Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 554 del 15/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 15/01/2020, (ud. 06/11/2019, dep. 15/01/2020), n.554

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13904-2015 proposto da:

PARIBA SRL persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA AGRI 3, presso studio

dell’avvocato IGNAZIO MORMINO, rappresentato e difeso dall’avvocato

GIACOMO RANERI giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CAMPOFELICE DI ROCCELLA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 583/2015 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO,

depositata il 17/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/11/2019 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE GIOVANNI che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato MEDURI per delega dell’Avvocato

RANERI che si riporta e chiede l’accoglimento.

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

1. La società PA.RI.BA. s.r. impugnava gli avvisi di accertamento, notificati il 27/08/2007, relativi ad Ici per le annualità 2001-2006, eccependo: l’illegittimità degli atti impositivi per l’omessa allegazione degli atti richiamati, la carenza dei poteri in capo al soggetto sottoscrittore D.Lgs. n. 504 del 1992, ex art. 11, nonchè la carenza dell’organo comunale che ha determinato le aliquote di imposta; l’invalida determinazione delle aliquote (con riferimento agli anni 2005-2006) e la nullità degli atti per carenza di elementi essenziali l’intervenuta prescrizione e decadenza e l’intempestiva adozione delle delibere di determinazione delle aliquote D.Lgs. n. 504 del 1992, ex art. 6; l’infondatezza della pretesa tributaria e la carenza di soggettività passiva; infine, l’intervenuto ravvedimento per le annualità 2002-2005 con contestuale richiesta di rimborso delle somme versate in eccedenza.

L’adita Commissione di Palermo dichiarava l’inammissibilità del ricorso per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, con sentenza che veniva impugnata dinanzi alla CTR della Sicilia, la quale – con sentenza n. 583/30/15 depositata il 17.02.2015, riformava la sentenza di primo grado, respingendo il ricorso della società contribuente.

La CTR affermava in particolare l’irrilevanza dell’allegazione degli atti normativi secondari come le delibere o i regolamenti comunali giuridicamente noti e la congruenza della motivazione degli atti tributari contenti i riferimenti identificativi degli immobili, l’ubicazione, la tipologia, la superficie, i dati catastali, e la dettagliata infrazione commessa dal contribuente con relative sanzioni. Accertava altresì che tutti gli atti recavano l’individuazione del funzionario incaricato per la gestione dell’imposta Ici ed anche la persona fisica del responsabile del procedimento.

Rigettava le altre censure dirette ad ottenere la declaratoria di illegittimità delle delibere di determinazione delle aliquote Ici, in quanto non previamente impugnate innanzi al g.a.. Disattendeva l’eccezione di prescrizione e di decadenza, atteso che per l’anno 2011 la dichiarazione Ici avrebbe dovuto essere presentata entro il 30.06.2002 ed il termine di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, sarebbe scaduto il 31.12.2007 e successivamente, per le altre annualità il 13.09.2007, con la conseguente infondatezza della censura sollevata e statuiva che l’ente impositore aveva considerato – come si evinceva dai prospetti contenuti negli avvisi – le somme già versate dalla contribuente per le annualità tassate.

La contribuente ricorre per la cassazione della sentenza d’appello indicata in epigrafe, svolgendo sei motivi.

Il Comune di Campofelice di Roccella non si è costituito.

Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI DIRITTO

2. Il ricorso assume, con il primo motivo la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, ex art. 360 c.p.c., n. 3), per avere il decidente ritenuto l’irrilevanza dell’omessa allegazione delle delibere comunali e delle determinazioni sindacali per gli anni 2003 e 2004 nonchè di atti non meglio identificati e di accertamenti in rettifica dell’Agenzia delle entrate, nonchè di vari regolamenti comunali.

3. Con la seconda censura, che deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 4, nonchè del D.L. n. 8 del 1993, art. 18, e dell’art. 7 statuto del Contribuente, anche in relazione all’art. 115 c.p.c., sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 3), oltre che omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, si lamenta sotto il primo profilo che il decidente avrebbe omesso l’esame della eccezione relativa alla carenza dei poteri del funzionario sia con riferimento al citato art. 11 che con riguardo al citato art. 8.

Contesta altresì l’omessa indicazione del funzionario responsabile del procedimento, assumendo che gli atti recano il nome del funzionario incaricato per la gestione dell’Ici ma non anche il nome del funzionario responsabile del procedimento.

4. Con il terzo motivo si lamenta violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 19, comma 3, in relazione alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 156, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7; nonchè violazione della L. n. 2248 del 1865, art. 5, ex art. 360 c.p.c., n. 3), congiuntamente alla censura relativa alla omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad aspetti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per aver il decidente escluso il potere di statuire sulle delibere impugnate, in violazione del citato art. 7, che riconosce alle CT il potere di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi.

Deduce inoltre di aver censurato l’illegittimità delle delibere per l’invalida determinazione dell’aliquota per i contribuenti non residenti in contrasto con il citato art. 6, il quale prevede il limite del 4 per mille con riferimento agli immobili diversi dalle civili abitazioni o posseduti in aggiunta alle abitazioni principali e agli alloggi non locati. Aggiungendo che comunque le delibere che avrebbero dovuto essere adottate entro il 31 ottobre di ciascun anno di riferimento sono state assunte successivamente: precisamente per l’anno 2001, il 18 dicembre del 2000, per l’anno 2002, il 27.02.2002, per il 2003, il 31.12.2002, per il 2004 il 12.05.2004, per l’anno 2005, il 16.03.2005, per il 2006, il 21.02.2006.

5. Con il quarto mezzo che prospetta violazione dell’art. 2948 c.c., nonchè del D.Lgs. n. 504 del 1992, artt. 11, comma 2, della L. n. 296 del 2006, art. 161, comma 1, in relazione al D.Lgs. n. 546792, art. 57, ex art. 360 c.p.c., n. 3), e congiuntamente omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, si lamenta l’omesso esame dell’eccezione di prescrizione pur sollevata col ricorso originario, essendosi soffermato il decidente solo sul quella relativa alla decadenza dal potere impositivo, assumendo che invece il credito relativo all’anno 2001 si era prescritto nell’anno 2006.

Quanto alla decadenza si censura la sentenza impugnata per avere i giudizi regionali violato il citato art. 11, avendo esaminato l’eccezione relativa all’omessa presentazione della denuncia ai fini ICI sollevata dall’ente comunale per la prima volta nel giudizio di appello. Allegazione peraltro infondata in quanto contrastante con quanto inferibile dall’avviso del 2001, laddove si legge che nessuna sanzione è applicata per l’ipotesi di omessa denuncia. Sostiene la contribuente di aver acquistato il compendio immobiliare nell’anno 2000, con la conseguenza che l’obbligo di presentazione della denuncia avrebbe dovuto essere adempiuto nel 2001 e non nel 2002 come erroneamente dedotto dalla CTR, il quale ai fini prescrizionali e decadenziali avrebbe dovuto considerare il diverso momento in cui avrebbe dovuto essere eseguito il versamento del tributo.

6. Con il quinto mezzo si lamenta violazione del D.Lgs. n. 504 del 1982, artt. 1, 2, 4 e 6, in relazione alla L. n. 47 del 1985, art. 19, ex art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad aspetti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, e nullità della sentenza ex art. 115 c.p.c., ed ex art. 112 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere i giudici regionali ritenuto la sussistenza della soggettività passiva di imposta anche per il periodo 2003-2005, allorquando l’immobile risultava confiscato, a seguito di procedimento penale instaurato nei confronti dell’originario costruttore.

Solo in data 14.04.2005, l’odierna contribuente veniva reimmessa nel possesso del compendio immobiliare, durante detto periodo, il compendio era nella disponibilità del Comune, circostanza non contestata dall’ente impositore, con la conseguente violazione dei principi di ” non contestazione” e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

7. Con l’ultima censura, che deduce violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 13, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, comma 4, ex art. 360 c.p.c., n. 39, e nullità della sentenza per violazione dell’art. 112, ex art. 360 c.p.c., n. 4), la contribuente lamenta che erroneamente l’adita commissione di secondo grado avrebbe fondato il rigetto della doglianza relativa all’applicazione delle sanzioni ordinarie nonostante l’intervenuto ravvedimento operoso effettuato nei termini di legge (termine di presentazione della dichiarazione) per l’anno 2002; e per l’anno 2005 neppure aveva considerato che l’imposta comunale su base annua era dovuta soltanto per 9/12 cioè per nove mesi anzichè 12, tenuto conto del periodo della confisca. sulla base dei prospetti contenuti negli avvisi di accertamento.

Al riguardo, riferisce la ricorrente che il Comune aveva eccepito la tardività del ravvedimento operoso per l’anno 2002, mentre per l’anno 2005 aveva resistito affermando la correttezza dei calcoli, valutando come intempestivo il ravvedimento operoso della contribuente; con ciò, ad avviso della ricorrente, violando il disposto dell’art. 112 c.p.c., avendo fondato la propria decisione su eccezione non sollevata da controparte, vale a dire quella della inclusione delle somme già versate nel conteggio contenuto negli atti impositivi.

Quanto alla intempestività del ravvedimento, evidenzia la ricorrente che per l’anno 2002, il termine ultimo per la dichiarazione coincide col 31 luglio o 31 ottobre a seconda delle modalità di presentazione della dichiarazione de redditi.

Nella specie, il pagamento dell’acconto sarebbe stato effettuato il 31.07.2003 con ravvedimento; il saldo avrebbe dovuto essere pagato il 20.12.2001, ma in regime di ravvedimento sarebbe stato eseguito entro l’anno, cioè il 31.07.2003; per l’anno 2005, il pagamento sarebbe stato effettuato entro 30 giorni, nei termini del ravvedimento operoso, ed il secondo pagamento nel rispetto dei termini.

8. La prima censura è destituita di fondamento.

Le delibere comunali relative all’applicazione del tributo e dalla determinazione delle relative tariffe non rientrano tra i documenti che devono essere allegati agli avvisi di accertamento ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 7, in quanto detto obbligo è limitato agli atti richiamati nella motivazione che non siano conosciuti o altrimenti conoscibili dal contribuente, ma non anche gli atti generali come le delibere del consiglio comunale che, essendo soggette a pubblicità legale, si presumono conoscibili (Cass. N. 30052/2018; 23532/2017; Cass. n. 22254/2016).

9. Parimenti infondata è la seconda censura.

Si tratta, difatti, di accertamento di fatto non adeguatamente censurato dalla società con il motivo indicato, nè censurabile in quanto attiene al merito della controversia. Nello specifico, si impone, quindi, l’evidenza della inammissibilità del motivo laddove tende a pervenire ad una rinnovata valutazione degli elementi fattuali sottesi alla pretesa azionata, non consentita in questa sede di legittimità.

Peraltro, la questione sollevata nel presente giudizio presenta profili di novità rispetto alle doglianze prospettate nel giudizio di merito, laddove la società lamentava non l’assenza della delibera di designazione del funzionario ai sensi del citato art. 11, bensì l’omessa indicazione del responsabile del procedimento.

Inoltre, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, il decidente ha affermato che gli atti impositivi recano il nome del responsabile del procedimento, tale S.M.R., ulteriormente argomentando che l’art. 7 statuto del contribuente non prevede l’indicazione del responsabile del procedimento a pena di nullità, conformemente al principio generale di tassatività delle cause di nullità degli atti tributari, affermato da questa Corte secondo cui l’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’Amministrazionè finanziaria, previsto della L. 27 luglio 2000 n. 212, art. 7, non è richiesta a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4-ter, convertito nella L. 28 febbraio 2008, n. 31, con riguardo alle sole cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008 (Sez. U, Sentenza n. 11722 del 14/05/2010; n. 13747/2013; Cass. n. 8138/2016; Cass. n. 18964/2018, in motivazione; n. 27856/2018; n. 21290/2018).

10. Il terzo mezzo è inammissibile per difetto di specificità.

Va premesso che secondo l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità: “Il potere del giudice tributario di disapplicare gli atti amministrativi costituenti il presupposto per l’imposizione è espressione del principio generale dell’ordinamento, contenuto nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, allegato E, e dettato nell’interesse, di rilevanza pubblicistica, all’applicazione di tali atti in giudizio solo se legittimi. Ne consegue che detto potere può essere esercitato anche di ufficio purchè gli atti in questione siano stati, investiti dai motivi di impugnazione dedotti dal contribuente in relazione all’atto impositivo impugnato” (Cass. n. 9631 del 2012). Quindi, il giudice tributario, nell’ambito della valutazione dei motivi di impugnazione contro l’atto impositivo, ha il potere -dovere di disapplicare, anche d’ufficio, la delibera comunale presupposta, qualora sia illegittima, in applicazione del principio generale di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 5, All. E, con l’unico limite dell’eventuale giudicato amministrativo che abbia affermato la legittimità della delibera (Cass. n. 1952 del 2019).

Sennonchè, anche la censura relativa all’erronea applicazione della normativa con riferimento alla illegittimità delle delibere comunali esige – in virtù del principio di autosufficienza del ricorso stesso – che il testo di tali atti sia interamente trascritto e che siano, inoltre, dedotti i criteri di ermeneutica idonei ad inferirne l’illegittimità, non potendo la relativa censura limitarsi ad una mera prospettazione di una necessaria disapplicazione delle delibere perchè in contrasto con il regolamento comunale, senza produrre nè il regolamento nè le delibere comunali. (Cass. n. 1391/2014; Cass. n. 1893/2009).

Detti atti avrebbero dovuto essere trascritti nei loro esatti termini nel ricorso per cassazione (ovvero allegati), per il principio dell’autosufficienza, onde consentire al giudice di verificarne anche la decisività.

11. Il quarto motivo è inammissibile.

Come emerge dalla decisione impugnata (pagina 3), l’ente ricorrente aveva eccepito oltre alla decadenza dal potere impositivo dell’ente comunale anche la prescrizione della pretesa tributaria, quanto meno con riferimento all’annualità 2001.

Ebbene, effettivamente, l’adita commissione ha omesso di decidere sull’eccezione di prescrizione, in violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Tuttavia, la ricorrente si è limitata da una parte a riproporre l’eccezione di prescrizione della pretesa tributaria, individuando le norme di riferimento, dall’altra ha attinto la sentenza impugnata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, vale a dire quale omesso esame su punto decisivo della controversia. Trova, nella specie, applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come risultante dal D.Lgs. n. 40 del 2006. Orbene, questa Corte ha chiarito che il “fatto” ivi considerato è un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass. n. 21152/2014). Il fatto in questione deve essere decisivo: per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza avrebbe condotto a diversa decisione con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data (Cass. n. 24035/2018; n. 28634/2013; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 5 24092/2013; Cass. n. 18368/2013; Cass. n. 3668/2013; Cass. n. 14973/2006).

La censura in esame non concerne l’omesso esame di un fatto storico, da intendersi principale o secondario, bensì l’omesso esame di una eccezione forse sollevata già in primo grado, non inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, neppure nella formulazione ante riforma di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (ex plurimis, Cass. Sez. U 07/04/2014, n. 8053).

Ebbene, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e. tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (S.U. n. 107931/2013; Cass. N. 25386 del 2015; Cass. n. 23930 /2017; Cass.. n. 6835 del 2017; Cass. N. 10862/2018).

Nella fattispecie, invece, la ricorrente si è limitata ad invocare l’art. 360 c.p.c., n. 5), esplicitando nel motivo che la doglianza attiene all’omessa pronuncia sull’eccezione senza alcun riferimento alla nullità della pronuncia.

12. Il motivo attinge la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha escluso la decadenza dal potere impositivo dell’ente comunale, sulla base di quanto previsto dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, assumendo che l’eccezione sollevata dal Comune solo in secondo grado in ordine all’omessa presentazione della dichiarazione ICI, non avrebbe dovuto essere esaminata dalla CTR come eccepito con le memorie del 26.11.2014 (all. 11 al ricorso per cassazione).

Ammessa la novità della questione, è utile individuare la normativa che disciplina la questione in esame.

Secondo la norma citata, “gli enti locali, relativamente ai tributi di propria competenza, procedono alla rettifica delle dichiarazioni incomplete o infedeli o dei parziali o ritardati versamenti, nonchè all’accertamento d’ufficio delle omesse dichiarazioni o degli omessi versamenti, notificando al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, un apposito avviso motivato. Gli avvisi di accertamento in rettifica e d’ufficio devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati”.

I termini decadenziali su indicati si applicano altresì ai rapporti di imposta pendenti alla data di entrata in vigore della Legge Finanziaria per il 2007 (cfr. L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 171) nonchè ai tributi in cui si articola l’ICI.

Alla luce del citato disposto normativo, al fine di delimitare l’esercizio del potere impositivo occorre distinguere, come statuito dalla giurisprudenza di legittimità, se l’avviso di accertamento riguarda il mancato versamento di imposte dichiarate ovvero l’omessa denuncia. Nel primo caso, nell’ipotesi in cui la dichiarazione sia stata presentata ma ne sia stato omesso il versamento di imposta dichiarata, per individuare il dies a quo occorre far riferimento al termine entro il quale il tributo avrebbe dovuto essere pagato. Ai fini ICI, i termini di versamento sono identici.

Con riferimento all’Ici, il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, comma 2, prescrive che il tributo doveva essere versato in 2 rate nell’anno in corso e delle quali la prima entro il 16 giugno e la seconda dal 1 al 16 dicembre, a saldo dell’imposta dovuta per l’intero anno; anche ai fini Imu, il D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 9, comma 3, depone nel medesimo senso.

In altri termini, in detta ipotesi, i termini di accertamento di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, decorreranno dall’anno successivo a c’elio oggetto di accertamento e nel corso del quale il maggior tributo avrebbe dovuto essere pagato. Nella seconda ipotesi, ossia nel caso in cui il contribuente abbia omesso di presentare la dichiarazione, per calcolare il dies a quo e verificare se l’ente impositore è decaduto dal termine di accertamento della pretesa impositiva occorre inevitabilmente far riferimento al temine entro il quale il contribuente avrebbe dovuto presentare la dichiarazione.

In particolare, la prima parte del D.Lgs. n. 504 del 1992, comma 4, art. 10, prescrive che “i soggetti passivi devono dichiarare gli immobili posseduti nel territorio dello Stato, con esclusione di quelli esenti dall’imposta ai sensi dell’art. 7, su apposito modulo, entro il termine di presentazione della dichiarazione dei redditi relativa all’anno in cui il possesso ha avuto inizio”; -con riferimento all’Imu la prima parte del D.L. n. 201 del 2011, comma 12-ter, art. 13, come modificato dal D.L. n. 35 del 2013, art. 10, comma 4, lett. a), prescrive che “i soggetti passivi devono presentare la dichiarazione entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in cui il possesso degli immobili ha avuto inizio”.

Pertanto, alla luce di quanto sopra esposto, nell’ipotesi in cui il contribuente abbia omesso di presentare la dichiarazione nei suindicati termini, il primo dei 5 anni previsti dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, è il secondo anno successivo a quello oggetto di accertamento. In altri termini, il primo dei 5 anni per il computo del termine di accertamento decorrerà dall’anno in cui la dichiarazione doveva essere presentata con riferimento a detto periodo di imposta.

Specificatamente su questa seconda ipotesi ha avuto modo di pronunciarsi recentemente la giurisprudenza di legittimità la quale si è espressa in senso conforme al dettato normativo suindicato. In particolare: – la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12050/2018 ha statuito che in caso di omessa presentazione della, dichiarazione ai fini Ici si applica il più ampio termine di accertamento del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o la denuncia dovevano essere presentate (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2).

Ebbene, nella specie, la ricorrente deduce per la prima volta, in sede di legittimità, di aver acquistato il compendio immobiliare nell’anno 2000, con la conseguenza che la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata nell’anno 2001 e non nel 2002, come affermato dal decidente, sicchè il termine di decadenza era già spirato alla data di notifica degli avvisi di accertamento; ulteriormente negando di aver omesso la dichiarazione, come emergerebbe dai medesimi atti impositivi.

Nella specie, tuttavia, la ricorrente propone una questione giuridica implicante accertamenti di fatto relativi alla documentazione prodotta nel corso dell’istruttoria procedimentale, omettendo di trascrivere e allegare il contenuto di detta produzione. Risulta, dunque, omessa l’individuazione del fatto sostanziale e ancor di più di quello processuale relativo alla doglianza, risolvendosi il motivo di censura, pertanto, in una rivalutazione della documentazione senza la riproduzione dei necessari documenti.

Inoltre, non va sottaciuto che, in materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione del medesimo codice, art. 115, ma non anche con l’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. nn. 9536 e 23940 del 2017; 11892/2016).

13. La quinta censura non risulta meritevole di accoglimento.

Ritiene preliminarmente la Corte che la censura debba essere intesa come proposta dalla parte unicamente nei limiti della dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e che, in ogni caso, ove anche possa ritenersi ammissibile la censura per carenza motivazionale non autonomamente proposta dalla parte, essa, al pari della prima, risulta infondata.

Risulta dalla sentenza impugnata, che la pronuncia del tribunale di Termini Imerese è intervenuta nell’anno 2013, confiscando i beni in sequestro.

Decisione che poi è stata riformata in sede di appello che ha assolto il costruttore per insussistenza del fatto, con’ la conseguenza che la confisca non è mai divenuta definitiva.

La tesi esposta dalla ricorrente, al fine di sostenere la perdita della soggettività passiva d’imposta sin dall’adozione della misura del sequestro che tuttavia confonde con la successiva confisca intervenuta solo nell’anno 2013, poggia sul concetto di “disponibilità” del bene, che è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d’imposta, quale desumibile dal combinato disposto del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1 comma 2, e art. 3. Come, infatti, più volte statuito da questa Corte (cfr. Cass. civ. sez. V 9 ottobre 2009, n. 21541;.Cass. civ. sez. V 26 febbraio 2010, n. 4753 e Cass. civ. sez. H 9 maggio 2013, n. 10987), dalla lettura congiunta delle citate norme si desume che soggetto passivo dell’imposta comunale sugli immobili può essere soltanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull’immobile, di modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, va riferita propriamente a quella corrispondente alla titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull’immobile (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3, comma 1). Tale interpretazione ha trovato conferma nella giurisprudenza di questa Corte anche con specifico riferimento alla problematica inerente al riconoscimento dell’indennità di esproprio a seguito di procedura espropriativa, pur in ipotesi di omessa o infedele dichiarazione ICI da parte del soggetto sottoposto a detta procedura (cfr. Cass. civ. sez. 112 ottobre 2007, n. 21433; Cass. civ. sez. I 3 gennaio 2008, n. 19), essendosi affermato che l’occupazione d’urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell’immobile, in quanto il bene continua ad appartenergli finchè non interviene il decreto di esproprio, mentre nell’occupante, che riconosce la proprietà in capo all’espropriandò, manca l’animus rem sibi habendi, sicchè lo stesso deve essere qualificato come mero detentore.

Ciò premesso, venendo allo specifico esame della fattispecie oggetto della presente controversia, deve ritenersi corretta in diritto la statuizione del giudice tributario di secondo grado, laddove ha affermato che il sequestro non comporta, al contrario della confisca, la perdita della titolarità dei beni ad esso sottoposti. Peraltro, nel vigore della disposizione di legge poi abrogata dal nuovo codice antimafia, ma in esso in parte riproposta, questa Corte (cfr. Cass. pen. sez. unite 19 dicembre 2006, n. 57) ebbe ad affermare che la confisca disposta ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, “non è di per sè provvedimento di prevenzione in senso stretto, ma piuttosto sanzione amministrativa di carattere ablatorio, equiparabile alla misura di sicurezza prescritta dall’art. 240 c.p., comma 2”, ciò che fa ad essa conseguire l’istantaneo “trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato bene che ne costituisce l’oggetto”. Viceversa il sequestro, nel vigore della precedente disposizione, come anche nel contesto normativo segnato dal c.d. codice antimafia; costituisce, come indicato anche in dottrina, misura di prevenzione sui generis, di natura provvisoria e cautelare, che può essere applicata quando si abbia motivo di ritenere che i beni oggetto di disponibilità, diretta o indiretta, del soggetto sottoposto al procedimento, siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il concetto di disponibilità va inteso, in proposito, nel senso di manifestazione dell’appartenenza uti dominus del bene. Ne deriva pertanto che – ben potendo il sequestro essere revocato allorquando sia respinta la proposta di applicazione di misura di prevenzione o quando risulti che il sequestro abbia avuto per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali l’indiziato non poteva disporre direttamente o indirettamente – fino al sopravvenire del decreto di confisca deve intendersi sussistente il requisito del possesso quanto alla soggettività passiva ai fini ICI (Cass. n. 22216 e 5626 del 2016; 14678 /2016).

14. L’ultima censura è inammissibile.

Attraverso detto mezzo, nel censurare la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 13, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, la ricorrente ha introdotto surrettiziamente una rivisitazione del merito della controversia; essa si è limitata a contrapporre alle argomentazioni dei giudici di merito proprie valutazioni su elementi di fatto (tempestività del ravvedimento, calcolo delle somme già corrisposte) finendo per formulare una richiesta di riesame del merito della lite non consentita in questa sede di legittimità.

Ne consegue che non appare sufficiente l’astratto e generico riferimento alle menzionate norme per censurare la declaratoria di illegittimità della sentenza, essendo, invece, indispensabile che il ricorrente indichi – censura mancante – in modo specifico non solo i canoni in concreto non osservati, ma anche e soprattutto il modo in cui il giudice si sia da essi discostato (Cass. n. 16175/2017).

15. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

In assenza di costituzione dell’intimato, le spese sostenute dalla ricorrente restano a suo carico.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovute.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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