Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5523 del 10/03/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 5523 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA

divisione

sul ricorso proposto da:
GAROFANO Clara (GRF CLR 39B64 E249D), rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dagli
Avvocati Modestino Acone e Pasquale Acone, elettivamente
domiciliata in Roma, via Buccari n. 3, presso Maria Teresa
Acone;
– ricorrente contro
GAROFANO Giuseppe (GRF GPP 37C23 E249B), rappresentato e
difeso, per procura speciale in calce al controricorso,
dall’Avvocato Antonio Aceto, presso il cui studio in Roma,
via Flaminia n. 71, è elettivamente domiciliato;
– controricorrente –

)(A

Data pubblicazione: 10/03/2014

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n.
2131 del 2012, depositata in data 14 giugno 2012.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 9 gennaio 2014 dal Consigliere relatore Dott.

sentiti gli Avvocati Modestino Acone e Antonio Aceto;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 6 dicembre 1982, Giuseppe Garofano
esponeva che il 18 aprile 1945 era deceduto ad intestato
Francesco Garofano, lasciando a sé superstiti i quattro
figli Concetta, Angelo, Giuseppe e Clara Garofano, nonché
la moglie Angelina Garofano; che in data 27 dicembre 1960
era deceduta Ernesta Garofano e il 23 febbraio 1963 Maria
Teresa (o Teresa) Garofano, entrambe germane di Francesco
Garofano, le quali avevano disposto delle loro sostanze
nominando eredi i nipoti Angelo e Giuseppe Garofano; che
il 10 giugno 1966 era deceduto Angelo Garofano, lasciando
a sé superstiti i germani Concetta, Giuseppe e Clara e la
madre Angelina Garofano, la quale ultima decedeva in data
14 febbraio 1977; che tanto premesso l’attore conveniva in
giudizio, dinnanzi al Tribunale di Benevento, i germani
Clara e Concetta Garofano per sentire dichiarare aperte le
successioni di Francesco, Ernesta, Maria Teresa, Angelo e
Angelina Garofano, nonché per procedere allo scioglimento
delle comunioni dei beni caduti nelle rispettive succes-

Stefano Petitti;

sioni e per sentire condannare Clara Garofano al rilascio
dei beni immobili in suo possesso. Chiedeva altresì la
condanna di chi di dovere al pagamento dei frutti percetti
e delle altre somme ricevute per eventuali espropri sui

Espletata c.t.u., con comparse del 16 giugno 1986 intervenivano volontariamente Maria e Rina Pingue, per sentire accertare il proprio diritto alle quote loro spettanti per legge quali eredi per rappresentazione alla propria
genitrice Ersilia Garofano, figlia dell’originario capostipite Angelo Garofano, deceduto nel 1919.
All’udienza del 23 novembre 1987 si costituiva Clara
Garofano, la quale eccepiva la nullità dell’istruttoria
fino a quel momento compiuta e la mancanza della qualità
di eredi in capo agli istanti, essendosi prescritto il diritto ad accettare l’eredità, e proponeva domanda riconvenzionale per sentir dichiarare la sua proprietà esclusiva per intervenuta usucapione dei beni relitti, deducendo
di avere comunque apportato a proprie spese rilevanti migliorie.
Con sentenza non definitiva del 18 aprile 2002, il
Tribunale di Benevento rigettava l’eccezione di prescrizione del diritto di accettare l’eredità e la domanda riconvenzionale.

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cespiti caduti in successione.

Formulata riserva di appello da parte di Clara Garofano, veniva svolta una nuova c.t.u., all’esito della quale
il Tribunale emetteva sentenza definitiva, pubblicata l’8
aprile 2005, con la quale venivano dichiarate aperte le

Angelina Garofano, e, rigettate le contestazioni formulate
avverso il progetto divisionale oresentato dal C.T.U., dichiarava esecutivo il progetto medesimo, disponendo
l’attribuzione dei beni ereditari secondo il detto progetto.
Avverso queste due sentenze proponeva appello, con atto di citazione notificato ai soli Giuseppe e Concetta Garofano, Clara Garofano; si costituivano Giuseppe Garofano
e Maria Ciarleglio, quale unica erede di Concetta Garofano, deceduta il 19 febbraio 2002, eccependo preliminarmente che occorreva integrare il contraddittorio nei confronti di Maria e Rina Pingue, litisconsorti pretermesse.
Con comparsa dell’8 giugno 2009, l’appellante Clara
Garofano dichiarava di avere fatto propria l’eccezione di
integrazione del contraddittorio nei confronti di Maria e
Rina Pingue.
Con ordinanza collegiale del 14 gennaio 2011 la Corte
d’appello disponeva l’integrazione del contraddittorio nei
confronti di Maria e Rina Pingue.

successioni di Ernesta, Maria Teresa, Angelo Garofano e

Non essendosi a ciò provveduto, le controparti eccepivano l’inammissibilità dell’appello ex art. 331 cod. proc.
civ.
L’appellante contestava tale richiesta, rilevando che

conto che le parti risiedevano in Australia, e successivamente, nel precisare le conclusioni, chiedeva la revoca
dell’ordinanza collegiale 14 gennaio 2011, non avendo in
realtà Maria e Rina Pingue (quest’ultima nelle more deceduta), alcun diritto successorio, per avere la loro dante
causa Ersilia Garofano disposto con atto notarile della
propria quota ereditaria spettantele dalla successione al
padre Angelo Garofano, in favore del germano Francesco.
Con sentenza depositata il 14 giugno 2012, la Corte
d’appello dichiarava inammissibile l’appello per l’omessa
integrazione del contraddittorio, come stabilito
dall’ordinanza collegiale del 14 gennaio 2001.
La Corte rilevava innanzitutto che la stessa appellante aveva convenuto sulla necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di Maria e Rina Pingue, salvo
poi contestare la detta necessità sul rilievo della insussistenza di una situazione di litisconsorzio necessario.
Riteneva, quindi, che le ragioni per le quali era stata
disposta l’integrazione del contraddittorio con ordinanza
collegiale dovessero essere condivise; e ciò sul rilievo

il termine concesso per l’integrazione era esiguo, tenuto

che le Pingue avevano spiegato intervento volontario assumendo la propria qualità di eredi per rappresentazione
della loro madre Ersilia Garofano, figlia dell’originario
dante causa Francesco, deceduto nel 1919, chiedendo che

chieste dell’originario atto di citazione del 1982.
La situazione di litisconsorzio necessario così venutasi a creare non risultava poi eliminata dalla richiesta,
formulata nel 1999 dal difensore delle interventrici, di
estromissione dal giudizio, allorquando era emerso che la
dante causa delle Pingue aveva ceduto la propria quota ereditaria in favore del germano Francesco, con conseguente
venir meno nelle Pingue della qualità di eredi per rappresentazione della madre nella successione oggetto di causa.
In proposito, la Corte d’appello rilevava che sulla istanza di estromissione il Tribunale non aveva statuito né in
sede di sentenza non definitiva, pronunciata espressamente
anche nei confronti delle sorelle Pingue, né in sede di
sentenza definitiva, nel corpo della quale, pur dandosi
atto dell’intervento delle sorelle Pingue, la loro presenza era stata omessa anche nella epigrafe.
In presenza dunque di una situazione di litisconsorzio
processuale, venutasi a creare per effetto dell’intervento
delle sorelle Pingue, la Corte d’appello rilevava che ai
fini della valutazione circa la necessità della integra-

fossero nei loro confronti estese tutte le eccezioni e ri-

zione del contraddittorio in sede di impugnazione doveva
aversi riguardo alla posizione sostanziale dedotta in giudizio, a prescindere dalla effettiva titolarità del diritto controverso; e, nella specie, la posizione fatta valere

avendo esse chiesto di partecipare al giudizio di scioglimento delle comunioni ereditarie quali eredi per rappresentazione della madre e quindi quali coeredi ex art. 784
cod. proc. civ., a nulla rilevando che, per effetto
dell’intervenuta cessione della quota della madre la loro
pretesa fosse infondata.
Accertata quindi la necessità della integrazione del
contraddittorio, la Corte d’appello rilevava che l’ordine
di integrazione era rimasto inadempiuto e che
l’appellante, dopo avere inizialmente indicato una impossibilità di provvedere all’adempimento dell’ordine nel
termine prescritto, non aveva comprovato le ragioni della
detta impossibilità. Né poteva attribuirsi rilievo al fatto che Rina Pingue era nelle more deceduta, poiché l’atto
di integrazione avrebbe dovuto essere notificato ai suoi
eredi; senza dire che di tale decesso non vi era stata conoscenza processualmente rilevante.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso Clara Garofano sulla base di un motivo.

dalle sorelle Pingue atteneva ad un rapporto inscindibile,

Ha resistito con controricorso Giuseppe Garofano, mentre non ha svolto difese l’intimata Maria Ciarleglio.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il Collegio rileva preliminarmente che non è di

alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, comma secondo, cod. proc. civ.,
quale risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 75
del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede
che il pubblico ministero «deve intervenire nelle cause
davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla
legge». A sua volta l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n.
12, come sostituito dall’art. 81 del citato decreto-legge
n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero
presso la Corte di cassazione interviene e conclude: a) in
tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi
alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di
cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura civile». L’art. 376, primo comma, cod.
proc. civ. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374,

ostacolo alla trattazione del ricorso la mancata presenza,

assegna i ricorsi ad apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di consiglio».
Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69

98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e
la modificazione degli artt. 380-bis, secondo comma, e
390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della
partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si
tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni
di cui al presente articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio
sia adottato a partire dal giorno successivo alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento
contenuto sia nell’art. 76, comma primo, lett. b), del
r.d. n. 12 del 1941 (come modificato dall’art. 81 del decreto-legge n. 69 del 2013), sia nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art. 376, primo comma, cod.

del 2013, quale risultante dalla legge di conversione n.

proc. civ.), consenta di ritenere non solo che la detta
sezione è abilitata a tenere oltre alle adunanze camerali
anche udienze pubbliche, ma anche che alle udienze che si
tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la

cata, ovviamente, la facoltà dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
cod. proc. civ., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione
dell’udienza odierna è stato emesso in data 25 settembre
2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica ben
può essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia integrale del
ruolo di udienza è stata trasmessa, ravvisato un interesse
pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai
sensi dell’art. 70, terzo comma, cod. proc. civ.
2. Nel merito, con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.
99, 101, 102, 105, 112, 267 e seguenti, 306, 310, 324, 331
cod. proc. civ. e 2909 cod. civ.
La ricorrente sostiene che il ragionamento in base al
quale la Corte d’appello ha ritenuto necessaria
l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Maria
e Rina Pingue, pur se corretto logicamente, non terrebbe

partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudi-

comunque conto del fatto che le due interventrici, le quali avevano chiesto in sede di precisazione della conclusioni in primo grado di essere estromesse dal giudizio per
difetto della qualità di eredi, erano implicitamente state

Alla posizione delle Pingue in tale sentenza, rileva la
ricorrente, non è fatto alcun cenno, ed anzi la divisione
con essa disposta presupponeva le interventrici non avessero alcun diritto a partecipare al giudizio di scioglimento della comunione. Nell’affermare che i soggetti aventi diritto alla divisione erano tre – e tra questi non erano comprese le sorelle Pingue – il Tribunale aveva quindi implicitamente estromesso le stesse dal giudizio, con
statuizione sulla quale doveva ritenersi si fosse formato
il giudicato implicito, atteso che nessuna impugnazione
era stata proposta sul punto, non avendo gli altri coeredi
interesse a far valere la mancata partecipazione delle
Pingue alla divisione, e non potendo queste ultime impugnare la relativa statuizione, avendo il Tribunale accolto
la loro richiesta di estromissione.
La Corte d’appello, sostiene la ricorrente, non avrebbe potuto desumere dal mancato espresso provvedimento sulla istanza di estromissione delle interventrici volontarie
che queste ultime avessero conservato la loro veste di
parti del processo, essendo una simile conclusione smenti-

estromesse dal Tribunale in sede di sentenza definitiva.

fa dalla sentenza definitiva che non le aveva in alcun modo considerate nella decisione assunta. In sostanza, la
formazione del giudicato implicito in ordine alla estraneità delle Pingue al giudizio impediva alla Corte

e di ordinare la integrazione dello stesso.
3. Il ricorso è fondato.
Occorre premettere che le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente osservato come l’attuazione dei principi del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., imponga un contemperamento tra le esigenze di natura pubblicistica del litisconsorzio necessario ed il dovere del
giudice di verificare preliminarmente la sussistenza di un
reale interesse a contraddire in capo al soggetto pretermesso (Cass., S.U., n. 11523 del 2013).
Nel caso di specie, risulta evidente la carenza di interesse delle litisconsorti pretermesse alla partecipazione al giudizio di divisione, atteso che le stesse avevano
concluso in primo grado chiedendo la loro estromissione
dal processo; e ciò sul rilievo della inesistenza in capo
a loro della qualità di eredi, avendo esse agito in rappresentazione della loro madre, la quale, però, nel 1922
aveva già ceduto la propria quota ereditaria, nella quale
le interventrici pretendevano di subentrare per rappresentazione.

d’appello di rilevare la non integrità del contraddittorio

Siffatta circostanza, invero, doveva essere ritenuta
dalla Corte territoriale di per sé idonea ad escludere la
necessità della integrazione del contraddittorio nei confronti di chi, pur avendo agito per rappresentazione, ave-

cipazione alla comunione ereditaria oggetto di divisione
per effetto della cessione, da parte della loro dante causa, della quota ereditaria, la cui titolarità costituiva,
appunto, il titolo di legittimazione al giudizio di divisione.
Questa Corte ha, del resto, avuto modo di affermare
che «il litisconsorzio necessario tra i coeredi, previsto
nei giudizi aventi ad oggetto la divisione dei beni ereditari, trova applicazione finché non sia cessato lo stato
di comunione mediante l’attribuzione ai singoli coeredi nella specie, per accordo stragiudiziale – delle quote loro spettanti» (Cass. n. 18218 del 2013). Ed è proprio questa la situazione che si è venuta a creare nel caso di
specie: con la cessione della quota ereditaria da parte
della dante causa delle due interventrici, queste ultime
non hanno mai assunto la qualità di partecipanti alla comunione ereditaria, sicché la loro partecipazione al giudizio nella prospettata qualità di eredi della propria madre non poteva essere intesa come partecipazione necessaria.

va comunque dichiarato il venir meno della propria parte-

Erroneamente, dunque, la Corte d’appello ha disposto
l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Maria
e Rina Pingue, dovendosi, nella specie, escludere una situazione di litisconsorzio necessario. Ne consegue che,

stata erroneamente emessa, dalla mancata ottemperanza alla
stessa non poteva discendere l’effetto della inammissibilità dell’appello.
3.1. In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e con rinvio ad
altra sezione della Corte d’appello di Napoli, la quale
procederà a nuovo esame del gravame facendo applicazione
del seguente principio di diritto: «premesso che
l’attuazione dei principi del giusto processo, di cui
all’art. 111 Cost., impone un contemperamento tra le esigenze di natura pubblicistica del litisconsorzio necessario e il dovere del giudice di verificare preliminarmente
la sussistenza di un reale interesse a contraddire in capo
al soggetto pretermesso, nel giudizio di divisione ereditaria il litisconsorzio necessario, che sussiste nei confronti di tutti gli eredi, viene meno rispetto al coerede
che, prima della introduzione del giudizio, abbia ceduto
la propria quota ereditaria; né tale litisconsorzio può
ritenersi sussistente nei confronti di chi, agendo in rappresentazione, ignorando la detta cessione da parte del

essendo l’ordinanza di integrazione del contraddittorio

proprio dante causa, abbia spiegato intervento nel giudizio di divisione. Ne consegue che l’omessa integrazione
del contraddittorio – disposta in appello – nei confronti
di tali parti, non comporta la inammissibilità del grava-

Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il ricorso,

cassa la sentenza impu-

gnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
VI-2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il
9 gennaio 2014.

me».

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