Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5520 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. II, 28/02/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 28/02/2020), n.5520

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORDANO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9051-2016 proposto da:

C.J.A., (anche detta J.L.A.),

rappresentata e difesa dall’Avvocato ALAN ROBERT KERSHAW ed

elettivamente domiciliata presso il suo studio, in ROMA, VIA SAN

TELESFORO 10;

– ricorrente –

contro

Avv.ti L.A.M. e CU.MA., in proprio, ed

elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in ROMA, VIA G.

SEVERANO 5;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1414/2016, della CORTE d’APPELLO di ROMA,

depositata il 3/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/10/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione ritualmente notificato, C.J.A.L. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Roma su istanza degli avv.ti L.A.M. e CU.MA., con il quale le era stato intimato il pagamento, in favore di questo ultimi, della somma di Euro 102.999,63, oltre accessori, a titolo di onorari per prestazioni stragiudiziali eseguite in favore dell’intimata. L’opponente eccepiva il difetto di legittimazione attiva degli istanti, nonchè il proprio difetto di legittimazione passiva, essendo stata rivolta l’azione nei confronti di C.A.L. in proprio e non come esecutrice testamentaria; nel merito sosteneva che non fosse dovuta la somma richiesta, stante la modestia dell’attività stragiudiziale svolta, o comunque, essere dovuta in misura notevolmente inferiore.

L’opponente chiamava in causa C.O., suo figlio, al fine di integrare il contraddittorio.

Si costituivano in giudizio gli avv.ti L. e Cu. chiedendo il rigetto dell’opposizione o, in subordine, la condanna di entrambe le controparti al pagamento della somma ritenuta equa e di giustizia.

Rigettate le richieste istruttorie, con sentenza n. 17059/2007 il Tribunale di Roma dichiarava il difetto di legittimazione passiva dell’opponente, essendo stato conferito l’incarico dalla C.L. in qualità di esecutrice testamentaria e dovendo ricadere il peso delle obbligazioni contratte da quest’ultima sulla massa ereditaria e non sul suo patrimonio personale.

Avverso questa sentenza proponevano appello gli Avv.ti L. e Cu. evidenziando che l’appellata fosse coerede in una comunione incidentale ereditaria e, quindi, coobbligata in solido al pagamento delle spese sostenute dall’esecutore testamentario. Chiedevano e ottenevano di escutere i testimoni non ammessi in primo grado.

Con sentenza n. 1414/2016, depositata in data 3.3.2016, la Corte d’Appello di Roma rigettava l’opposizione e confermava il D.I. opposto. In particolare, la Corte di merito riteneva che la domanda indirizzata alla sola opponente, nella duplice veste, garantiva il litisconsorzio necessario; inoltre, con la chiamata in causa dell’altro coerede, C.O., il contraddittorio era esteso anche nei confronti dell’altro componente della comunione ereditaria incidentale. Infine la sentenza riscontrava la sussistenza di un rapporto professionale di consulenza con i due avvocati.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione C.J.A.L. sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria; resistono gli Avv.ti L. e Cu. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 704 c.c. e in riferimento all’art. 112 c.p.c. – Erronea interpretazione degli atti di causa”, poichè la sentenza impugnata sarebbe incorsa in una chiara violazione di legge, a causa del mancato rispetto della regola di cui all’art. 112 c.p.c., in base alla quale il Giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Dalla lettura degli atti di causa non appare la circostanza, affermata in sentenza, che l’appellata rivestisse la doppia qualità di coerede e di esecutore testamentario, essendo così garantito il litisconsorzio necessario imposto dalla legge. Perciò, correttamente il Giudice di primo grado aveva statuito che l’attività amministrativa svolta dall’esecutore testamentario è svolta non nell’interesse proprio, ma altrui, assumendo la figura di sostituto processuale. Inoltre, dalla lettera degli avv.ti L. e Cu. del 23.6.2004 risulta chiaramente che l’incarico professionale fosse stato conferito dalla C.A.L. nella veste di esecutore testamentario. Osserva la ricorrente che, viceversa la Corte territoriale ha affermato che l’azione era stata proposta nei confronti della C. nella sua qualità di coerede corresponsabile solidalmente delle obbligazioni a carico dell’eredità, salvo poi specificare che la qualità di esecutore testamentario rivestita dalla stessa era indicata nella premessa del ricorso, così consentendone la partecipazione in giudizio anche in tale veste: sicchè, o la C. era stata chiamata a rispondere delle obbligazioni contratte nell’interesse della massa ereditaria quale coerede, oppure era stata chiamata in giudizio nella veste di esecutore testamentario. Pertanto, la mancata indicazione della chiamata in giudizio della C. nella sua qualità di coerede o di esecutore testamentario rende nullo il decreto ingiuntivo in quanto consentirebbe l’aggressione anche del patrimonio personale dell’esecutore testamentario.

1.1. – Il motivo è infondato.

1.2. – La Corte di merito ha osservato che la domanda “risulta esser stata esperita correttamente non solo nei confronti del coerede, obbligato in solido con l’altro coerede per i pesi ereditari, ma, in base al principio che i crediti dei terzi verso l’eredità vanno azionati anche nei confronti dell’esecutore testamentario (litisconsorte necessario), risulta essere stata estesa pure nei confronti dell’esecutore testamentario non ancora cessato dalla carica nella sua qualità di sostituto processuale (art. 704 c.c.)”. Per cui, essendo stata fornita la spiegazione della “circostanza che l’appellata rivestisse la doppia qualità di coerede e di esecutore testamentario” (per avere accettato l’eredità in data 14.5.2004, così assumendo la qualifica di coerede in comunione incidentale ereditaria; laddove, al tempo della presentazione del ricorso per decreto ingiuntivo in data 22.4.2005 (v. controricorso pagg. 9 e 10), rivestiva anche la qualifica di esecutore testamentario, poichè, pur essendo decorso il termine annuale previsto dalla legge, ella era ancora impegnata nella fase di rendicontazione della gestione ereditaria, e in quanto tale, ex art. 704 c.c., era litisconsorte necessario passivo nelle cause azionate da terzi nei confronti dell’eredità) “la domanda indirizzata alla sola opponente, nella duplice veste, ha garantito comunque il litisconsorzio necessario imposto dalla legge”. Essendo stato, peraltro, garantito il contraddittorio esteso, con la chiamata in causa, anche nei confronti dell’altro componente della comunione ereditaria incidentale, C.O., appellante contumace (sentenza impugnata pag. 2): sicchè, tra l’altro risulta ultronea, oltre che inaccoglibile la domanda subordinata avanzata nelle conclusioni del ricorso (pag. 12) di una nuova valutazione dell’appello previa integrazione del contraddittorio nei confronti del coerede C.O..

Il ragionamento della Corte di merito è coerente con il principio secondo cui l’esecutore testamentario, mentre è titolare iure proprio delle azioni, relative all’Esercizio del suo ufficio, che trovano il loro fondamento ed il loro presupposto sostanziale nel suo incarico di custode e di detentore dei beni ereditari ovvero nella gestione, con o senza amministrazione, della massa ereditaria, è soltanto legittimato processuale, a norma dell’art. 704 c.c., per quanto riguarda le azioni relative all’eredità, e cioè a diritti ed obblighi che egli non acquista o assume per sè, in quanto ricadenti direttamente nel patrimonio ereditario, pur agendo in nome proprio. In tale ultima ipotesi, in cui l’esecutore testamentario non è investito della legale rappresentanza degli eredi del de cuius, ma agisce in nome proprio, assume la figura di sostituto processuale, in quanto resiste a tutela di un diritto di cui sono titolari gli eredi, ma la sua chiamata in giudizio è necessaria ad integrare il contraddittorio (Cass. n. 4663 del 1982; cfr. anche Cass. n. 45 del 1967; Cass. n. 78 del 1967).

1.3. – Ciò premesso, va rilevato altresì che (con riferimento al vizio di ultrapetizione evocato in questo stesso motivo dalla ricorrente) la censura (apoditticamente formulata) non coglie nel segno, giacchè la Corte d’Appello, senza alcuna alterazione degli elementi obiettivi della azione (petitum e causa petendi), in ossequio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ha semplicemente riformato la sentenza di primo grado, ed ha confermato il decreto ingiuntivo rigettando l’opposizione; per cui non è andata oltre alcun limite della domanda degli odierni controricorrenti di accoglimento dell’appello e di rigetto dell’opposizione e conferma del D.I. opposto (v. dispositivo sentenza impugnata).

D’altronde il principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall’art. 112 c.p.c., implica unicamente il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa – alla stregua delle risultanze istruttorie – autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti nonchè in base all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante (Cass. n. 16809 del 2008; Cass. n. 10542 del 2003), purchè (come nella specie) restino immutati il petitum e la causa petendi (Cass. n. 2209 del 2016).

2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la “Violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione al D.M. 8 aprile 2004, in tema di determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa, tributaria, penale e stragiudiziali”. Riportati stralci della normativa di cui al citato D.M., la ricorrente fa presente che tra le parti è stato definito un altro diverso giudizio in tema di onorari giudiziali (Corte d’Appello di Roma sentenza n. 3298/2013); e che, se le somme ivi liquidate corrispondano a un adeguato compenso per l’attività svolta, non è possibile procedere a una duplicazione degli onorari, cosa invece verificatasi nell’impugnata sentenza.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – La ricorrente afferma che i controricorrenti avrebbero cumulato illegittimamente onorari stragiudiziali e giudiziali (i primi nel giudizio de quo, gli altri nel giudizio conclusosi davanti alla Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3298/2013, depositata in data 8 luglio 2013); tuttavia ella (nel censurare la violazione di legge) non fa cenno alcuno circa l’esatto thema decidendum di quel giudizio ed il relativo esito;

neppure provando che i compensi stragiudiziali e giudiziali fossero richiesti per le medesime attività. Nè risulta se avesse mai sollevato eccezioni di litispendenza o continenza, tra i due giudizi.

Rimane, dunque, la corretta affermazione della Corte di merito secondo cui, analizzate le prove, non vi erano dubbi sul fatto che i due professionisti avessero eseguito le prestazioni per cui avevano richiesto il consenso; vertendosi nel caso in esame di attività assolutamente non contemplata dalle tariffe per attività giudiziale (sentenza impugnata, pagina 6).

2.3. – Trattasi di una valutazione delle risultanze istruttorie congrua e plausibile; e, come tale, sottratta al sindacato di legittimità.

Vale, infatti, il consolidato principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

Viceversa, così come articolate, le censure portate dal motivo si risolvono sostanzialmente nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

3. – Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la “Violazione art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, poichè secondo la Corte d’Appello lo scaglione di riferimento per la determinazione degli onorari professionali era stato esattamente individuato dagli appellanti poichè non vi era stata contestazione sul valore dell’asse ereditario. Invece, sia nella pregressa corrispondenza che negli atti processuali, la C. ha sempre contestato lo scaglione di riferimento, tanto che nelle memorie istruttorie del giudizio di primo grado gli odierni resistenti chiedevano di dimostrare l’effettiva consistenza dell’asse ereditario e quella della quota di eredità spettante alla C., ossia i 2/3 dell’eredità. Si richiama la già citata sentenza della Corte d’appello di Roma n. 3298/2013, chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto dai resistenti contro la sentenza del Tribunale di Roma, tra le stesse parti, avente ad oggetto la richiesta di pagamento degli onorari in materia giudiziale, la quale motivava nel senso che fosse del tutto irrilevante il valore dell’asse ereditario, del quale, peraltro, non era stato fornito alcun elemento. Pertanto, il giudicato esterno formatosi sul punto è rilevabile anche d’ufficio.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 3 marzo 2016) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente – con riguardo e nei limiti della richiamata peculiare ampiezza dell’ambito decisionale del giudizio di rinvio – avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Viceversa, nel motivo in esame (riferito genericamente all’intero contesto decisionale della impugnata sentenza, e non ad evidenziati passaggi motivazionali, asseritamente omessi, in ordine all’applicato scaglione di riferimento per la determinazione degli onorari professionali, che la C. avrebbe, invece, sempre contestato), della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è idonea e specifica indicazione. Laddove, poi, è inammissibile l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico), o per lamentarsi di una “motivazione non corretta” (Cass. n. 27415 del 2018, cit.); giacchè nel paradigma di cui al citato art. 360 c.p.c., n. 5, non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

4. – Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 2697 c.c. sull’onere della prova”, giacchè nella richiesta di parere di congruità le prestazioni professionali appaiono del tutto generiche e consistite per lo più in pareri orali. La non particolare complessità delle prestazioni è testimoniata dalla stessa prima richiesta avanzata con nota del 2004, là dove la stessa era limitata al minor importo di Euro 18.123,10, con riferimento alle medesime prestazioni azionate successivamente in via monitoria. La differenza di oltre Euro 50.000,00 tra la prima richiesta e quella azionata in via monitoria rappresenta un indice di incertezza delle prestazioni stragiudiziali. Del resto, le prove testimoniali ammesse in grado di appello non hanno chiarito alcunchè, limitandosi ad affermare circostanze del tutto generiche, quali l’assistenza alla pubblicazione dei testamenti, l’accettazione del’eredità, l’esame dei rapporti con il coerede, attività, tra l’altro, già vagliate nell’altro giudizio avente ad oggetto la liquidazione degli onorari per l’attività giudiziale.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – Le censure riguardano la valutazione delle prove operata dalla Corte di merito, ha nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione sottratta al sindacato di legittimità non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuta a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive.

Valgono le stesse considerazioni svolte sub 2.3, dovendo peraltro chiarire ulteriormente che compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

5. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

6. – Con note autorizzate i controricorrenti hanno dedotto che la ricorrente aveva depositato davanti alla Corte d’Appello di Roma ricorso ex art. 373 c.p.c. chiedendo la sospensione dell’esecutività dell’impugnata sentenza, ma che il ricorso era stato rigettato rimettendo alla Suprema Corte la decisione sulla condanna al pagamento delle spese legali. I resistenti chiedevano pertanto la liquidazione delle spese per il suddetto procedimento.

6.1. – Superata la predecedente affermazione, per cui “la liquidazione delle spese processuali relative al procedimento incidentale di sospensione dell’esecuzione previsto dall’art. 373 c.p.c., spetta al giudice di appello e non alla Corte di Cassazione dato che, a mente dell’art. 372 c.p.c., la produzione di nuovi documenti è preclusa in seno al giudizio di cassazione; risultando pertanto impossibile un provvedimento sulle spese da parte del giudice di cassazione che non è in grado di esaminare preliminarmente gli atti documentali concernenti il procedimento incidentale svoltosi davanti al giudice di appello” (Cass. n. 19138 del 2005), questa Corte (Cass. n. 3341 del 2009) ha sottolineato che l’art. 372 c.p.c., è norma che dev’essere tenuta presente per individuare in che modo gli atti del procedimento di cui all’art. 372 c.p.c., possono “entrare” nel giudizio di cassazione, ai fini della liquidazione delle spese da parte della Corte (che, peraltro, in caso di accoglimento del ricorso, potrebbe anche essere demandata al giudice di rinvio, unitamente alle spese del giudizio di cassazione).

Orbene, se il ricorso ai sensi dell’art. 373 c.p.c., comma 2, e la costituzione del resistente avverso di esso siano stati già depositati in un momento anteriore alla scadenza del termine per il deposito del ricorso e del controricorso, bene può avvenire che essi siano depositati unitamente al loro deposito. Altrimenti, il principio desumibile dall’art. 372 c.p.c., comma 2, secondo cui degli atti e documenti che vengano prodotti disgiuntamente dal ricorso o dal controricorso deve farsi notifica di elenco indicante la loro produzione alla controparte a garanzia dell’ovvio rispetto del contraddittorio, impone un’analoga soluzione, che, naturalmente dev’essere estesa agli atti del procedimento di cui all’art. 373 c.p.c., nella sua interezza.

La mancata notifica dell’elenco di tali produzioni rende inammissibili le produzioni, a meno che all’udienza di discussione dinanzi alla Corte (o all’adunanza per la camera di consiglio) oppure – nel caso di deposito anteriore alla scadenza del termine per la memoria di cui all’art. 378 c.p.c. – in quest’ultima, la controparte non accetti di interloquire sulle produzioni stesse. Nella specie, la parte resistente ha depositato gli atti relativi al procedimento, ma senza notificarne un elenco alla controparte. Quest’ultima non è comparsa all’adunanza camerale e, quindi, non ha preso alcuna posizione su di essi.

Ne discende che detti atti non sono esaminabili da questa Corte e, pertanto, l’istanza di liquidazione delle spese del detto procedimento è da rigettare per difetto di documentazione alla stregua del seguente principio di diritto: “Fra le spese del giudizio di Cassazione vanno liquidate, ove richieste dall’interessato con specifica e documentata istanza, che deve comprendere gli atti relativi, i quali debbono prodursi nel rispetto dell’art. 372 c.p.c., comma 2, anche quelle inerenti al procedimento per la sospensione della sentenza impugnata, di cui all’art. 373 c.p.c.. Ciò, salvo il caso di accoglimento del ricorso e rimessione da parte della Corte al giudice di rinvio della statuizione sulle spese del giudizio di cassazione, nella quale eventualità anche le spese del detto procedimento si intendono rimesse al giudice di rinvio” (Cass. n. 3341 del 2009, cit.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 6.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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