Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5499 del 18/02/2022

Cassazione civile sez. trib., 18/02/2022, (ud. 28/01/2022, dep. 18/02/2022), n.5499

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 29537/2015 R.G. proposto da:

Costruzioni AD s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Gabriele Escalar, presso

cui è elettivamente domiciliata in Roma al viale Giuseppe Mazzini

n. 11;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui ha domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 808/18/15 della Commissione tributaria

regionale del Veneto, pronunciata in data 17 aprile 2015, depositata

in data 11 maggio 2015 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 28 gennaio

2022 dal consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Costruzioni AD s.r.l. (di seguito Ad s.r.l.) ricorre con sette articolati motivi contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 808/18/15 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 17 aprile 2015, depositata in data 11 maggio 2015 e non notificata, che ha rigettato l’appello principale della contribuente e quello incidentale dell’Agenzia delle entrate, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa dell’avviso di accertamento per maggiore Ires, relativa all’anno di imposta 2006.

2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r. richiamava in fatto la descrizione della fattispecie contenuta nell’avviso di accertamento ed avente ad oggetto il contratto di prestito delle azioni (OMISSIS), concluso tra la AD s.r.l. e la DFD Czech (nel prosieguo DFD), che l’amministrazione finanziaria aveva considerato inopponibile al fisco, in quanto nullo perché privo di causa o con una causa contraria alla legge (ex artt. 1343 e 1344 c.c.).

Dalla motivazione dell’avviso di accertamento emergeva infatti, che l’Ufficio aveva contestato ad AD s.r.l. di aver stipulato tale contratto al solo fine di trarre un doppio vantaggio fiscale, consistente “…nella esclusione da tassazione, nella misura del 95%, dei dividendi incassati in base alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2” e nella “deducibilità integrale a titolo di costo dell’onorario versato alla controparte ai sensi delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109”.

La C.t.r., nel caso al suo esame e per quanto ancora di interesse, riteneva che non vi fosse la violazione degli obblighi del contraddittorio preventivo, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, dal momento che l’amministrazione finanziaria aveva emesso l’avviso di accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis; che non vi fosse stata alcuna violazione dei principi di correttezza ed imparzialità dell’azione amministrativa nella fase delle indagini svolte dall’ufficio centrale antifrode; che la riduzione dell’imponibile attraverso l’utilizzo di un contratto nullo non fosse opponibile all’amministrazione; che fosse irrilevante un eventuale errore nell’indicazione della società residente nelle isole Vergini in luogo di società residente negli Stati Uniti.

3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Il ricorso è stato fissato per la Camera di consiglio del 28 gennaio 2022, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u. c., e dell’art. 380-bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis e 41-bis, nonché della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.

In primo luogo, la ricorrente deduce che la C.t.r. avrebbe erroneamente ritenuto che l’avvenuta notifica del p.v.c. alla contribuente e la presentazione delle osservazioni da parte di quest’ultima avessero comportato l’assolvimento dell’obbligo del contraddittorio preventivo, previsto per la contestazione di fattispecie elusive D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis.

Inoltre, secondo la ricorrente, i giudici di appello avrebbero erroneamente ritenuto incompatibili le disposizioni dei citati artt. 37-bis e 41-bis, che invece opererebbero su piani diversi, l’una prevedendo l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria delle fattispecie elusive, l’altra disciplinando le modalità di esecuzione degli accertamenti cd. parziali.

Pertanto sarebbe del tutto inconferente l’affermazione della C.t.r., secondo cui l’accertamento era stato fatto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, e non ai sensi dell’art. 37-bis.

1.2. Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis, 39 e 42-bis, della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, degli artt. 1325,1343,1344,1344 e 1345 c.c., dell’art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.

Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente reputato che l’amministrazione finanziaria potesse ritenere inopponibili al fisco gli effetti di un contratto ritenuto nullo per frode o aggiramento degli obblighi tributari senza contestare l’elusione fiscale con il procedimento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

Invero, l’Ufficio non avrebbe potuto contestare la nullità del contratto posto in essere dalla ricorrente per assenza di causa ovvero per essere stato concluso in frode alla legge, invece di fare applicazione della norma antielusiva prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ex tempore vigente. Sarebbe, infatti, agevole rilevare che, laddove nell’ambito di un accertamento tributario sia allegata la sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 37- bis citato, per il principio secondo cui lex specialis derogat generali, è sempre tale disposizione che deve trovare applicazione. Ed infatti, tale norma, sarebbe speciale rispetto all’art. 1418 c.c., in quanto ha un campo di applicazione limitato alla materia delle imposte dirette e, per di più, alle sole operazioni ivi elencate.

La ricorrente richiama anche lo Statuto dei diritti dei contribuente, art. 10, il quale escluderebbe che la violazione e quindi, a maggior ragione, anche l’elusione di divieti di natura tributaria possa comportare la nullità dei contratti agli effetti civilistici.

Ciò evidentemente per la considerazione che la violazione od elusione di divieti di natura tributaria non può che trovare rilievo esclusivamente nell’ordinamento tributario.

Infine, la ricorrente sostiene che la norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, ed i relativi obblighi di contraddittorio preventivo devono sempre trovare applicazione ogniqualvolta sia contestata l’integrazione dei relativi presupposti di applicabilità. Diversamente, infatti, tale norma si porrebbe in aperto contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., in quanto legittimerebbe l’Ufficio a negare le garanzie così individuate, ricorrendo all’espediente di contestare la nullità dei negozi posti in essere dal contribuente. Con la conseguenza che, in tal caso, in palese violazione di tali principi, l’Ufficio sarebbe reso arbitro di decidere quali contribuenti possano beneficiare di tali garanzie e quali no, semplicemente articolando in maniera diversa la motivazione dell’avviso di accertamento.

In subordine, sul punto, la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37-bis, 39 e 41-bis, ove intesi nel senso in cui non obblighino l’Amministrazione finanziaria a rispettare il procedimento di cui ai commi 4 e 5 della prima di tali disposizioni nel contestare la nullità per frode alla legge di fatti, atti o negozi che rientrino in fattispecie elusive.

1.3. Con il terzo motivo, la società ricorrente denunzia la nullità della sentenza per la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 62, e degli artt. 112 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

In primo luogo, la ricorrente deduce che i giudici di secondo grado nulla avrebbero osservato in ordine al motivo di appello con cui la società aveva censurato la sentenza di primo grado per non aver rilevato la violazione degli obblighi di contraddittorio riconosciuti a tutti i contribuenti dall’Unione Europea ed, in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, par. 2, riconosciuti nelle sentenze della Corte di Giustizia (CGUE 3 luglio 2014, causa C129/13 e CC- 130/13 Kamino; in precedenza la sentenza 24 ottobre 1996, causa C-32/95 “Commissione c. Lisrestal e a.” punto 21 e nello stesso senso le sentenze 21 settembre 2000 causa C-462/98, “Mediocurso c. Commissione”, punto 36 e 12 dicembre 2002, causa C395/00, “Cipriani”, punto 51).

Inoltre, secondo la ricorrente, i giudici di appello avrebbero omesso di considerare che l’avviso di accertamento impugnato recava affermazioni del tutto contraddittorie, con l’illustrazione di tre diverse e distinte giustificazioni della propria pretesa.

Invero, con l’avviso di accertamento, l’Agenzia delle entrate ha affermato che l’operazione contestata sarebbe stata elusiva, perché posta in essere al solo fine di conseguire un duplice vantaggio fiscale; ha ritenuto, altresì, che il contratto di prestito delle azioni sarebbe stato nullo ed improduttivo di effetti avendo una causa contraria alla legge; infine, ha rilevato l’inesistenza dei dividendi distribuiti da (OMISSIS).

Tale contraddittorietà nella motivazione, rilevata dalla ricorrente e sulla quale il giudice di appello avrebbe omesso ogni motivazione, avrebbe comportato la nullità dell’atto di accertamento.

1.4. Con il quarto motivo, la società ricorrente denunzia la nullità della sentenza per la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.

La ricorrente deduce che la C.t.r. aveva stabilito che “per quanto riguarda l’illegittimità della sentenza per violazione del principio di imparzialità e dei principi di buona fede e collaborazione da parte dell’Amministrazione finanziaria”, non si poteva “ritenere che le indagini svolte a livello nazionale dall’Ufficio Centrale Antifrode, concernenti un fenomeno di carattere nazionale coinvolgente sostanzialmente gli stessi soggetti di cui alla presente causa, costituisca un giudizio già acquisito a tavolino prima ancora che iniziasse la verifica”.

Tale statuizione sarebbe affetta da un’ulteriore ed evidente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sancito dall’art. 112 c.p.c., in quanto la ricorrente, né con il ricorso introduttivo, né, tantomeno, con l’appello, aveva mai presentato un motivo di impugnazione con cui aveva fatto valere specificamente la nullità dell’avviso di accertamento impugnato per il solo fatto di essere stato emesso in violazione dei principi di imparzialità e buona fede sanciti dallo Statuto del contribuente, art. 10.

La sentenza oggetto del presente ricorso, pertanto, essendosi pronunciata su un motivo di impugnazione mai proposto dalla odierna ricorrente, sarebbe affetta sul punto da una evidente violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato nella sua specifica declinazione di ultrapetizione.

1.5. Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1345,1362,1367,1414,1418,1813,1815 e 1933 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, art. 62.

Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto che un contratto di prestito delle azioni che prevedesse una remunerazione variabile per il mutuante in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalle azioni oggetto di prestito configurava un negozio atipico a carattere aleatorio.

Ritiene la ricorrente che la sentenza impugnata merita di essere cassata in quanto erroneamente i giudici di appello hanno negato di poter sussumere il contratto di prestito di azioni concluso da AD s.r.l. nella tipologia del mutuo disciplinato dall’art. 1815 c.c., ritenendo che configurasse invece un contratto atipico aleatorio, per poi giudicarlo nullo per insussistenza della aleatorietà.

Secondo i giudici di appello, la circostanza che l’entità della retribuzione spettante a DFD per il prestito delle azioni variasse in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalla società le cui azioni erano oggetto di prestito e la circostanza che DFD possederebbe una “posizione di forza” rispetto ad AD s.r.l., sarebbero state sufficienti a mutare la natura del contratto medesimo, da negozio di mutuo, regolato dall’art. 1813 c.c. e ss., a contratto atipico a carattere aleatorio consistente in una “scommessa”.

Senonché, la ricorrente ritiene che la conclusione cui è giunta la C.t.r. sia assolutamente infondata in quanto i giudici avrebbero violato, non solo l’art. 1362 c.c., avendo interpretato il contratto di prestito delle azioni concluso tra AD s.r.l. e DFD in modo opposto rispetto alla comune intenzione delle parti contraenti desumibile dal tenore letterale delle clausole e dal comportamento delle stesse, ma anche l’art. 1815 c.c., avendo ritenuto che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.

Ciò in quanto non soltanto AD s.r.l. e DFD indubitabilmente avrebbero inteso concludere nient’altro che un contratto tipico di mutuo, ma anche e soprattutto perché quella che i giudici di merito asseriscono essere un “negozio aleatorio”, compresente rispetto al contratto di mutuo di azioni, altro non è se non la clausola di fissazione del corrispettivo a favore del mutuante, destinata a variare in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti in base alle azioni oggetto del prestito.

La ricorrente, inoltre, richiama l’indirizzo della Corte, secondo cui “quando come nel caso si utilizza un tipo normativo di accordo non è neppure ipotizzabile la nullità del contratto ex art. 1418 c.c.” (Cass., sez. I, 9 luglio 2003, n. 10789), ed il principio interpretativo di “conservazione del contratto”, contenuto nell’art. 1367 c.c., per il quale “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”.

In definitiva, secondo la ricorrente, un negozio non può essere considerato nullo per mancanza di causa o per causa contraria alla legge per il solo fatto che, non considerando i vantaggi fiscali, genererebbe una perdita economica per una delle parti, in quanto tale perdita economica può derivare da una retrocessione di vantaggi fiscali che il legislatore non solo non ha vietato, ma ha implicitamente od esplicitamente legittimato. L’esame della legittimità di tali vantaggi fiscali, quindi, deve necessariamente essere condotto alla luce della clausola antielusiva generale e secondo le modalità stabilite dal D.P.R. n. 600, art. 37-bis, e non richiamando impropriamente categorie civilistiche del tutto irrilevanti ai fini de quibus.

D’altro canto, la ricorrente rileva che a mente dell’art. 109 T.u.i.r., comma 5, i componenti negativi di reddito, sostenuti per l’acquisizione temporanea di azioni, sono in via di principio sempre deducibili, salvo eccezioni specificamente previste dalla disciplina vigente ratione temporis, quali quella del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 5-quinquies, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, che introduceva limiti solo per le minusvalenze realizzate mediante la cessione di azioni cum dividendo.

1.6. Con il sesto motivo, la ricorrente denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.

Secondo la ricorrente, la C.t.r. avrebbe omesso di considerare tutti gli elementi addotti dalla società dai quali si evinceva che DFD non era in grado di predeterminare l’ammontare dei dividendi distribuiti da (OMISSIS) (che vengono tutti dettagliatamente indicati in ricorso).

1.7. Con il settimo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, e del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e al D.Lgs. 31 dicembre 1992, art. 62.

La ricorrente deduce che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente escluso che gli oneri sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli sono in ogni caso deducibili dal reddito imponibile Ires del soggetto che li ha sostenuti.

Innanzitutto la ricorrente rileva che l’art. 109 T.u.i.r., comma 5, stabilendo che “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”, considera i componenti negativi di reddito come inerenti alla determinazione dell’imponibile Ires per il semplice fatto che si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione.

Tale presupposto, secondo la ricorrente, risulterebbe pienamente integrato nel caso di specie per il semplice fatto che la commissione è sostenuta per il prestito di azioni che sono produttive di proventi imponibili per il 5 per cento del relativo ammontare ed esclusi per il residuo 95 per cento. D’altro canto, nella L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, i commi 4 e 4-bis, confermerebbero la piena deducibilità dei costi derivanti da contratti illeciti. Tale art., comma 4, stabilendo che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 T.u.i.r., comma 1, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale” e che “i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”, chiarirebbe che anche i redditi derivanti da atti civilisticamente illeciti devono essere determinati secondo le regole previste per le categorie in cui siano riconducibili e quindi deducendo i relativi componenti negativi di reddito. Coerentemente, il successivo comma 4-bis, stabilendo nella formulazione pro tempore vigente che “nella determinazione dei redditi di cui art. 6 TUIR, comma 1… non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti” farebbe intendere a contrario che sono sempre ammessi in deduzione le spese riconducibili ad atti civilisticamente illeciti.

Rileva, inoltre, la contribuente che di questo avviso si era mostrata la stessa l’Agenzia delle Entrate nella circolare del 26 settembre 2005, n. 42/E.

Sebbene non sia in discussione, la contribuente richiama il consolidato orientamento della Corte di Giustizia in materia di esercizio al diritto della detrazione IVA, secondo cui un’operazione che integra gli elementi oggettivi di una cessione di beni rileva, agli effetti dell’applicazione dell’IVA, come tale quand’anche si tratti di un’operazione illecita in base al diritto dello Stato membro.

2.1. I motivi di ricorso, come sopra riepilogati, esaminati congiuntamente perché connessi, sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u. c..

La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca DFD, che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.

La giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass. n. 11872/2017, n. 20424/2020, n. 9628/2021, n. 8061/2021, n. 16145/2021, tutte relative a fattispecie analoghe alla presente) ha già chiarito, con ampia motivazione alla quale si rimanda, che il contratto di stock lending (cioè prestito di titoli) non è necessariamente un contratto elusivo, in frode alla legge o nullo per assenza di causa, in quanto, nella normalità delle ipotesi, ha una sua funzione economica e gestionale, identificabile nel consentire al soggetto che presta i titoli di conseguire la possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento e senza ostacolare in alcun modo le scelte operative.

Come evidenziato da autorevole dottrina, l’operazione, in genere, è sostanzialmente “neutrale” per il prestatario, che ottiene unicamente un vantaggio fiscale che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore, in quanto il contratto è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla sua conclusione sia che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti.

Nella specie, la Costruzioni AD s.r.l. ha sottoscritto con la DFD Czech (società Ceca, controllata da una società con sede ad Hong Kong) un contratto di prestito di azioni della (OMISSIS) (società unipersonale portoghese, con sede nella zona franca di Madeira, di proprietà della DFD Czech); la (OMISSIS) detiene una partecipazione azionaria, del valore di 90.000.000,00 di Euro, della Selected Capital Opportunity Ltd, avente sede nelle Isole Vergini britanniche.

A garanzia delle obbligazioni economiche scaturenti dal contratto, la AD s.r.l. ha depositato su un proprio conto corrente, acceso presso la Banca di Gestione Patrimoniale di Lugano (Svizzera, BGP d’ora in avanti) una somma non decrementabile; la proprietà delle azioni e’, temporaneamente, trasferita alla società AD s.r.l., ma questa ha rinunciato alla custodia dei titoli, i quali sono stati depositati dalla DFD, ad ulteriore garanzia dell’operazione, presso la ING TRUST di Hong Kong; i diritti economici pertinenti alle azioni sono trasferiti alla AD s.r.l., mentre quelli amministrativi sono rimasti in capo alla DFD. Sul punto è necessario precisare che DFD si è impegnata a non votare, senza l’approvazione scritta di AD s.r.l., nell’assemblea della (OMISSIS) la trasformazione, la fusione, la scissione o la liquidazione della società portoghese. Inoltre la DFD non può, contrattualmente, in sede di annuale approvazione del bilancio della (OMISSIS), che deliberare l’integrale distribuzione di tutti gli utili disponibili.

Il contratto tra le società prevede che, se la (OMISSIS) distribuisce dividendi inferiori ad Euro 110.000,00 (Euro 220.000,00 dal 2005), questi rimangono nelle mani di AD s.r.l. senza alcuna spesa; se, invece, la (OMISSIS) distribuisce dividendi per un ammontare uguale o superiore ad Euro 110,000,00 (Euro 220.000,00 dal 2005), questi, maggiorati di un importo uguale al 15,22% della cifra stessa (sino ad un massimo di Euro 173.000,00), saranno attribuiti alla DFD.

Dal punto di vista fiscale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 3, i dividendi percepiti dal mutuatario sono esenti da imposta sino al 95 per cento dell’ammontare, mentre l’eventuale commissione pagata alla DFD veniva integralmente dedotta dallo stesso decreto, ex art. 109.

La Commissione tributaria, con la decisione impugnata in questa sede, dopo aver rilevato che l’avviso di accertamento era stato emesso D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 41-bis, senza la necessità del contraddittorio preventivo di cui allo stesso D.P.R., art. 37-bis, nel valutare la complessiva operazione sopra descritta, ha affermato che con il contratto in esame la contribuente ha ottenuto l’indebito vantaggio fiscale dell’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla (OMISSIS) e la deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta.

Il giudice di appello, inoltre, ha ritenuto che questi vantaggi fiscali costituissero la vera causa del contratto sottoscritto, da considerarsi nullo per mancanza di causa, essendo, peraltro, privo di aleatorietà, inficiata dalla potestà della contraente DFD di organizzare e condurre le condizioni previste contrattualmente.

2.2. Date tali premesse, ritiene il collegio che la decisione della C.t.r. sia da confermare, sebbene la motivazione vada corretta, ex art. 384 c.p.c..

In primo luogo, deve rilevarsi che sfugge alla disponibilità delle parti e spetta al giudice la determinazione della norma in base alla quale si deve giudicare la singola fattispecie.

Nel caso in esame, appare evidente che le parti concordano sul contenuto degli accordi di prestito di azioni e dibattono solo la soluzione giuridica di riferimento, in ordine alla quale la Corte ritiene, come già argomentato nelle precedenti decisioni su analoghe questioni, che sia riscontrabile la contrarietà dell’operazione in esame al combinato disposto dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, e dell’art. 89T.u.i.r..

Invero, il fulcro della ripresa a tassazione può individuarsi nella contrarietà dell’operazione al combinato disposto dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, e dell’art. 89T.u.i.r., contrarietà sostanzialmente contestata alla contribuente con l’avviso di accertamento e riconosciuta dai giudici di appello nella sentenza impugnata.

In particolare, il giudice di appello, pur argomentando in ordine all’inopponibilità degli effetti del contratto nullo all’amministrazione finanziaria, individua come indebito vantaggio fiscale, posto a base dell’accertamento, quello derivante dall’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla (OMISSIS) e dalla contemporanea deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta.

Come si è detto, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, in casi del tutto analoghi a quello in esame, che risulta irrilevante ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, ovvero ad ipotesi elusive (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis), poiché l’operazione, da inquadrarsi nel contratto di stock/ending di cui si è detto, è piuttosto finalizzata a consentire l’applicazione ai dividendi del citato art. 89 T.u.i.r., con conseguente concorso alla formazione dell’imponibile nella sola misura del 5 per cento degli utili, ed a realizzare un indebito risparmio di imposta discendente dalla integrale deduzione dei costi di commissione, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, ratione temporis applicabile, con conseguente variazione dell’imponibile Ires, che costituisce l’autentico fondamento del recupero a tassazione.

Ciò in quanto la fattispecie in oggetto realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché anche il contratto di stock/ending è soggetto ai limiti previsti dall’art. 109 T.u.i.r., comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile” (Cass. n. 11872 del 2017; Cass. n. 20424 del 2020; Cass. n. 8061 del 2021 citata; Cass. n. 12508 del 2021).

Invero, l’art. 109 T.u.i.r., comma 5, prevede che “5. Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto di cui all’art. 96, commi 1, 2, 3…”.

Il successivo comma 8, poi, dispone: “8. In deroga al comma 5, non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89”.

L’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 109 T.u.i.r., citato comma 8, non configura una impropria estensione analogica del dettato della norma, che si riferisce letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, in quanto la disposizione non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).

Ne’ sembra fondata la considerazione avanzata da autorevole dottrina, che critica l’indeducibilità del cd. “manufactured dividend”, sostenendo che la sentenza n. 11872/2017 di questa Corte, che per prima ha ricondotto la fattispecie in esame alla violazione dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, avrebbe travisato le ragioni dell’indeducibilità del costo dell’usufrutto su partecipazioni, che non si collegherebbe alla percezione di dividendi esclusi da imposta, ma alla simmetrica intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto.

Tale argomento non pare sostenibile di fronte al dato testuale della norma, che equipara il “diritto di usufrutto” ad ogni “altro analogo diritto” e fa discendere l’indeducibilità del costo per l’acquisto del diritto al fatto che dalla partecipazione acquisita derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89 T.u.i.r..

Del resto, la considerazione sul senso della “simmetria fiscale”, che sarebbe stata infranta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prende le mosse dalla sentenza del 2017, non si adatta alla fattispecie in esame, perché, se è vera l’intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto, mediante lo strumento indiretto del prestito titoli con commissioni non vi potrebbe mai essere in radice qualsivoglia plusvalenza, non essendovi un contratto traslativo.

Anche la circostanza che il legislatore abbia introdotto nel tempo specifiche clausola antielusive per l’ipotesi, ad esempio, di dividend washing, nei contratti di pronti contro termine o nelle vendite di partecipazioni con patto di riacquisto, non contrasta con l’interpretazione normativa prospettata, ma significa soltanto che, a parte la clausola generale estensiva dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, si è voluta dare regolamentazione specifica a talune fattispecie di confine, altrimenti difficilmente qualificabili.

Non vi e’, dunque, motivo per discostarsi dalle precedenti pronunce di questa Corte già ampiamente citate; tuttavia deve riconoscersi che tale orientamento tende ad allontanarsi dal modello elusivo delineato dalla sentenza n. 40272 del 7 ottobre 2015 della Terza sezione penale della Cassazione, che escludeva la possibilità di ricadute penali in base alla L. 27 giugno 2000, n. 212, aggiunto art. 10-bis, cd. Statuto del contribuente, dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1 (che esclude espressamente che le operazioni che siano prive di sostanza economica e realizzino vantaggi fiscali indebiti possano dar luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie).

Per quanto fin qui detto il ricorso va complessivamente rigettato, essendo infondato il settimo motivo, sulla violazione dell’art. 109 T.u.i.r., ed inammissibili tutti gli altri, perché irrilevanti o non decisivi alla luce dell’interpretazione normativa adottata.

Invero, avendo ritenuto la diretta contrarietà della fattispecie in esame alle norme di cui all’art. 109 T.u.i.r., in tema di deducibilità degli oneri collegati all’acquisto temporaneo di partecipazione societarie i cui utili sono esclusi da tassazione ai sensi dell’art. 89 T.u.i.r., non ha alcun rilievo ogni questione (con particolare riferimento a quelle contenute nel quinto e sesto motivo di ricorso) attinente alla qualificazione del contratto da un punto di vista civilistico, nonché alla sua validità ed efficacia inter partes.

Inoltre, con particolare riferimento al sesto motivo di ricorso, se ne rileva un ulteriore profilo di inammissibilità, in quanto la nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazione nella L. 7 agosto 2012, n. 134, limita l’impugnazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per cui al di fuori di tale omissione, rimane estranea al vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 la censura di “contraddittorietà” della motivazione (Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940).

Nel caso di specie la ricorrente non indica il “fatto storico” controverso e decisivo che potrebbe condurre ad una diversa decisione, ma si limita a criticare il discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata, per cui la censura così come formulata non è inquadrabile nel paradigma del riformato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5

Neanche rileva che l’amministrazione non abbia seguito il procedimento richiesto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, per la contestazione al contribuente di fattispecie elusive (motivi primo, secondo ed, in parte, terzo), non essendo configurabile un’ipotesi di tale natura.

In particolare, pur concordando con l’osservazione della ricorrente (sviluppata nel primo e secondo motivo di ricorso), secondo cui le disposizioni dei citati artt. 37-bis e 41, operano su piani diversi, l’una prevedendo l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria delle fattispecie elusive, l’altra disciplinando le modalità di esecuzione degli accertamenti cd. parziali, ritiene il collegio che tale rilievo sia ininfluente nella fattispecie in esame, che, per quanto si è detto, non è riconducibile ad un caso di elusione fiscale.

Ne’, in tema di imposte dirette, si rinviene un principio generale che imponga il contraddittorio preventivo con il contribuente (come sostenuto dalla ricorrente nella prima parte del terzo motivo).

Invero, “in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito” (Cass. S.U. n. 24823 del 2015).

Anche la doglianza contenuta nella seconda parte del terzo motivo, formulata con riferimento all’omesso esame di un motivo di appello, è inammissibile ed infondata.

La ricorrente si duole del fatto che il giudice di seconde cure non abbia preso in esame il motivo di appello con cui la contribuente censurava la contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo, già dedotta come motivo di ricorso in primo grado.

Tuttavia, la C.t.r., rigettando tale doglianza, ha dato atto che l’avviso contestava alla contribuente il raggiungimento di un doppio beneficio fiscale contra legem (l’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla (OMISSIS) e la deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee); pertanto ha ritenuto che l’Agenzia delle entrate avesse considerato che il contratto era inopponibile all’amministrazione perché la sua causa principale ed effettiva (il conseguimento di indebiti vantaggi fiscali) era contraria alla normativa vigente.

La decisione appare in linea con quanto affermato da questa Corte, secondo cui i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione possono essere plurali ma, ovviamente, non in contrasto fra loro e la pretesa impositiva, per essere conforme a legge, può basarsi su elementi concorrenti, purché non vi siano presupposti fattuali contrastanti (vedi Cass. n. 25197 del 2009, richiamata in ricorso).

Infine il quarto motivo di ricorso, relativo all’ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza oggetto del presente ricorso, essendosi pronunciata su un motivo di impugnazione mai proposto dalla odierna ricorrente, risulta inammissibile, per carenza di interesse.

Pertanto, il ricorso è complessivamente infondato e va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2022

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