Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5588 del 11/03/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 5588 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: FERNANDES GIULIO

ORDINANZA
sul ricorso 23554-2011 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA(97103880585) – società con socio unico – in
persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,
V.LE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO
LUIGI, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del
ricorso;

– ricorrente contro
PIZZUTELLI ANGELO;

– intimato avverso la sentenza n. 7136/2010 dga CORTE D’APPELLO di
ROMA del 27/09/2010, depositata 1’01 0/2010;

Data pubblicazione: 11/03/2014

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIO FERNANDES.

Ric. 2011 n. 23554 sez. ML – ud. 30-01-2014
-2-

FATTO E DIRITTO
La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 30
gennaio 2014, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione
redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:
” La Corte di appello di Roma, con sentenza del 1° ottobre 2010,

dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso
tra Poste Italiane e Pizzutelli Angelo per il periodo dal 7.4.1999 al 6.5.1999
ed accertata la intercorrenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato a decorrere dal 7.4.1999, riformandola nella parte in cui
aveva condannato la società a riammettere in servizio il Pizzuttelli ed a
pagare in suo favore tutte le retribuzioni maturate dal tentativo
obbligatorio di conciliazione ( 23.1.2004) al 31.5.2005 ( il ricorrente aveva
rinunciato alla pretesa risarcitoria per il periodo successivo), oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali, limitando il risarcimento del
danno alle retribuzioni relative al periodo dalla data di notifica del ricorso
introduttivo del giudizio al 31.5.2005.
Il termine al contratto era stato apposto ” per esigenze eccezionali
conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti
occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi
processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e di attesa
dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle
risorse umane”.
La Corte territoriale rilevava che non ricorreva una ipotesi di risoluzione
per mutuo consenso e che detto contratto era stato stipulato dopo lo
spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione che
autorizzava le ipotesi “ulteriori” di legittima apposizione del termine ai
contratti di lavoro con la società Poste Italiane (e cioè dopo il 30/4/1998).

i

confermava la decisione del Tribunale di Frosinone nella parte in cui aveva

Precisava, altresì, che la messa in mora era da individuare nella notifica del
ricorso introduttivo del giudizio.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso Poste Italiane s.p.a.
affidato a cinque motivi.
Il Pizzutelli è rimasto intimato.

co. 1° 2° c.c. ( art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c.), avendo il giudice rigettato
l’eccezione di definitivo scioglimento del rapporto per tacito mutuo
consenso dei contraenti senza tener conto che il comportamento inerte
delle parti evidenziava il disinteresse al suo ripristino.
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al
contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi
una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia
accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione
dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di
porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v, Cass. 10-112008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554,
nonché più di recente, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n.
5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la
scadenza del contratto a termine, quindi, “è di per sè insufficiente a
ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso” (v.
Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul
datore di lavoro”, che eccepisca tale risoluzione, “l’onere di provare le
circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di

2

Con il primo motivo del ricorso viene dedotta violazione degli artt. 1372,

volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 212-2002 n. 17070 e fra le altre, Cass. 1- 2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo
prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria

integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine
alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice
trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di
operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della
“cessazione della funzionalità di fatto del rapporto”, valutato “in modo
socialmente tipico” cfr. Cass. 23-7-2004 n. 13891 e Cass. 6-7- 2007 n.
15264).
Orbene, nella fattispecie la Corte d’Appello ha rilevato che la società non
aveva dedotto alcuna circostanza significativa rispetto al mero decorso del
tempo.
Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito risulta
aderente al principio sopra richiamato resiste alle censure della società
ricorrente, che in sostanza si incentrano genericamente sulla proposizione
di una diversa lettura della inerzia, pur prolungata, del lavoratore, della
riscossione senza riserve, da parte dello stesso, delle indennità di fine
rapporto
Va, altresì rilevato che del tutto irrilevante è la allegazione che il
disinteresse del Pizzutelli alla riattivazione del rapporto di lavoro con
Poste sarebbe rappresentato dal non aver impugnato il licenziamento
irrogatogli per non essersi presentato alla riammissione in servizio. Si
tratta, infatti, di una condotta relativa ad un periodo successivo alla
proposizione dell’azione.

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valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad

Col secondo motivo si denuncia nullità della sentenza per violazione
dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte di merito avrebbe deciso sulla
questione relativa alla cessazione della efficacia dell’accordo del 25.9.1007,
integrativo dell’art. 8 del CCNL, nonostante la stessa non fosse mai entrata
a far parte di contraddittorio.

questa Corte, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato fissato dall’art. 112 c.p.c. – che implica il divieto per il giudice
di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una
statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda – deve ritenersi
violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle
parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione
(“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad alcuno dei
contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso,
nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur
mantenendosi nell’ambito del “petitum”, rilevi d’ufficio un’eccezione in
senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in
giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure
ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia
del contendere, introducendo nel processo un titolo (“causa petendi”)
nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda,
mentre non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una
ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti,
nonché in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella
invocata dall’istante (Cass. n. 23079 del 16/11/2005; Cass. n. 19475 del
06/10/2005; Cass. n. 11455 del 19/06/2004).
Nel caso in esame il giudice di merito era chiamato a verificare la
legittimità o meno della clausola appositiva del termine e, in questa

4

Anche tale motivo è infondato in quanto , per costante orientamento di

indagine, correttamente ha valutato la vigenza o meno dell’accordo del
25.9.1997.
Col terzo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione della
L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23, dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994, nonché
degli accordi sindacali del 25.9.1997, del 18.1.1998, del 27.4.1998, del

360 c.p.c., n. 3. Si assume che, facendo corretta applicazione dei criteri
ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., e, in particolare, ricercando la
volontà comune delle parti nello stipulare l’integrazione all’art. 8 CCNL
1994, doveva concludersi che gli accordi collettivi non fissavano alcun
limite temporale alla stipula dei contratti a termine.
Con il quarto motivo si deduce omessa ed insufficiente motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio assumendosi che la Corte
territoriale aveva esposto in modo inidoneo le ragioni circa il rapporto,
asseritamente sussistente, tra il contratto collettivo, l’Accordo sindacale del
25.9.1997 ed i successivi ed. accordi attuativi, in relazione alla esistenza del
supposto limite temporale.
I surriportati motivi terzo e quarto, da trattare congiuntamente in quanto
logicamente connessi, sono infondati.
Ed infatti la costante giurisprudenza di questa Corte ritiene che la L. 28
febbraio 87, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la
possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla
L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 nonché dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17,
art. 8 bis conv. dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di
apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una
vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non
sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque
omologhe a quelle previste per legge (v. S.u. 2.3.06 n. 4588).

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2.7.1998 e del 18.1.2001, in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg. – art.

Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale
nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo
del 25.9.97, la giurisprudenza considera corretta l’interpretazione dei
giudici di merito che, con riferimento agli accordi attuativi sottoscritti lo
stesso 25.9.97 e il 16.1.98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano

base al secondo accordo) fino al 30.4.98 della situazione di fatto integrante
delle esigente eccezionali menzionate dal detto accordo integrativo. Per far
fronte a tali esigenze l’impresa poteva dunque procedere ad assunzione di
personale con contratto tempo determinato solo fino al 30.4.98, di modo
che debbono ritenersi privi di presupposto normativo i contratti a termine
stipulati successivamente. Le parti collettive, dunque, avevano raggiunto
un’intesa senza limite temporale ed avevano poi stipulato accordi attuativi
che tale limite avevano posto, fissandolo prima al 31.1.98 e dopo al
30.4.98, per cui l’indicazione di quella causale nel contratto a termine
avrebbe legittimato l’assunzione solo se il contratto fosse scaduto dopo il
30.4.98 (v., ex plurimis, Cass. 23.8.06 n. 18378).
La giurisprudenza ha, altresì, ritenuto irrilevante l’accordo 18.01.01
perché stipulato dopo oltre due anni dall’ultima proroga, e cioè quando si
era già perfezionato il diritto all’accertamento della nullità. Anche se con
quell’accordo le parti avessero voluto interpretare autenticamente gli
accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni a termine
effettuate senza la copertura dell’accordo 25.09.97 (ormai scaduto),
comunque sarebbe stato violato il principio dell’indisponibilità del diritto
dei lavoratori, dovendosi escludere che le parti stipulanti potessero, con
detto strumento, autorizzare ex posi contratti a termine non più legittimi
perché adottati in violazione della durata in precedenza stabilita (vedi, per
tutte, Cass. 12.03.04 n. 5141).

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convenuto di riconoscere la sussistenza dapprima fino al 31.1.98 e poi (in

L’esistenza delle esigente eccezionali è dunque negozialmente
riconosciuta fino al 30.04.98, di modo che la legittimità dei contratti a
termine stipulati entro tale data è basata su una ricognizione di fatto
derivante direttamente dal sistema normativo nato dall’attuazione dell’art.
23. Essendo stato il contratto del Pizzuttelli stipulato per il periodo

Col quinto motivo viene denunciata violazione degli arti. 1206, 1207,
1217, 1219, 2094, 2099 e 2697 c.c., quanto alle conseguenze economiche
della conversione del contratto a tempo indeterminato tra le parti,
invocando l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4
novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre
2010,
Il motivo è fondato sotto il profilo dell’applicazione della L. n. 183 del
2010, art. 32. Come affermato da questa Corte (Cass., n. 3056 del 2012 e
da numerose altre successive), lo “ius superveniens” costituito dalla L. n.
183 del 2010, ex art. 32, commi 5, 6 e 7, (applicabile nel giudizio pendente
in grado di legittimità qualora pertinente alle questioni dedotte nel ricorso
per cassazione) configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta
dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di
penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine
nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e
con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione
in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente
subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde
perceptum”), trattandosi di indennità “forfefizzata” e “onnicomprensiva”
per i danni causati dalla nullità
del termine nel periodo cosiddetto “intermedio” (dalla scadenza del
termine alla sentenza di conversione).

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7.4.1999 -6.5.1999 i motivi sono infondati.

Per tutto quanto sopra considerato, si propone, ex art. 375 cod.
proc. civ., n. 5, l’accoglimento del ricorso nei termini di cui sopra con
cassazione della impugnata sentenza e rinvio alla Corte di Appello la quale
provvederà nella specie anche ai sensi di quanto disposto in rito dal citato
art. 32, comma 7.”

unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di
consiglio.
Il Collegio ritiene il contenuto e le conclusioni della riportata relazione
condivisibili e, dunque, accoglie il ricorso limitatamente al quinto motivo e
cassa in relazione al motivo accolto l’impugnata sentenza e rinvia alla
Corte di appello di Roma in diversa composizione anche per le spese.

P.Q.M.
La Corte accoglie solo il motivo di ricorso relativo all’art. 32 L. n.
183/2010, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di
Roma in diversa composizione anche per le spese.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2014

1~10 Rti CMCF.i.”

Sono seguite le rituali comunicazione e notifica della suddetta relazione,

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