Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5507 del 06/03/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 06/03/2017, (ud. 13/01/2017, dep.06/03/2017),  n. 5507

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24874-2015 proposto da:

S.M.T., + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

nonchè

S.L., + ALTRI OMESSI

– intimati –

e contro

ST.LO., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SPLUGA

22-24, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE ROSSI;

– resistente –

avverso la sentenza n. 5459/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/01/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Letta la memoria depositata dai ricorrenti.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Nell’ambito di un giudizio di scioglimento delle comunioni ereditarie derivanti dalla successione legittima di S.G. e del coniuge A.D., alcuni dei condividenti, e precisamente S.G., + ALTRI OMESSI

Il Tribunale di Frosinone con la sentenza non definitiva n. 138/2004 rigettava le domande riconvenzionali, disponendo procedersi alla formazione delle quote ed all’approvazione del progetto di divisione, ed a tal fine provvedeva appunto la successiva sentenza definitiva n. 949/06.

Proposto appello da parte dei condividenti, che avevano avanzato domanda riconvenzionale di usucapione, la Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 5459/14 disattendeva l’appello principale e l’appello incidentale di S.M.T., erede di S. Sisto, volto parimenti a contestare la correttezza del rigetto della domanda riconvenzionale di usucapione, in quanto ritenuti inammissibili.

Infatti, osservava la Corte di merito che alla luce del disposto di cui all’art. 342 c.p.c., il motivo di appello per essere ritenuto ammissibile postula che alle argomentazioni del giudice di primo grado vengano contrapposte delle deduzioni finalizzate ad inficiare il fondamento logico-giuridico delle prime.

Nel caso in esame, nell’appello era carente una censura specifica alla ratio decidendi del Tribunale, non avendo gli appellanti contestato il principio secondo cui in caso di usucapione da parte del coerede, il godimento esclusivo del bene non è sufficiente da solo ai fini dell’usucapione, occorrendo la manifestazione di un dominio esclusivo sulla cosa comune.

S.G., + ALTRI OMESSI

Preliminarmente devono essere disattese le deduzioni di parte ricorrente di cui alla memoria in atti con le quali si sostiene la pretesa incostituzionalità, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 380 bis c.p.c. a seguito delle modifiche apportate dal D.L. n. 168 del 2016 convertito nella L. n. 197 del 2016, nella parte in cui non prevede più la celebrazione di un’udienza camerale con la partecipazione delle parti al fine di consentire una difesa orale, in luogo di quella a carattere solo documentale prevista dalla riforma.

Ritiene il Collegio di dovere fare proprie le ampie considerazioni svolte da questa stessa Corte nell’ordinanza n. 395 del 10 gennaio 2017, con la quale, anche con congrui richiami alla giurisprudenza della CEDU (sentenza 21 giugno 2016, Tato Marinho c. Portogallo), si è ribadito come la novella miri proprio ad assicurare l’attuazione dei principi posti dall’art. 111 Cost. in termini di ragionevole durata del processo ed effettività della tutela giurisdizionale.

In tal senso si è precisato che il valore della pubblicità delle udienze, ove lo stesso sia stato assicurato nelle istanze di merito, non è assoluto, e ben può trovare deroga in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (Corte cost., sent. n. 80 del 2011), quali ad esempio l’assenza di valenza nomofilattica, tipica delle cause per le quali si profila la definizione ai sensi del meccanismo processuale di cui all’art. 380 bis c.p.c., ovvero laddove per la struttura e funzione dell’ulteriore istanza, il rito sia volto, eminentemente, a risolvere questioni di diritto o comunque non “di fatto”, tramite una trattazione rapida dell’affare, non rivestente peculiare complessità.

Tali indicazioni si addicono quindi particolarmente al novellato rito di cui all’art. 380 bis c.p.c., posto che il giudizio di legittimità de quo, oltre a non postulare in sè profili di autonomo accertamento dei fatti, ha assunto, in ambito civile, a seguito della novella legislativa del 2012 recante la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 una ancor più spiccata accentuazione del sindacato sugli errores in indicando rispetto a quello sul vizio di “motivazione”, limitato nei confini indicati dall’interpretazione offerta da Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).

La norma si occupa quindi di ricorsi che si presentino, all’evidenza (“a un sommario esame”: art. 376 c.p.c.), inammissibili, manifestamente infondati o manifestamente fondati (art. 375 c.p.c.), ossia di impugnazioni per le quali, risulta giustificata la decisione resa con ordinanza (ex art. 375 c.p.c., quale provvedimento per definizione succintamente motivato: art. 134 c.p.c.) all’esito di adunanza camerale non partecipata.

Quanto alla garanzia del contraddittorio, la stessa è, comunque, assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni (che, del resto, devono essere già compiutamente argomentate con il ricorso per quanto riguarda, segnatamente, i motivi dell’impugnazione), non solo in funzione delle difese svolte dalla controparte, ma anche in rapporto alla proposta del relatore circa la sussistenza di ipotesi di trattazione camerale, ex art. 375 c.p.c., sicchè l’interlocuzione scritta attua un bilanciamento, non irragionevole tra le esigenze del diritto di difesa e quelle, del pari costituzionalmente rilevanti di speditezza e concentrazione, in funzione della ragionevole durata del processo.

Quanto infine alla previsione di una proposta di trattazione camerale da parte del relatore, in ragione della ravvisata esistenza di ipotesi di decisione del ricorso di cui all’art. 375 c.p.c. – in luogo della relazione (o cd. “opinamento”) depositata in cancelleria, secondo la formulazione del previgente art. 380-bis c.p.c. – si tratta a sua volta di una scelta riconducibile all’esercizio della discrezionalità del legislatore in ambito processuale e non è tale da vulnerare il diritto di difesa, attesa la non vincolatività per il Collegio e che, deve tendenzialmente restare confinata nell’alveo dell’oggetto della lite quale definito dai motivi di impugnazione.

Il primo motivo denunzia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto, sebbene fossero state appellate sia la sentenza non definitiva che quella definitiva, la Corte d’Appello si è limitata a disattendere l’appello solo avverso la prima, omettendo di decidere l’impugnazione proposta nei confronti della seconda.

Ad avviso del Collegio il motivo è palesemente destituito di fondamento.

Ed, invero, come si evince chiaramente dalla narrazione della sentenza impugnata, nonchè dalla prospettazione offerta da parte ricorrente, la questione concernente la pretesa usucapione di alcuni dei beni comuni ad opera dei ricorrenti è stata esaminata e definita, in senso sfavorevole agli attori in riconvenzionale, con la sentenza non definitiva, posto che la successiva sentenza, prendendo atto di quanto già statuito in precedenza, si è limitata a disporre lo scioglimento della comunione, sul presupposto dell’appartenenza dei beni in capo a tutti gli eredi legittimi.

I motivi di appello, ritenuti inammissibili dalla Corte distrettuale, per carenza del requisito di specificità, investono unicamente la correttezza della decisione concernente il rigetto della domanda di usucapione, posto che la caducazione della sentenza definitiva, relativa, come detto, alla sola divisione dei beni, si sarebbe prodotta ed in via automatica in virtù dell’effetto espansivo esterno ex art. 336 c.p.c., comma 2, e ciò anche nella diversa ipotesi in cui i ricorrenti avessero immediatamente impugnato la sentenza non defintiva, ed il loro appello fosse stato accolto una volta emessa, nel prosieguo del giudizio dinanzi al Tribunale, la statuizione definitiva sulla divisione.

In sostanza, poichè la riforma della sentenza non definitiva avrebbe ex se avuto influenza su quanto statuito con la pronuncia conclusiva del giudizio, occorre guardare alle censure mosse con l’atto di appello per individuare quale fosse la sentenza effettivamente impugnata, e nel caso di specie, è indubitabile che le doglianze degli appellanti si appuntavano unicamente avverso quanto stabilito con la prima sentenza emessa.

Deve pertanto reputarsi che correttamente la Corte distrettuale, ancorchè le parti avessero, ma in maniera erronea o comunque superflua, dichiarato di voler impugnare entrambe le sentenze, ha ritenuto che il gravame fosse direttamente rivolto nei confronti della sola sentenza non definitiva, e che pertanto attesa la dipendenza logico – giuridica delle statuizioni contenute nella pronuncia definitiva rispetto a quelle di cui alla sentenza non definitiva, in assenza di censure rivolte specificamente a criticare il contenuto della prima, una volta ritenuti inammissibili i motivi di appello avanzati dagli appellanti principali ed incidentale, nulla dovesse specificamente disporsi in merito alla sentenza definitiva, la cui correttezza risultava confermata, a seguito del rigetto del gravame avanzato verso la statuizione a carattere non definitivo.

Gli altri tre motivi, con i quali sotto vari profili si denunzia la violazione delle norme di diritto sostanziale in materia di usucapione, nonchè la corretta valutazione delle risultanze istruttorie ad opera del giudice di merito, sono evidentemente inammissibili, in quanto non si confrontano con la ratio decidendi della sentenza impugnata.

La Corte d’Appello di Roma, come visto, non ha affatto esaminato nel merito gli appelli proposti, ma ne ha rilevato in via preliminare l’inammissibilità, in quanto non conformi alla previsione di cui all’art. 342 c.p.c..

Per consentire una valutazione nel merito della correttezza della soluzione accolta dal Tribunale, i ricorrenti avrebbero dovuto in primis contestare la correttezza della soluzione in rito adottata dal giudice di secondo grado, non potendosi quindi, in assenza di una qualsivoglia censura volta a contestare la valutazione in punto di ammissibilità dell’appello, dedurre l’error in iudicando di cui ai motivi di ricorso in esame.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo nei confronti della resistente.

Nulla a disporre per le spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto attività difensiva

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore della resistente che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sul compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2017

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