Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 550 del 11/01/2017

Cassazione civile, sez. VI, 11/01/2017, (ud. 10/11/2016, dep.11/01/2017),  n. 550

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26376/2015 proposto da:

E.F., (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. MARCO

ESPOSITO in virtù di procura in calce al ricorso ed elettivamente

domiciliato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il

27/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Marco Esposito per il ricorrente.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Roma in data 23 novembre 2013, E.F. chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’indennizzo del pregiudizio subito per la irragionevole durata di un procedimento penale, scaturito da una sua denuncia in data 6 agosto 2003, conclusosi all’esito della fase dibattimentale con sentenza del 5/4//2012-15/5/2012, di prescrizione, sentenza comunicata alla Procura Generale della Repubblica solo in data 22/2/2013, divenendo quindi irrevocabile in data 9/4/2013.

La Corte d’appello, con decreto depositato in data 28 gennaio 2014, accoglieva in parte la domanda, determinando l’indennizzo dovuto in Euro 2.000,00 oltre interessi dalla domanda e spese legali.

A seguito di opposizione del ricorrente, la Corte d’Appello di Roma, in composizione collegiale, con decreto del 27 marzo 2015, in parziale riforma del decreto del Consigliere delegato, riconosceva in favore dell’ E. l’indennizzo in misura pari ad Euro 3.000,00, escludendo tuttavia che potesse essere considerato ai fini della liquidazione dell’indennizzo stesso, il periodo di tempo che aveva preceduto la costituzione di parte civile del ricorrente, ritenendo che, durante la fase delle indagini preliminari la partecipazione della parte offesa al processo è solo eventuale.

Tuttavia, e ribadita l’individuazione nella fattispecie in quattro anni del lasso di tempo eccedente la durata ragionevole del processo, riteneva di attribuire la somma di Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in luogo di quella di Euro 500,00 riconosciuta con il decreto opposto.

Per la cassazione di questo decreto l’ E. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi.

Il Ministero della giustizia ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata da parte del Ministero in ragione della sua tardiva presentazione.

Ed, infatti, risulta che il provvedimento impugnato è stato pubblicato in data 27/3/2015 sicchè il termine per la sua impugnazione ex art. 327 c.p.c., tenuto conto anche del periodo di sospensione feriale (già ridotto per l’anno 2015 dal 1 al 31 agosto, per effetto del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 16, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162), veniva a scadere il giorno 28 ottobre 2015.

Alla luce della documentazione allegata alla memoria presentata da pare ricorrente risulta infatti che il ricorso in esame è stato consegnato all’ufficio UNEP di Napoli per la notifica, successivamente effettuata a mezzo posta (momento in relazione al quale deve verificarsi il rispetto del termine per impugnare, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte, cfr. da ultimo Cass. n. 1663/2016) proprio in data 28 ottobre 2015, con la conseguenza che l’impugnazione proposta deve essere ritenuta tempestiva, a nulla rilevando che le successive attività di inoltro dell’atto siano avvenute in data successiva.

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce l’erronea applicazione della legge in tema di determinazione del tempo di durata ragionevole del processo, nella parte in cui, per la persona offesa, si ritiene che il termine debba essere calcolato a far data dall’avvenuta costituzione di parte civile, non tenendosi invece conto del tempo intercorso tra la data di presentazione della denunzia ovvero della querela, e la data della detta costituzione, impedendosi quindi in tal modo di poter prendere in considerazione il pregiudizio legato alla irragionevole durata delle indagini preliminari.

A tal riguardo, pur prendendosi atto che la soluzione alla quale è pervenuta la Corte d’Appello risulta conforme alla normativa vigente, si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme in esame, per pretesa disparità di trattamento ex art. 3 Cost., tra la posizione dell’indagato e quella della persona offesa, posto che per il primo la durata ragionevole del processo deve essere considerata a far data dal momento in cui sia venuto a conoscenza della conclusione delle indagini, laddove per il secondo occorrerebbe avere riguardo alla data in cui risulta depositata la denunzia ovvero la querela.

Ad avviso del Collegio il ricorso è infondato, dovendosi confermare il pacifico orientamento di questa Corte che esclude la possibilità di indennizzare in favore della persona offesa il periodo di tempo trascorso prima della sua costituzione come parte civile.

In tal senso si è affermato che, in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, per la persona offesa dal reato in quanto tale e per il querelante, che non si siano costituiti parte civile, il procedimento penale non può essere definito come una propria causa; ad essi, pertanto, non può essere direttamente e personalmente riconosciuto il diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ai fini dell’equa riparazione prevista dalla citata L. n. 89 del 2001.

Ne deriva che la persona offesa dal reato, che al fine di conseguire il risarcimento del danno si sia costituita parte civile nel processo penale instaurato dal P.M. contro l’autore di detto reato, ha diritto alla ragionevole durata del processo, con le connesse conseguenze indennitarie in caso di violazione, soltanto a partire dal momento della costituzione di parte civile, senza che possa darsi alcun rilievo al fatto che essa persona offesa dal reato abbia, comunque, dovuto attendere lo sviluppo del procedimento per potersi costituire parte civile” (Cass. n. 19032 del 2005, Cass. n. 10303 del 2010; Cass. n. 5294 del 2012; Cass. n. 2842/2013; nello stesso senso, v. anche Cass. n. 13889 del 2003; Cass. n. 11480 del 2003; Cass. n. 4138 del 2003; Cass. n. 1405 del 2003; Cass. n. 996 del 2003).

In particolare, si ritiene di dover dare continuità alle ampie e condivisibili argomentazioni di cui alla sentenza n. 14925/2015, la quale ha precisato che l’esercizio dell’azione civile in sede penale, realizzato mediante lo strumento della costituzione di parte civile, benchè consenta di far confluire detta azione nell’ambito del processo penale, tuttavia non implica l’incorporazione della causa civile in quella penale, e non travolge la differenza che esiste tra le parti dell’una e dell’altra causa. A tal fine deve ricordarsi che la causa penale concerne unicamente la pretesa punitiva dello Stato nei confronti di chi si assume essere autore di un fatto costituente reato, mentre quella civile ha per oggetto il diritto del privato al risarcimento del danno eventualmente cagionatogli da quel medesimo reato, con la conseguenza che, la persona offesa dal reato, quand’anche abbia svolto il ruolo di querelante, non può dirsi parte del giudizio penale; e che, viceversa, tale qualità compete al danneggiato che si sia costituito parte civile in relazione alla causa per risarcimento di danni che in tal modo si è innestata nel processo penale. In tal senso, se è vero che diverse disposizioni del codice di procedura penale attribuiscono alla persona offesa anche un ruolo attivo nel processo penale, al punto che si è parlato di un’accusa privata, in posizione accessoria a quella pubblica e, per certi aspetti, con funzioni anche di sollecitazione e controllo sull’operato di quest’ultima, tuttavia resta il fatto che il processo penale, di per sè, non è volto ad accertare nessuna posizione di diritto o di soggezione facente capo alla persona offesa, la quale non può dunque essere assimilata ad una delle parti private di cui si occupano altre disposizioni del medesimo codice, posto che, il processo penale è pur sempre finalizzato unicamente all’esercizio dell’azione penale, di cui è solo titolare il pubblico ministero, onde i poteri e le facoltà che sono autonomamente riconosciuti alla persona offesa sin dalle indagini preliminari si risolvono in una mera anticipazione di quanto ad essa spetterà una volta che, ricorrendone le condizioni, abbia eventualmente formalizzato la costituzione di parte civile.

Tali considerazioni non appaiono destinate a subire ripensamenti a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 212 del 2015, al quale ha fatto riferimento il difensore del ricorrente nella discussione, con il quale è stata data attuazione alla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2012/29/UE del 25/10/2012, che, pur avendo rafforzato la posizione della vittima del reato, anche in vista dell’esigenza di tutela di soggetti aventi difficoltà di comprensione della lingua italiana (cfr. l’introduzione dell’art. 143 bis c.p.p.) e pur avendo individuato specificamente una serie di elementi che debbano essere comunicati ovvero costituire oggetto di informazioni per la persona offesa (cfr. i novellati artt. 90 bis e 90 ter c.p.p.) non incide sulla conclusione circa l’impossibilità di attribuire la qualifica di parte del processo penale alla persona offesa prima della sua costituzione come parte civile.

Ne discende altresì che deve escludersi la violazione delle previsioni della CEDU, in quanto per la persona offesa, il procedimento penale non può essere definito come una “propria causa”, in relazione alla quale le possa perciò essere direttamente e personalmente riconosciuto il diritto alla ragionevole durata di tale causa, non avendo un autonomo diritto a che il reo sia sottoposto a pena e neppure, dunque, alla tempestività della decisione di assoluzione o di condanna dell’imputato in se sola considerata.

Tali riflessioni escludono altresì la sussistenza del sospetto di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento – ben potendo la persona offesa liberamente decidere di svincolarsi dalle sorti del procedimento penale, per autonomamente promuovere domanda risarcitoria in sede civile. Nè è possibile ravvisare una violazione dell’art. 24 Cost., non risultando in alcun modo compresso il diritto della persona offesa di costituirsi, quando possibile, parte civile nel procedimento penale scaturito dalla sua iniziativa; ne, infine, è ravvisabile una violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea, poichè, come chiarito, il procedimento penale diventa la causa propria anche della persona offesa solo dal momento in cui la stessa faccia valere in sede penale il diritto al risarcimento dei danni subiti per effetto della commissione del reato oggetto della denuncia. Ne consegue che la decisione gravata è del tutto conforme ai principi espressi da questa Corte e che dunque il ricorso deve essere rigettato.

2.1 Del pari va disattesa la richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale per la pretesa violazione dell’art. 117 Cost., in combinato disposto con gli artt. 6 e 41 della CEDU, dei novellati della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 2 bis, nella parte in cui non consentono la condanna del Ministero al pagamento di una somma di denaro dovuta per i danni patrimoniali subiti in conseguenza della durata irragionevole del processo, essendo la questione del tutto priva di rilevanza rispetto al giudizio in esame, nel quale non risulta che il ricorrente abbia chiesto anche il ristoro del danno patrimoniale (cfr. pag. 9 del ricorso ove si riportano le conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio).

2.2 Il ricorrente, sempre nel primo motivo, insta affinchè venga sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione alle medesime norme sopra riportate nella parte in cui escludono dal computo dell’equa riparazione tutto il tempo della durata del processo che rientra nella ragionevolezza dei termini così come specificati dalla L. n. 89 del 2001.

Sul punto ritiene il Collegio di dover richiamare quanto affermato in precedenti occasioni da questa Corte, la quale ha avuto modo di precisare che (cfr. Cass. n. 478/2011) è manifestamente infondata la questione di costituzionalità della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lett. a), nella parte in cui stabilisce che, al fine dell’equa riparazione, rileva soltanto il danno riferibile al periodo eccedente il termine di ragionevole durata, non essendo ravvisabile alcuna violazione dell’art. 117 Cost., comma 1, in riferimento alla compatibilità con gli impegni internazionali assunti dall’Italia mediante la ratifica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Infatti, qualora sia sostanzialmente osservato il parametro fissato dalla Corte EDU ai fini della liquidazione dell’indennizzo, la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide sulla complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento, non comportando una riduzione dell’indennizzo in misura superiore a quella ritenuta ammissibile dal giudice europeo; diversamente opinando, poichè le norme CEDU integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello subcostituzionale, dovrebbe valutarsi la conformità del criterio di computo desunto dalle norme convenzionali, che attribuisce rilievo all’intera durata del processo, rispetto al novellato art. 111 Cost., comma 2, in base al quale il processo ha un tempo di svolgimento o di durata ragionevole, potendo profilarsi, quindi, un contrasto dell’interpretazione delle norme CEDU con altri diritti costituzionalmente tutelati (in senso conforme si veda anche Cass. n. 10415/2009 nnchè Cass. n. 23844/2007).

3. Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, relativamente alla determinazione dell’indennizzo, anche in relazione a quanto disposto dagli arti. 6 e 41 della CEDU.

Infatti, a fronte di un motivo di opposizione avverso il decreto monocratico, con il quale ci si doleva della liquidazione dell’indennizzo avvenuta facendo applicazione dei valori minimi previsti dalla legge, la Corte d’Appello in composizione collegiale aveva solo in parte accolto la doglianza, riconoscendo la somma di Euro 750,00 per anno in luogo di quanto riconosciuto dal giudice monocratico (Euro 500,00 per anno).

Tuttavia la peculiarità del processo presupposto, conclusosi dopo molti anni con una sentenza di accertamento della prescrizione del reato, giustificava una liquidazione in base ai valori massimi previsti dalla legge, ovvero applicando per i primi tre anni di ritardo la somma individuata dal provvedimento qui impugnato e riconoscendo la somma di Euro 1000,00 per ogni anno successivo di ritardo.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

Questa Corte (cfr. Cass. n. 14974/2015) ha avuto modo di precisare che la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico.

Ne consegue che essendosi il giudice di merito attenuto ai valori previsti dalla legge, è insussistente la dedotta violazione di legge, non avendo parte ricorrente lamentato la sussistenza di un vizio motivazionale, peraltro oggi suscettibile di essere denunziato nei ben più ristretti limiti del novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

Peraltro, ed anche in relazione alla previgente formulazione della norma da ultimo citata, questa Corte ha precisato che (cfr. Cass. n. 3934/2013) il giudice è tenuto, ai fini della liquidazione del danno in via equitativa, a fornire indicazioni sui criteri che lo hanno guidato nel giudicare proporzionata una certa misura del risarcimento, ma che la relativa motivazione può assumere, trattandosi di provvedimento adottato con decreto, anche caratteri di sommarietà, purchè si riescano ad individuare, almeno per grandi linee ed anche dall’insieme delle indicazioni espresse nel provvedimento, i fondamentali elementi di giudizio sui quali la decisione è basata.

Nel caso in esame la motivazione del provvedimento impugnato ha fatto riferimento agli elementi che ne hanno orientato la liquidazione, potendosi pertanto ritenere che il giudice di merito abbia soddisfatto i requisiti per reputare adempiuto l’onere della motivazione sul quantum, così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte.

Quanto alla decorrenza degli interessi, deve del pari reputarsi la doglianza priva di fondamento, in quanto lo stesso ricorrente precisa che il giudice monocratico aveva individuato il dies a quo per il loro calcolo a far data dalla proposizione della domanda.

In assenza di doglianza concernente tale aspetto, ed essendosi provveduto ad accogliere l’opposizione solo in punto di quantum, ed in senso favorevole al ricorrente stesso, deve ritenersi che sia stata confermata anche la decorrenza degli interessi a far data dalla proposizione della domanda indennitaria.

4. Il terzo motivo infine denunzia l’illegittimità del decreto impugnato per non avere lo stesso riconosciuto gli esborsi sostenuti da parte ricorrente, quali le somme versate per l’iscrizione a ruolo dell’opposizione, le spese per il rilascio delle copie autentiche nonchè le spese vive sostenute per le trasferte da Napoli a Roma.

Il motivo in parte qua è inammissibile per difetto di specificità, avendo la parte genericamente riferito di spese vive non riconosciute, limitandosi apoditticamente a riferire che dagli atti emergerebbe che queste siano state sostenute dal difensore del ricorrente, senza però indicare in maniera puntuale da quali atti emerga l’effettiva dimostrazione del loro esborso e del relativo ammontare.

Del pari inammissibile è poi la doglianza in merito alla liquidazione dei compensi in base ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, con l’applicazione dei valori minimi diminuiti della metà, lamentandosi che non sarebbe giustificata la valutazione del giudice di merito circa il carattere elementare e ripetitivo delle questioni trattate, che legittimerebbe la liquidazione sulla base dei valori minimi.

A tal riguardo valga il richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte che, ancorchè con riferimento alla liquidazione degli onorari sulla scorta delle tabelle previgenti, ma con considerazioni chiaramente riferibili anche al sistema dei compensi di cui al citato D.M., ha affermato (cfr. Cass. n. 20289/2015) che trattasi di determinazione che costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, qualora sia contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede una specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità (conf. Cass. n. 22982/2013; Cass. n. 23677/2012).

5. Il ricorso deve pertanto essere rigettato ed in applicazione del principio della soccombenza, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

6. Tuttavia, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al T.U. approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 10 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2017

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