Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5550 del 01/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 01/03/2021, (ud. 18/11/2020, dep. 01/03/2021), n.5550

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9832/2015 proposto da:

C.S.C. GESTIONE SOCIETA’ SPORTIVA DILETTANTISTICA A R.L., già

BOGAZZI SOCIETA’ SPORTIVA DILETTANTISTICA a R.L., in persona del

Ministro pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIOVANNI BETTOLO 17, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO

RUFINI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI,

LELIO MARITATO, ESTER ADA SCIPLINO, CARLA D’ALOISIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 440/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 30/10/2014 R.G.N. 118/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/11/2020 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MUCCI Roberto , che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LELIO MARITATO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 30.10.2014, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda dell’INPS volta ad accertare la sussistenza delle omissioni contributive già contestate a Bogazzi s.s.d. a r.l. (poi denominata C.S.C. Gestioni Società Sportiva Dilettantistica a r.l.) in un verbale di accertamento congiuntamente redatto dalla Direzione Prov.le del Lavoro, dall’INPS e dall’INAIL e successivamente annullato dal Comitato Regionale del Lavoro.

La Corte, in particolare, ha rigettato le questioni preliminari riproposte nel gravame e variamente concernenti l’improponibilità di un’azione di accertamento di omissioni contributive contestate in un verbale poi annullato in sede amministrativa e, nel merito, ha rigettato le doglianze specificamente mosse dalla società nei confronti dell’accertamento giudiziale delle omissioni medesime, rilevando la loro sussistenza sia per ciò che concerneva i lavoratori C.M. e M.F., assunti con contratti a progetto ritenuti affatto generici e comunque dissimulanti altrettanti rapporti di lavoro subordinato, sia con riguardo alla lavoratrice L.J., assunta con contratto di apprendistato professionalizzante per lo svolgimento di mansioni per le quali aveva già lavorato in precedenza alle dipendenze della stessa società.

Per la cassazione di tali statuizioni C.S.C. Gestioni Società Sportiva Dilettantistica a r.l. ha proposto ricorso, deducendo quattro motivi di censura. L’INPS ha resistito con controricorso, eccependo preliminarmente l’inammissibilità dell’impugnazione per non essere stati specificamente censurati i capi di sentenza relativi alla qualificazione dei rapporti di lavoro intrattenuti dalla ricorrente con i lavoratori dianzi menzionati.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 124 del 2004, art. 17, per avere la Corte di merito ritenuto che l’annullamento del verbale ispettivo da parte del Comitato Regionale del Lavoro non precludesse l’azione giudiziale volta al recupero dei contributi in relazione alle medesime omissioni ivi contestate.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione della L. n. 241 del 1990, art. 2, nonchè dell’art. 41 CDFUE e dell’art. 97 Cost., per avere la Corte territoriale ritenuto che la violazione del termine finale previsto per il procedimento ispettivo, incidendo negativamente sull’affidamento del cittadino, non comportasse la decadenza dall’esercizio della potestà amministrativa e la consequenziale invalidità e inefficacia degli atti compiuti.

Con il terzo motivo, la ricorrente si duole di violazione della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 20, per avere la Corte di merito ritenuto che la mancata menzione nelle contestazioni di illecito del 1.12.2008 e del 24.4.2010 dei tre lavoratori in relazione alla cui posizione era stato domandato giudizialmente il pagamento dei contributi omessi, implicando necessariamente l’accertamento della loro regolarità dal punto di vista contributivo, non precludesse la successiva azione per la riscossione dei contributi asseritamente omessi.

Con il quarto motivo, infine, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 37 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto che i conteggi contenuti nel verbale poi annullato dal Comitato Regionale del Lavoro potessero formare prova dell’importo dovuto, nonostante l’avvenuto annullamento dell’atto e nonostante vi fosse stata sul punto specifica contestazione dell’avvenuta determinazione dell’imponibile contributivo sulla base di dati ipotetici e non verificabili.

Ciò posto, va preliminarmente esaminata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, sollevata dall’INPS per non avere parte ricorrente specificamente impugnato i capi della sentenza di merito riguardanti la qualificazione in termini di prestazione di lavoro subordinato dei rapporti di lavoro intrattenuti con C.M., M.F. e L.J.: ad avviso dell’Istituto, infatti, soccorrerebbe in specie il principio secondo cui, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, atteso che, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, il loro accoglimento non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza impugnata.

L’assunto non è condivisibile.

Il principio dianzi espresso (invero pacifico nella giurisprudenza di questa Corte: cfr., tra le più recenti, Cass. nn. 12372 del 2006, 3386 e 22753 del 2011, 18641 del 2017) concerne infatti l’ipotesi in cui una certa statuizione contenuta in una sentenza sia sorretta da due o più motivazioni riguardanti il merito, che il giudice abbia rassegnato per completezza di argomentazione: posto che l’art. 276 c.p.c., nel distinguere tra questioni (ed eccezioni) pregiudiziali di rito e di merito, non stabilisce alcun ordine all’interno dell’esame del merito, e considerato che l’eccezione di merito si identifica con quel fatto che, in relazione alla struttura della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere con la domanda, assume la natura di fatto impeditivo, modificativo o estintivo dell’efficacia dei fatti costitutivi addotti in giudizio, nulla infatti impedisce al giudice, che abbia aderito ad una prima ragione di decisione, di esaminare ed accoglierne una seconda, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima risultasse erronea (così Cass. n. 21490 del 2005 e, più recentemente, Cass. n. 15399 del 2018).

Affatto diversa è invece la presente fattispecie. Nella sentenza impugnata, infatti, si rinvengono, da un lato, statuizioni concernenti la possibilità che l’INPS faccia valere giudizialmente una pretesa concernente il pagamento di contributi il cui omesso pagamento sia stato accertato in un verbale successivamente annullato in sede amministrativa e, dall’altro, statuizioni concernenti la fondatezza della pretesa stessa; e trattasi all’evidenza non solo di statuizioni differenti, ma soprattutto di statuizioni legate da un nesso di dipendenza tale per cui la parte della sentenza che concerne l’accertamento della natura subordinata dei rapporti di lavoro in contestazione non avrebbe potuto essere pronunciata se la Corte avesse ritenuto preclusa la possibilità di far valere giudizialmente la pretesa omissione contributiva.

Ora, la sussistenza di un tale nesso di pregiudizialità – dipendenza tra due rationes decidendi (o tra due statuizioni che risolvono il merito della controversia, cioè tra due distinti capi della sentenza) è ciò che ha indotto questa Corte ad affermare recentemente che, in fattispecie del genere, la specifica impugnazione della ratio pregiudicante contiene per implicito anche la contestazione della ratio pregiudicata, non potendo quest’ultima reggersi da sola una volta che sia stata dimostrata l’inconsistenza della prima (così Cass. n. 4259 del 2015, in motivazione): si tratta infatti di fare applicazione in specie della disposizione di cui all’art. 336 c.p.c., comma 1, giusta la quale la “riforma o la cassazione parziale” della sentenza produce i suoi effetti “anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”.

Vero è che questa Corte ha affermato in passato che il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., che opera senz’altro rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente ma necessariamente collegati ad altro capo che sia stato impugnato, non potrebbe applicarsi con riguardo a quei capi dipendenti che abbiano formato oggetto di autonoma impugnazione, ove questa sia stata rigettata, giacchè in tal caso su tali capi si formerebbe il giudicato e l’interdipendenza tra essi e le altre statuizioni la cui impugnazione sia stata accolta verrebbe ad essere esclusa dalla stessa decisione sul gravame (così Cass. n. 12785 del 1992). Reputa tuttavia il Collegio che tale affermazione, che nel caso di specie porterebbe inevitabilmente alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso, non possa essere ulteriormente condivisa.

Come s’è dianzi esposto, l’effetto espansivo interno dell’art. 336 c.p.c., presuppone un nesso di pregiudizialità – dipendenza tale che la parte della sentenza che viene riformata o cassata costituisce il presupposto della parte non riformata o cassata, per modo che la decisione su quest’ultima non sarebbe stata possibile se il giudice avesse deciso correttamente (cioè nel senso fatto proprio dalla pronuncia che ha accolto il gravame) la parte riformata o cassata: prova ne sia che, in presenza di un nesso di tal genere che concerna statuizioni adottate in parte con sentenza non definitiva e in parte con sentenza definitiva, la riforma della sentenza non definitiva estende i propri effetti anche alla sentenza definitiva, ancorchè quest’ultima non sia stata impugnata (così, tra le numerose, Cass. n. 24354 del 2006). E benchè sia indubitabile che si tratti di principio da applicarsi con estremo rigore, costituendo un’eccezione al canone della formazione del giudicato in mancanza di impugnazione (così Cass. n. 19937 del 2004), non è possibile negarne l’operatività quando, come nella specie, ci si trovi in presenza di una statuizione intrinsecamente capace di assorbire l’autonoma ratio (rectius, statuizione) non impugnata, atteso che – come esattamente rilevato da Cass. n. 4259 del 2015, cit. – quest’ultima non potrebbe mai reggersi da sola, una volta che sia stata dimostrata l’inconsistenza della prima.

Nè è possibile che tale nesso – come invece sostenuto da Cass. n. 12785 del 1992, cit. – possa essere spezzato allorchè i capi dipendenti abbiano comunque formato oggetto di un’impugnazione che sia stata rigettata: una simile affermazione, infatti, contrasta irrimediabilmente con il principio, altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui un giudicato parziale è configurabile soltanto nelle situazioni in cui il capo di sentenza non impugnato sia indipendente da quelli impugnati, occorrendo a tal fine stabilire se tra le statuizioni, rispettivamente impugnate e non, intercorra o meno un rapporto di implicazione necessaria che le renda o meno logicamente dipendenti l’una dall’altra (cfr. in tal senso già Cass. n. 88 del 1973, seguita da numerose successive conformi). Di talchè solo tale ultimo esame sembra necessario e, al contempo, sufficiente al fine di affermare o escludere l’effetto espansivo interno della riforma o cassazione “parziale” (che, non a caso, l’art. 543 c.p.c. del 1865 più perspicuamente esprimeva in termini negativi: “Se la sentenza sia cassata in alcuno dei capi restano fermi gli altri salvo che siano dipendenti dal capo in cui la sentenza fu cassata”); introdurne di altri equivarrebbe a violare la lettera dell’art. 336 c.p.c. e a frustrarne la ratio.

Dovendo pertanto ritenersi, in difformità da Cass. n. 12785 del 1992, cit., che il principio dettato dall’art. 336 c.p.c., comma 1, trovi applicazione rispetto ai capi di sentenza non impugnati autonomamente ma necessariamente dipendenti da un altro capo che sia stato impugnato, ivi compresi quei capi che abbiano formato oggetto di impugnazione quando questa sia stata rigettata, non potendo il nesso di pregiudizialità – dipendenza tra gli uni e gli altri essere escluso dalla decisione sfavorevole sul gravame che abbia riguardato i capi dipendenti, può passarsi all’esame delle censure di cui al ricorso.

I primi tre motivi possono esaminarsi congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure svolte, e sono infondati.

Come ricordato nella sentenza impugnata, questa Corte, sia pure con riguardo alla disposizione contenuta nella L. n. 88 del 1989, art. 43, ha già avuto modo di chiarire che nè l’esito del procedimento amministrativo contenzioso nè le regolarità o irregolarità procedurali che lo abbiano connotato impediscono all’ente previdenziale di agire o di resistere in giudizio per l’accertamento dell’esistenza o inesistenza di rapporti di lavoro subordinato e dei conseguenti obblighi contributivi e previdenziali: trattasi infatti di materia in cui l’esercizio (corretto o meno) della potestà amministrativa di autotutela incide su situazione giuridiche indisponibili da parte degli enti previdenziali e in cui, per conseguenza, l’oggetto del giudizio innanzi al giudice ordinario non è mai l’impugnativa di un atto amministrativo, essendo invece rimesso al giudice di accertare, a seconda dei casi, vuoi la sussistenza dei presupposti per il sorgere dell’obbligazione contributiva, vuoi quella dei requisiti necessari per l’erogazione della prestazione previdenziale (così Cass. n. 16051 del 2013).

I suesposti principi vanno qui ribaditi anche con riguardo alle decisioni del Comitato Regionale del Lavoro di cui alla L. n. 124 del 2004, art. 17, affatto irrilevante dovendo all’uopo ritenersi la sua diversa composizione rispetto a quella del Comitato regionale INPS di cui alla L. n. 88 del 1989, art. 42; ed è appena il caso di soggiungere che contrari argomenti non potrebbero desumersi dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 24 del 24.6.2004, cit. a pag. 12 del ricorso per cassazione, giusta la quale “nessuna azione di recupero contributivo od assicurativo potrà far seguito all’accertamento ispettivo oggetto di riesame”: valga al riguardo il principio (affermato in materia tributaria, ma analogicamente estensibile alla materia contributiva, nient’altro che imposte speciali dovendo ritenersi i contributi: Cass. n. 2130 del 2018) secondo cui le circolari ministeriali in materia non possono costituire fonte di diritti ed obblighi, nemmeno per la stessa amministrazione che le ha emanate, con conseguente impossibilità di fondare su di esse alcun legittimo affidamento, neanche alla stregua del diritto dell’Unione Europea (Cass. n. 20819 del 2020).

Vale piuttosto la pena di precisare che, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, non è possibile equiparare quoad effectum le disposizioni dettate in tema di procedimento amministrativo di accertamento delle omissioni contributive dal D.Lgs. n. 124 del 2004, art. 17 e dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 20 (il quale ultimo, per quanto qui rileva, stabilisce che “nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione conseguente all’accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data dell’accertamento ispettivo stesso non possono essere oggetto di contestazioni in successive verifiche ispettive”), alla previsione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, il quale, per il caso di omessa tempestiva impugnazione di una cartella esattoriale recante il pagamento di contributi, prevede la definitiva irretrattabilità del credito relativo ai contributi e dunque l’impossibilità per il privato di farne accertare aliunde l’insussistenza: le prime due disposizioni dianzi cit., al pari della L. n. 241 del 1990, art. 2, sono infatti tipiche norme di azione, la cui efficacia precettiva, essendo circoscritta alle condizioni della legittimità dell’azione amministrativa, non può mai importare la decadenza dell’ente pubblico dalla potestà di provvedere alla cura dei pubblici interessi di cui all’art. 38 Cost., mercè l’adito al giudice, mentre l’ultima sancisce precisamente l’estinzione del diritto (rectius, dell’azione) avente ad oggetto l’instaurazione di un processo di cognizione per l’accertamento della (in)fondatezza di una data pretesa dell’ente previdenziale.

Inammissibile, infine, è il quarto motivo.

Fermo restando che ben poteva l’INPS richiamare nel corpo del proprio ricorso introduttivo il verbale di accertamento annullato e rinviare ad esso per la specificazione del quantum dovuto, venendo quel verbale in rilievo non già come provvedimento, ma come semplice documento attestante l’attività contabile compiuta in sede amministrativa, devesi al riguardo rilevare che la Corte territoriale ha dato atto che “nel verbale congiunto del 7 giugno 2010 sono indicati, in dettaglio e per ciascun lavoratore, gli imponibili contributivi con la quantificazione della contribuzione dovuta e delle relative sanzioni civili” e altresì gli importi che l’odierna ricorrente avrebbe potuto richiedere in restituzione e opporre in compensazione (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata); e considerato che le censure concernenti il giudizio di fatto compiuto dal giudice di merito possono concernere, specie a seguito della novellazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, soltanto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che abbia formato oggetto di discussione tra le parti e non anche la valutazione dei mezzi di prova che sia stata compiuta dal giudice di merito, è sufficiente nella specie rilevare che parte ricorrente non ha indicato nessun fatto decisivo il cui esame sarebbe stato omesso dai giudici territoriali, con conseguente inammissibilità del motivo di censura.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2021

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