Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5571 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. I, 28/02/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 28/02/2020), n.5571

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

S.A., nato in (OMISSIS), rappresentato e difeso

dall’avv. Antonino Giroldinì, elettivamente domiciliato in Roma,

via Susa 1, presso lo studio dell’avv. Vito Calabrese;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno ((OMISSIS));

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA depositato il 07/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 01/10/2019 dal consigliere Dott. Alessandro M.

Andronio.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto n. 1810/2018, comunicato il 7 aprile 2018, il Tribunale di Venezia ha rigettato il ricorso proposto dall’interessato avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Vicenza.

2. Avverso il provvedimento l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo: 1) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, perchè il Tribunale non avrebbe applicato il principio dell’onere probatorio attenuato, ai fini della valutazione della credibilità del richiedente, e avrebbe omesso di esaminare la situazione politica e religiosa esistente in Ghana e in Libia, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale; 2) la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in relazione alla protezione sussidiaria; 3) la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per mancata valutazione della situazione del suo paese di origine e della sua integrazione in Italia, ai fini del riconoscimento della sussistenza dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si lamenta, in generale, che il Tribunale non avrebbe considerato il concreto pericolo corso dal richiedente, il quale aveva ucciso un serpente ritenuto sacro nel suo villaggio e per questo era stato ritenuto fonte di sventura per gli abitanti del villaggio stesso, i quali avevano intenzione di sacrificarlo secondo il rito animista.

3. L’amministrazione intimata non si è costituita.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è inammissibile.

Le doglianze del ricorrente consistono nella mera riproposizione di rilievi già sottoposti al Tribunale in relazione a una situazione di persecuzione alla quale il richiedente sarebbe sottoposto nel suo paese di origine. Sul punto, il decreto impugnato reca una motivazione pienamente logica e coerente – e, dunque, insindacabile in sede di legittimità – laddove evidenzia l’assoluta inverosimiglianza della dinamica della pretesa uccisione del “serpente sacro” e delle modalità attraverso le quali l’interessato sarebbe venuto a conoscenza del fatto che gli abitanti del villaggio avevano intenzione di sacrificarlo, in quanto fonte di sventura.

Tali considerazioni risultano pienamente adeguate in relazione al primo motivo di doglianza, relativo allo status di rifugiato, non essendovi elementi sulla base dei quali desumere che il soggetto sia stato perseguitato – nè in patria, nè in Libia, dove era successivamente andato – per motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche, l’appartenenza un gruppo sociale. In tale quadro, risulta manifestamente infondata la censura relativa all’erronea applicazione dell’onere probatorio attenuato, perchè – come ben evidenziato dal Tribunale la versione dei fatti dell’interessato è insanabilmente generica e lacunosa, anche in relazione alle pratiche religiose del paese, rispetto alle quali è del tutto incoerente. E, così argomentando, il Tribunale applica correttamente il principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di protezione internazionale, ai sensi del D.Lgs. 17 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate alle lettere da a) ad e) della citata norma (Sez. 6 – 1, n. 15782 del 10/07/2014, Rv. 632198 – 01).

Analoghe considerazioni valgono per il secondo motivo di doglianza. A fronte dei generici rilievi del richiedente, il Tribunale ha correttamente evidenziato che non sussistono i presupposti per la protezione sussidiaria, perchè i fatti specificati, quanto al paese di origine e quanto, più in generale, alla situazione personale, non configurano una persecuzione o danno grave, nè un pericolo di persecuzione o di danno ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Quanto alla protezione umanitaria, oggetto del terzo motivo di doglianza, va osservato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (ex multis, Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01). E deve ricordarsi, inoltre, che l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Sez. U, n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062 – 02). Tale valutazione comparativa è stata compiutamente effettuata dal Tribunale, che – come visto – ha ritenuto non credibile la versione fornita dall’interessato; cosicchè non può essere ritenuto sussistente alcun pericolo di trattamenti inumani. Il Tribunale ha anche verificato l’insussistenza di una situazione generalizzata di pericolo nel paese di origine, spingendo il suo sindacato ben oltre la generica prospettazione dell’interessato, sulla base di documentazione proveniente da organizzazioni internazionali e associazioni umanitarie, presa in considerazione d’ufficio, giungendo ad accertare che egli non presenta profili di vulnerabilità nel suo paese di origine.

2. Nulla è dovuto per le spese dal ricorrente soccombente, non essendosi costituita la controparte nel presente grado di giudizio.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

PQM

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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