Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5518 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. II, 28/02/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 28/02/2020), n.5518

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29881/2015 proposto da:

B.B.V., rappresentato e difeso dall’Avvocato PAOLA

CATTANI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in ROMA,

VIA dei GRACCHI 137;

– ricorrente –

contro

P.R.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato ROCCO

GUARINO ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

RAVENNA, VIA S. VALITUTTI 78;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1675/2015 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 12/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/10/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 11.2.2006, B.B.V. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna P.R.A. per sentir dichiarare la legittimità del recesso dal contratto preliminare di compravendita del 24.6.2005 e per sentir condannare il convenuto, quale promittente venditore, alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria di Euro 3.000,00 e, dunque, al pagamento della somma di Euro 6.000,00, oltre accessori. Esponeva che non era stato concluso il contratto definitivo entro il termine pattuito del 31.12.2005 in quanto l’immobile non aveva ottenuto l’agibilità, circostanza imputabile al promittente venditore e da lui conosciuta solo dopo la stipula del preliminare.

Si costituiva in giudizio il P. chiedendo il rigetto della domanda attorea, assumendo che il promissario acquirente era stato informato della mancanza di agibilità al momento della conclusione del preliminare, dato che la domanda era stata depositata presso il Comune dalla società costruttrice solo il giorno prima, ossia il 23 giugno; deduceva che il rifiuto del B. di concludere il definitivo era ingiustificato in quanto la domanda di agibilità era stata sospesa soltanto per carenza di documentazione relativa ai cancelli carrai condominiali, ossia per una mancanza formale che era stata integrata in data 15.12.2005, prima della data fissata per il rogito (quando avrebbe dovuto redigersi anche l’altro contratto con il quale B. avrebbe dovuto vendere l’immobile nel quale abitava onde ottenere il denaro per pagare parte del prezzo); era accaduto, invece, che l’attore aveva venduto la propria abitazione, ma si era rifiutato di acquistare l’immobile promesso in vendita dal P., mentre il certificato di agibilità era stato rilasciato con le forme del silenzio assenso perfezionatosi il 15.3.2006; affermava, pertanto, di avere legittimamente trattenuto la caparra, dovendosi imputare la mancata conclusione del definitivo all’inadempimento del B..

Istruita la causa, con sentenza n. 430/2009, depositata in data 22.6.2009, il Tribunale di Ravenna accoglieva la domanda, condannando il convenuto a pagare la somma di Euro 6.000,00 all’attore. In particolare, il Tribunale riteneva che la mancanza del certificato di abitabilità fosse sufficiente a integrare il colpevole inadempimento del promittente venditore.

Avverso tale sentenza proponeva appello il P. deducendo: l’insussistenza di un proprio inadempimento, in quanto il preventivo conseguimento dell’abitabilità non era condizione per la stipula del contratto definitivo e non costituiva l’oggetto di una obbligazione accessoria del promittente venditore; l’insussistenza di un inadempimento rilevante considerato che il difetto di agibilità era stato reso noto al B. ed era solo temporaneo, connesso a una carenza meramente formale che era stata emendata consentendo il rilascio del certificato; la non essenzialità del termine fissato per la conclusione del contratto e, dunque, l’esistenza di un mero ritardo nell’adempimento coincidente con il rilascio dell’abitabilità in data 15.3.2006 o 9.5.2006; la mancanza di colpa addebitabile all’appellante, tenuto conto che la disponibilità della documentazione richiesta dal Comune di Ravenna faceva capo al costruttore, riguardando manufatti condominiali.

Si costituiva in giudizio il B., il quale eccepiva la novità delle domande dell’appellante in ordine alla scarsa gravità dell’inadempimento, alla non essenzialità del termine pattuito per la conclusione del definitivo e al difetto di colpa, nonchè l’inammissibilità della domanda di restituzione delle somme erogate dall’appellante per le spese di iscrizione e cancellazione ipotecaria e spese accessorie. Chiedeva di rigettare l’appello in quanto infondato anche nel merito e, per l’effetto, confermare la sentenza di primo grado.

Con sentenza n. 1675/2015, depositata in data 12.10.2015, la Corte d’Appello di Bologna rigettava la domanda proposta dal B. e lo condannava a restituire al P. quanto versato in esecuzione della sentenza di primo grado, pari a Euro 12.767,95, oltre agli interessi legali dal pagamento (30.9.2009) al saldo; condannava il B. alle spese di lite dei due gradi di giudizio.

In particolare, la Corte di merito, disattesa l’eccezione di novità sollevata dall’appellato, rilevava che, in sede di conclusione del preliminare, il promissario acquirente era stato informato che il giorno precedente era stata presentata la domanda per ottenere il certificato di agibilità per l’intero edificio, che si perfezionò il 15.3.2006, ossia a distanza di 90 giorni dalla integrazione documentale richiesta dal Comune. La Corte escludeva, pertanto, che l’inadempimento potesse avere una gravità idonea a legittimare il recesso; e richiamava la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 16024 del 2002; Cass. n. 25427 del 2013) secondo la quale, in tema di preliminare di compravendita, l’eccezione di inadempimento basata sulla mancanza del certificato di abitabilità non può essere proposta ove risulti che il promissario acquirente fosse a conoscenza di tale situazione e la mancanza del certificato non è di ostacolo alla stipulazione del contratto definitivo.

Avverso detta sentenza il B. propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi; il P. si è costituito in giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce la “Illegittimità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 e 346 c.p.c. e per contraddittorio e/o omesso esame su un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero la conoscenza o meno (da parte) del ricorrente, in sede di stipula del contratto preliminare di compravendita, che l’immobile fosse o meno dotato del certificato di abitabilità”. La Corte di merito non avrebbe correttamente valutato le prove e avrebbe posto a fondamento della sua decisione la circostanza che il B., prima della stipula del preliminare, fosse a conoscenza della mancanza del certificato di abitabilità, nonostante tale circostanza non fosse pacificamente emersa dall’istruttoria. Afferma il ricorrente che la Corte di merito non aveva tenuto conto della deposizione testimoniale di sua moglie, mentre aveva ritenuto attendibili le testimonianze dei due agenti immobiliari incaricati dalle rispettive parti per la vendita dell’immobile, i quali avevano invece interesse in causa ed erano perciò incapaci a testimoniare.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “Illegittimità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 2700 c.c. e per contraddittorio e/o omesso esame su un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti ovvero il momento di effettivo rilascio del certificato di abitabilità”. La Corte territoriale non ha condiviso l’assunto del ricorrente per cui il termine di 60 giorni per il silenzio assenso decorreva dalla seconda dichiarazione pervenuta al Comune in data 9.2.2006 ed ha disatteso il referto 12.12.2006 del Comune. Osserva il B. che così facendo la Corte è incorsa in palese violazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 2700 c.c., che prescrive che l’atto pubblico, ovvero il citato referto nel caso di specie, fa piena prova, fino a querela di falso, delle dichiarazioni delle parti e dei fatti e/o certificazioni amministrative che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza.

1.3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la “Illegittimità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 per violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., comma 2 e del T.U. n. 380 del 2001, art. 24, L.R. n. 31 del 2002, art. 21, artt. 170, 180 e 186 del Regolamento Edilizio Comunale di di Ravenna e per contraddittorio e/o omesso esame su un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti ovvero la gravità dell’inadempimento della parte promittente venditrice in ordine alla mancanza del certificato di abitabilità alla data fissata per la stipula del contratto definitivo ovvero il 31.12.2005”. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità secondo la quale il certificato di abitabilità costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto, per cui il mancato rilascio integra inadempimento del venditore per consegna di “aliud pro alio” (Cass. n. 2729 del 2002).

2. – In ragione della connessione logico-giuridica e della formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – I motivi sono inammissibili.

2.2. – In primo luogo, va rilevato che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 12 ottobre 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente – con riguardo e nei limiti della richiamata peculiare ampiezza dell’ambito decisionale del giudizio di rinvio – avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è idonea e spcifica indicazione. Sicchè, le censure mosse in riferimento a detto parametro si risolvono nella sostanziale richiesta (generale e generica) al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018), come detto inammissibile, seppure effettuata con asserito riferimento alla congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e contestata dal ricorrente. Laddove, più specificamente, in sede di legittimità, le censure relative ai vizi di motivazione non possono risolversi nella richiesta di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dalla sentenza impugnata, in quanto, diversamente, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del Giudice di merito, estranea al giudizio di legittimità (Cass. n. 6288 del 2011; Cass. n. 7394 del 2010).

2.3. – Quanto ai contestuali profili di dedotta illegittimità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione di legge: a) degli artt. 115, 116 e 346 c.p.c. (primo motivo); b) dell’art. 116 c.p.c. e art. 2700 c.c. (secondo motivo); c) dell’art. 1385 c.c., comma 2 e T.U. n. 380 del 2001, art. 24, L.R. n. 31 del 2002, art. 21 e degli artt. 170, 180 e 186 del Regolamento Edilizio Comunale di Ravenna (terzo motivo), va rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i sopra citati più angusti limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

2.4. – Nella specie, nei termini in cui sono stati prospettati (peraltro in via alternativa), i vizi di cui ai formulati motivi si connotano per una pluralità di questioni rispetto alle quali si denota l’avvenuto esame da parte del Collegio di merito, con valutazione di fatto adeguata e coerente, e come tale non soggetta al controllo di legittimità. Dette censure riguardano, più propriamente, la contestazione della non corretta valutazione che la Corte di merito avrebbe operato del quadro probatorio acquisito (testimoniale e documentale), con particolare riferimento alla circostanza – contestata dal ricorrente – che, prima della stipula del preliminare, il B. fosse a conoscenza del fatto che l’immobile in oggetto fosse sprovvisto del certificato di abitabilità.

Orbene, vale il consolidato principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

2.5. – Viceversa, così come articolate, le censure portate dal motivo si risolvono sostanzialmente nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Ma compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la “Illegittimità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., nonchè per difetto di competenza della Corte d’Appello adita in ordine alle spese di iscrizione e cancellazione dell’ipoteca e accessorie notarili e legali”. Osserva il ricorrente che le spese di iscrizione e cancellazione dell’ipoteca giudiziale sono oggetto di cognizione del Giudice competente per le azioni ipotecarie, che nella specie sarebbe stato il Tribunale di Ravenna, foro del B. e luogo di iscrizione dell’ipoteca; inoltre, sul punto, si era formato giudicato e a maggior ragione la Corte adita non poteva pronunciarsi.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – Del tutto correttamente la Corte di merito ha affermato che sono pure dovute all’appellante le spese sostenute per la iscrizione e cancellazione dell’ipoteca e relative spese accessorie, il cui esborso non è stato contestato dalla controparte. Ed ha citato il principio giurisprudenziale secondo cui, allorchè (come nella specie) venga riformata in appello una sentenza già posta in esecuzione forzata, il debitore esecutato ha diritto alla restituzione non solo del capitale pagato sulla base del titolo successivamente riformato, ma anche delle somme corrisposte a titolo di rifusione delle spese del giudizio di esecuzione sostenute dal creditore esecutante (Cass. n. 25143 del 2008; conf. Cass. 2135 del 2016; Cass. 21561 del 2011).

In particolare, nella pronuncia del 2008, questo Giudice di legittimità ha chiarito, tra l’altro, che la riforma, anche parziale, della sentenza di primo grado determina la caducazione ex lege della statuizione sulle spese e il correlativo dovere, per il giudice d’appello, di provvedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle stesse, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata; e che la domanda di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova talchè è ammissibile in appello, anche nel corso del giudizio, quando l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’impugnazione. Questa Corte osserva, infatti, che tutte le specifiche regole sin qui esposte sono, secondo la tesi prevalente, riconducibili al principio del c.d. “effetto espansivo interno”, secondo il quale la decisione dell’impugnazione sulla questione principale può comportare la modificazione anche della questione dipendente, pur se autonoma e non investita da specifica censura (Cass. n. 11491 del 2006; Cass. n. 19937 del 2004). La qual cosa esclude, quindi, il determinarsi di vizi di incompetenza, ovvero di formazione di giudicato interno.

4. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 1.400,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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