Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5522 del 10/03/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 5522 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: PETITTI STEFANO

equa
riparazione

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro
tempore,

e

rappresentato

difeso,

per

pro

legge,

dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso gli Uffici
di questa domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrente contro
AVOLIO DE MARTINO Francesco;
– intimato avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 5 gennaio 2012.

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Data pubblicazione: 10/03/2014

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 9 gennaio 2014 dal Consigliere relatore Dott.
Stefano Petitti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Corte d’appello di Roma, Francesco Avolio De Martino chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’equa riparazione, ai sensi della legge n. 89 del
2001, in relazione ai danni non patrimoniali subiti a causa della irragionevole durata di un giudizio civile iniziato dinnanzi al Giudice di pace di Napoli con citazione
del 2 maggio 1997, deciso in primo grado con sentenza depositata il 3 marzo 1998, proseguito in appello e deciso
con sentenza depositata il 22 dicembre 2005.
L’adita Corte d’appello, rilevato che il giudizio di
primo grado non poteva essere preso in considerazione ai
fini della valutazione della ragionevole durata del processo, essendosi concluso in un tempo molto ridotto, osservava che il giudizio di appello aveva avuto una durata
di sette anni, due mesi e quindici giorni, dalla quale doveva essere detratto un segmento di otto mesi riferibile a
richiesta di rinvio formulata dalla parte.
La Corte territoriale riteneva quindi che la irragionevole durata da indennizzare fosse di quattro anni, sei
mesi e quattordici giorni, in relazione alla quale liqui-

Con ricorso depositato il 16 aprile 2007 presso la

dava un indennizzo di euro 4.034,00, applicando il criterio di 750,00 euro per i primi due anni di ritardo e di
1.000,00 euro per ciascuno degli anni successivi.
Avverso questo decreto il Ministero della giustizia ha

tivi.
L’intimato non ha svolto difese.
MOTIVI DELLA DECISIONE
l. Il Collegio rileva preliminarmente che non è di
ostacolo alla trattazione del ricorso la mancata presenza,
alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, comma secondo, cod. proc. civ.,
quale risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 75
del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con
modificazioni, nella

legge

9 agosto 2013, n. 98, prevede

che il pubblico ministero «deve intervenire nelle cause
davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla
legge». A sua volta l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n.
12, come sostituito dall’art. 81 del citato decreto-legge
n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero
presso la Corte di cassazione interviene e conclude: a) in
tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze dinanzi
alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici della Corte di cassazione, ad ec-

proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro mo-

cezione di quelle che si svolgono dinanzi alla sezione di
cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura civile». L’art. 376, primo comma, cod.
proc. civ. stabilisce che «Il primo presidente, tranne

assegna i ricorsi ad apposita sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di consiglio».
Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69
del 2013, quale risultante dalla legge di conversione n.
98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e
la modificazione degli artt. 380-bis, secondo comma, e
390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della
partecipazione del pubblico ministero alle udienze che si
tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni
di cui al presente articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio
sia adottato a partire dal giorno successivo alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.

quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374,

Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento
contenuto sia nell’art. 76, comma primo, lett. b), del
r.d. n. 12 del 1941 (come modificato dall’art. 81 del decreto-legge n. 69 del 2013), sia nell’art. 75, comma 2,

ne (e cioè quella di cui all’art. 376, primo comma, cod.
proc. civ.), consenta di ritenere non solo che la detta
sezione è abilitata a tenere oltre alle adunanze camerali
anche udienze pubbliche, ma anche che alle udienze che si
tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
cod. proc. civ., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione
dell’udienza odierna è stato emesso in data 25 settembre
2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica ben
può essere tenuta senza la partecipazione del rappresentante della Procura generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia integrale del
ruolo di udienza è stata trasmessa, ravvisato un interesse
pubblico che giustificasse la propria partecipazione ai
sensi dell’art. 70, terzo comma, cod. proc. civ.
2. Nel merito, con il primo motivo di ricorso
l’amministrazione ricorrente denuncia violazione e falsa

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citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezio-

applicazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia scomputato
dalla durata complessiva del giudizio ai fini della valutazione della durata irragionevole il giudizio di primo

giudizio di media complessità avrebbe dovuto essere stimata in cinque anni. Conseguentemente, avendo il giudizio
presupposto avuto una durata complessiva di otto anni e
sei mesi, detratta la durata ragionevole nonché il periodo
di stasi processuale tra i due gradi, pari a sei mesi, la
durata indennizzabile sarebbe stata di circa due anni e
non di quattro come ritenuto dalla Corte d’appello.
Con il secondo motivo il Ministero deduce vizio di motivazione per non avere la Corte d’appello considerato altri rinvii non imputabili all’Ufficio e che avrebbero
quindi dovuto essere detratti dalla durata complessiva del
giudizio presupposto.
Con il terzo motivo il Ministero denuncia motivazione
omessa o insufficiente in ordine alla scelta del criterio
cui rapportare l’indennizzo, rilevando che una serie di
indici, primo tra tutti la scarsa rilevanza della posta in
gioco, avrebbero dovuto indurre la Corte d’appello ad applicare il criterio di 750,00euro per tutta la durata irragionevole.

grado, sicché la durata ragionevole per i due gradi di un

Con il quarto motivo il Ministero denuncia violazione
e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e
dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia riconosciuto gli interessi

senso.
3. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Invero, costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, quello per cui «in tema di equa
riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, pur
essendo astrattamente possibile individuare gli standard
di durata ragionevole per ogni fase e grado del processo,
vale, comunque, il principio della unitarietà del procedimento. Ne consegue che, ai fini della determinazione
dell’indennizzo spettante a chi abbia sofferto l’irragionevole durata di un processo, il termine decorre dalla introduzione del giudizio presupposto fino alla proposizione
della domanda di equa riparazione, non potendo la parte
scegliere di esperire il rimedio predisposto dalla legge
n. 89 del 2001 limitatamente ad una singola fase processuale che si sia protratta oltre lo standard di durata ritenuto ragionevole» (Cass. n. 15974 del 2013; Cass. n. 23506
del 2008).
Risulta quindi evidente l’errore in cui è incorsa la
Corte d’appello nel non considerare, nella valutazione

dalla domanda pur in mancanza di esplicita domanda in tal

complessiva della durata del processo, anche il primo grado.
4. Il secondo motivo è inammissibile, atteso che sottopone alla Corte l’esame di elementi di fatto attinenti

splicitare che le dette deduzioni erano state fatte valere
nel giudizio di merito.
4.1. Il terzo motivo è assorbito dall’accoglimento del
primo, dovendosi procedere ad una nuova liquidazione
dell’indennizzo all’esito della rinnovata valutazione sulla durata irragionevole del giudizio presupposto.
4.2. Il quarto motivo è fondato, atteso che dall’atto
introduttivo del giudizio di merito emerge che il ricorrente non ebbe a formulare esplicita richiesta degli interessi sulla somma liquidata. Trova, quindi, applicazione
il principio per cui «in materia di liquidazione dell’equa
riparazione per la durata irragionevole del processo presupposto, dal carattere indennitario dell’obbligazione discende che gli interessi legali decorrono dalla data della
domanda di equa riparazione, sempreché, tuttavia, essi
siano stati richiesti» (Cass. n. 24962 del 2011).
5. In conclusione, accolti il primo e il quarto motivo, dichiarato inammissibile il secondo e assorbito il
terzo, il decreto impugnato deve essere cassato.

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allo sviluppo del giudizio presupposto, senza peraltro e-

Tuttavia, non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai
sensi dell’art. 384 cod. proc. civ.
Infatti, accertata la durata complessiva del giudizio

tratta la durata ragionevole di cinque anni, nonché il
segmento di otto mesi già scomputato dalla Corte
d’appello, residua una durata irragionevole di due anni e
dieci mesi.
Quanto alla liquidazione dell’indennizzo, non vi è ragione per non applicare il criterio di 750,00 euro per i
primi tre anni di ritardo e di 1.000,00 euro per ciascuno
degli anni successivi, sicché al ricorrente spetta un indennizzo di euro 2.125,00, oltre agli interessi legali
dalla data della decisione della Corte d’appello al soddisfo.
Il Ministero della giustizia deve quindi essere condannato al pagamento della indicata somma con gli interessi con la decorrenza prima indicata.
Quanto alle spese del giudizio, il Collegio ritiene
che il Ministero debba essere condannato al pagamento di
quelle del giudizio di merito, che si liquidano in complessivi euro 806,00, di cui 50,00 per esborsi, euro
445,00 per diritti ed euro 311, 00 per onorari, oltre alle
spese generali e agli accessori di legge, mentre, per quel

presupposto per due gradi in otto anni e sei mesi e de-

che concerne le spese di legittimità, le stesse possono
essere compensate in considerazione dell’accoglimento solo
parziale del ricorso e dell’esito finale della lite.
PER QUESTI MOTIVI
accoglie

il ricorso per quanto di ragione;

cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della
giustizia al pagamento, in favore di Francesco Avolio De
Martino, della somma di euro 2.125,00, oltre agli interessi dalla data del decreto della Corte d’appello al soddisfo; condanna inoltre il Ministero al pagamento delle spese del giudizio di merito, che liquida in complessivi euro
806,00, di cui euro 50,00 per esborsi, euro 445,00 per diritti ed euro 311,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge; compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
VI-2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il
9 gennaio 2014.

La Corte

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