazione della norma suddetta, non ha considerato se, per la sua tipologia (che risulta pacificamente essere quella di capannone industriale), il bene, da tempo detenuto in leasing dalla società contribuente, che lo aveva riscattato, potesse rientrare tra gli immobili strumentali “per natura”, cioè strutturalmente predisposti all’esercizio dell’attività imprenditoriale concretamente esercitata, indipendentemente dalla circostanza che fosse inadatto ad ospitare un determinato tipo di impianto.

5.1. Con il terzo motivo di ricorso incidentale, l’Ufficio denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 3, e dell’art. 43 T.U.I.R., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3..

Secondo l’Ufficio, il giudice di merito avrebbe erroneamente escluso il carattere strumentale di una serie di beni (una segatrice a nastro, un’autovettura e la quota del 20% della plusvalenza di un immobile), in base alla considerazione che essi erano stati ceduti, non già per il normale deperimento, bensì per non essere entrati in funzione, nonostante risultasse che la società contribuente avesse contabilizzato le plusvalenze realizzate a seguito di cessione di beni strumentali.

5.2. Anche tale motivo è fondato, perchè il giudice di appello, nel ritenere che i proventi derivati dall’alienazione di tali beni non rientrassero nella base imponibile dell’Irap, non ha tenuto conto del fatto che i proventi, correlati ai beni che generano ammortamenti dedotti ai fini Irap negli esercizi precedenti, sono sottoposti a tassazione (come rilevato sul punto dalla C.T.P. di Brescia).

6.1. Con il quarto motivo, l’Agenzia denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, e del D.L. n. 746 del 1983, art. l, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene l’Ufficio che nel corso dell’istruttoria era emerso che la società aveva emesso fatture di vendita nei confronti di esportatori abituali ai sensi dell’art. 8 citato, ma aveva ricevuto talune dichiarazioni di intenti in un momento successivo all’effettuazione della prima cessione.

La C.T.R. sul punto aveva ritenuto che la violazione fosse irrilevante e di carattere meramente formale, poichè era sufficiente che la dichiarazione di intenti sussistesse, anche se pervenuta in un momento successivo.

6.2. Il motivo è infondato.

6.3. Come rilevato con una recente pronuncia da questa Corte, “in tema di IVA, il regime di cessione all’esportazione in sospensione d’imposta, di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. c) (vigente ratione temporis), può essere legittimamente applicato dal cedente anche prima della ricezione della dichiarazione di intenti di cui al D.L. n. 746 del 1983, art. 1, comma 1, lett. c), conv., con modif., in L. n. 17 del 1984 (applicabile ratione temporis), purchè lo stesso dimostri la sussistenza di tutti i presupposti di fatto caratterizzanti detta cessione, in quanto derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria (Sez. 5 -, Sentenza n. 9586 del 05/04/2019).

Nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate si limita alla contestazione della tardività della consegna della dichiarazione di intenti, per cui la doglianza ha carattere meramente formale e non può essere accolta.

Pertanto, per quanto fin qui detto, vanno accolti i primi tre motivi del ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con conseguente rinvio alla C.T.R. della Lombardia, sezione staccata di Brescia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale; accoglie i primi tre motivi del ricorso incidentale, rigettato il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla C.T.R. della Lombardia, sezione staccata di Brescia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il giorno 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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