Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5584 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. I, 28/02/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 28/02/2020), n.5584

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina A. R. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15241/2018 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in Roma Via Otranto, 12

presso lo studio dell’avvocato Grispo Marco che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

Commissione Territoriale Per il Riconoscimento Della Protezione

Internazionale, Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di TRIESTE, depositato il

09/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/11/2019 dal consigliere Dott. Lina RUBINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

– Il cittadino (OMISSIS) A.A. ricorre con due motivi nei confronti del Ministero dell’Interno, contro il decreto emesso in data 19.4.2018 dal Tribunale di Trieste in composizione monocratica che ha respinto il suo ricorso contro il provvedimento della competente Commissione territoriale che aveva disatteso la sua domanda di protezione internazionale.

Riepiloga la propria storia, esponendo di provenire dalla regione del (OMISSIS), di essere di religione (OMISSIS), di lavorare in patria come (OMISSIS), di aver avuto una relazione con una ragazza, contrastata dalla famiglia di lei, di essere stato prima minacciato, e poi investito con la vettura insieme a lei dai familiari della ragazza, mentre cercavano di sposarsi, riportando lesioni. A questo punto, temendo per l’incolumità e per la vita, fuggiva dal (OMISSIS).

La Commissione territoriale non gli riconosceva nè la protezione internazionale, nè la protezione sussidiaria, nè quella umanitaria D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6.

Il Tribunale di Trieste, dinanzi al quale il ricorrente assume di aver depositato il contratto di lavoro, la comunicazione unilav e le buste paga (che deposita anche in questa sede), rigettava il ricorso ritenendo vaga e poco credibile la ricostruzione dei fatti, indimostrate la sussistenza di atti di persecuzione personali riconducibili a motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza ad un determinato gruppo sociale ed anche l’insussistenza di elementi atti a dimostrare il pericolo di un grave danno ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a e b e c nè tanto meno dei motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6.

L’amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, erronea e falsa applicazione delle norme di diritto di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,7,14,16 e 17 nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.

Si concentra sulla mancata concessione della protezione sussidiaria (e con il secondo motivo, di quella umanitaria). Contesta il giudizio di non credibilità, e la mancanza di una adeguata considerazione del contesto etnico sociale religioso di riferimento e dell’attenuato contenuto dell’onere probatorio.

Il motivo è infondato.

Esso, difatti, pur apparentemente contestando l’interpretazione ed applicazione delle norme richiamate in rubrica operata dal giudice di merito, mira in realtà a ribaltare la valutazione di merito compiuta dal Tribunale, il quale, avvalendosi del rapporto EASO 2017, ha escluso che nella zona di provenienza del ricorrente fosse in atto una situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato. Trova dunque applicazione il ribadito principio secondo cui dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi, violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).

Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6 nonchè l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.

Lamenta in particolare la violazione delle norme in materia della misura residuale della protezione umanitaria, e la esistenza di una motivazione meramente apparente, avendo chiesto al tribunale un nuovo vaglio della posizione del ricorrente e sostiene che il tribunale avrebbe sostanzialmente ripetuto quanto già affermato dalla commissione territoriale, senza disporre alcun accertamento sulle diverse condizioni poste a base della protezione umanitaria, non potendo essere la reiezione di tale domanda il frutto di un automatismo conseguente al rigetto delle due principali domande, di protezione internazionale e sussidiaria. Sostiene che il tribunale non ha affatto considerato l’impegno e il percorso di integrazione del giovane, che ha preso una prima certificazione linguistica, e che è riuscito a conquistarsi un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Il motivo è fondato e va accolto.

Come recentemente riaffermato dalle Sezioni unite (Cass. n. 29459 del 2019), in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato. Tale valutazione va fatta autonomamente, e manca totalmente nella sentenza impugnata, che, pur a fronte della diversità dei presupposti per la concessione della protezione minore e della diversità dell’oggetto della valutazione da compiersi, si limita al rigetto integrale dell’istanza di concessione del permesso umanitario senza compiere alcuna valutazione autonoma ma rinviando a quella, negativa, compiuta in riferimento alle protezioni maggiori. In particolare, va ricordato che (v. Cass. n. 5086 del 2018) il ritenuto difetto di credibilità sul rifugio politico e la protezione sussidiaria non esclude l’obbligo di fornire una motivazione non meramente apparente alla diversa domanda di protezione umanitaria. Nella specie il rigetto della domanda relativa alla protezione umanitaria (D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6) è giustificato soltanto dalla reiezione delle altre due domande, senza alcuna indagine sulle diverse condizioni poste a base del peculiare titolo di soggiorno temporaneo da rilasciarsi quando ricorrano gravi violazioni dei diritti umani ancorchè non sufficienti ad integrare nè i requisiti per il rifugio politico nè per la protezione sussidiaria (Cass. n. 26566/2013, 15466/2014), che il giudice, anche ove genericamente dedotti, deve accertare, con riferimento al luogo o ai luoghi del Paese di origine del cittadino straniero.

La reiezione di tale domanda non può, infatti, essere il frutto di un automatismo conseguente al rigetto delle due principali, statuizione che non elide nè le allegazioni relative alla situazione di violazione grave dei diritti umani oggettivamente desumibile dalla narrazione delle vicende umane del richiedente, così come risultante dal provvedimento impugnato, nè impedisce di accertarne la fondatezza mediante il potere dovere-istruttorio spettante al giudice in tali controversie (D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis).

In conclusione, il ricorso deve essere accolto limitatamente al profilo concernente l’accertamento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6. La pronuncia impugnata deve, pertanto, essere cassata con rinvio al Tribunale di Trieste, in diversa composizione, che provvederà anche alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il secondo motivo di ricorso, cassa in relazione e rinvia al Tribunale di Trieste in diversa composizione anche per le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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