Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5495 del 18/02/2022

Cassazione civile sez. I, 18/02/2022, (ud. 12/01/2022, dep. 18/02/2022), n.5495

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 24801/2015 R.G. proposto da:

P.A., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Giulio

Cesare n. 14 A-4, presso lo studio dell’Avvocato Gabriele Pafundi,

che la rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato Bruno

Giampaoli, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

O.L., e O.S., elettivamente domiciliate in Roma, Via

Luigi Luciani n. 1, presso lo studio dell’Avvocato Daniele Manca

Bitti, rappresentate e difese dagli Avvocati Giovanna Paghera,

Michele Tursi, e Stefania Tursi, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

contro

B.A. e B.S., quali eredi di F.M.;

F.E., quale erede di S.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 360/2015 della Corte d’appello di Brescia,

pubblicata il 23/3/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/1/2022 dal Cons. Dott. Alberto Pazzi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Fallimento di (OMISSIS) s.p.a., dichiarato il 16 giugno 1970, citava in giudizio S.M., F.M. e P.A., che, nel cd. periodo sospetto, avevano acquistato dalla società poi fallita due locali commerciali contigui, adibiti a bar (locati a O.L. con contratto scadente il 30 ottobre 1971) e l’antistante area di parcheggio, chiedendo la revoca L. Fall., ex art. 67, delle vendite.

La procedura concorsuale trovava soluzione con l’omologa (con sentenza del 7 febbraio 1972) del concordato fallimentare, con cui veniva disposta la cessione all’assuntore Br.Ca. dell’azione revocatoria in precedenza introdotta dal fallimento.

Il giudizio, proseguito dal Br. con il successivo intervento delle sue aventi causa, O.L. e O.S. – cessionarie dei diritti nascenti dal vittorioso esperimento dell’azione – veniva definito con la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 347/1996 (passata in giudicato il 21 gennaio 1999, a seguito della pubblicazione della sentenza di questa Corte n. 532/99, di rigetto dei ricorsi proposti dalle parti per ottenerne la cassazione), che accoglieva la domanda revocatoria e dichiarava trasferita alle intervenienti la proprietà degli immobili che ne formavano oggetto.

2. Con atto di citazione del 15 novembre 2000 le signore O., rientrate nel possesso dei locali loro trasferiti con la predetta sentenza, convenivano in giudizio S.M., P.A. e B.S. e A. (questi ultimi nella qualità di eredi di F.M.), per sentirli condannare al risarcimento del danno da mancato godimento dei frutti percepiti e percipiendi sugli immobili dal 7 febbraio 1972 (data della sentenza di omologa del concordato fallimentare) al 30 giugno del 1999 (data in cui i beni erano stati loro restituiti).

3. Il Tribunale di Brescia, con sentenza del 13 novembre del 2006, accoglieva parzialmente la domanda: premesso che l’obbligo di restituzione dei frutti, per il periodo 7.2.1972/21.1.1999, traeva fondamento dall’art. 2036 c.c., e solo per il breve periodo successivo (22.1.99/30.6.99) dall’art. 2043 c.c., il giudice bresciano determinava in Euro 178.000 all’attualità l’ammontare dei frutti maturati e non percepiti dalle attrici e condannava i convenuti in solido al pagamento della predetta somma, maggiorata degli interessi legali dalla data della pronuncia.

4. La sentenza, appellata in via principale dalla sig.ra P. e dai sigg.ri B. e in via incidentale dalle sig.re O., è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Brescia, che ha liquidato la somma dovuta alle seconde a titolo di mancato godimento dei frutti civili degli immobili in Euro 144.392,50 oltre rivalutazione monetaria ed interessi sul capitale devalutato alla data del 7.2.1972 e via via rivalutato annualmente, previa detrazione dell’importo di Euro 179.706,85 già percepito dalle O. in data 26.3.2007.

La corte del merito – per quanto qui di interesse -: i) ha rilevato che gli appellanti non avevano sollevato censure sulla qualificazione giuridica dell’azione operata dal tribunale; ii) ha osservato che i frutti civili dovuti a seguito della revoca della vendita L. Fall., ex art. 67, hanno la funzione di corrispettivo del godimento della cosa e, nel caso di specie, dovevano essere liquidati con riferimento al valore figurativo del canone locativo di mercato degli immobili, da determinarsi in conformità delle conclusioni assunte dal C.T.U. nominato, iii) ha escluso che tale canone potesse essere computato al netto delle spese sostenute dagli appellanti principali, in assenza totale di elementi di prova; iv) ha ritenuto che la somma dovuta costituisse un debito di valore, come tale soggetto alla rivalutazione monetaria.

5. Per la cassazione di questa sentenza, pubblicata in data 23 marzo 2015, ha proposto ricorso P.A. prospettando nove motivi di doglianza; O.L. e S. hanno resistito con controricorso.

Gli intimati B.S. e B.A., quali eredi di F.M., ed F.E., quale erede di S.M., non hanno svolto difese.

Parte controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

6. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione delle norme sulla condictio indebiti: la corte d’appello, condividendo le affermazioni del tribunale, ha ritenuto che la condictio indebiti ob causam finitam configuri un indebito soggettivo ex latere accipientis, disciplinato dall’art. 2036 c.c., ma avrebbe omesso di accertare lo stato soggettivo, di buona o mala fede, dei percipienti.

7. Il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 112 c.p.c., per avere la corte di merito disposto la restituzione di tutti i frutti, percepiti e percipiendi, dalla data della percezione, malgrado le attrici/appellate non avessero dedotto, e tanto meno provato, la mala fede dei percipienti, violando così il principio secondo cui la decisione deve essere assunta iuxta alligata et probata partium.

8. Il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dallo stato soggettivo dei percipienti, incidente sul quantum delle restituzioni.

9. Il quarto motivo assume la nullità della sentenza, per violazione dell’art. 164 c.p.c. (rectius art. 132), comma 2, n. 4, in quanto la mancanza di una motivazione sullo stato psicologico dei percipienti priverebbe la sentenza impugnata dell’esposizione della ragione giuridica supportante la restituzione disposta dalla corte di merito.

Vi sarebbe inoltre – a dire della ricorrente – un’evidente inconciliabilità fra le due affermazioni del giudice d’appello che individuano la ratio della decisione l’una nel disposto dell’art. 1148 c.c., l’altra nell’art. 2036 c.c..

10. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della loro parziale sovrapponibilità, sono inammissibili.

10.1 La sentenza impugnata non fa il minimo accenno alla questione inerente lo stato soggettivo – di buona o mala fede – dei percipienti, (la sentenza anzi registra, a pag. 15 che costoro non avevano sollevato censure sulla qualificazione giuridica della domanda effettuata dal tribunale – a parere del quale “l’obbligo di restituzione dei frutti dalla domanda di revocatoria sino al passaggio in giudicato della sentenza (del 21.1.1999) traeva fondamento dall’art. 2036 c.c., comma 2, avendo altrimenti un indebito vantaggio il debitore negligente in danno del creditore, e che invece, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dell’art. 2043 c.c., trattandosi di detenzione sine titulo”); l’odierna ricorrente, d’altro canto, non chiarisce se, e in qual modo, la questione sia stata prospettata in sede d’appello (né, tantomeno, deduce di aver proposto uno specifico motivo di gravame volto a lamentare l’errata applicazione da parte del primo giudice dell’art. 2036 c.c., comma 2, per aver disposto la restituzione dei frutti a partire dalla data della sentenza di omologazione del concordato (7.2.1972) anziché da quella della domanda (15.11.2000), che la corte del merito non avrebbe esaminato).

Trova perciò applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 6089/2018, Cass. 23675/2013).

10.2 Quanto al dedotto vizio di contraddittorietà della motivazione, è sufficiente rilevare che la prima delle due affermazioni in asserito contrasto (l’avere il tribunale applicato l’art. 1148 c.c., ovvero una norma che, disciplinando l’obbligo di restituzione del possessore di buona fede, risulterebbe inconciliabile con la condanna ex art. 2036 c.c., comma 2, alla ripetizione dei frutti dal giorno della loro percezione) è contenuta (come riferisce la stessa ricorrente) in un atto di parte (comparsa di risposta in appello) e non all’interno della sentenza impugnata.

11. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1149 e 2697 c.c., in quanto la corte distrettuale ha ritenuto che la restituzione dovesse riguardare i frutti lordi e non quelli netti, senza quindi alcuna deduzione dei costi sostenuti dai percipienti analiticamente indicati dal C.T.U., malgrado il possessore tenuto a restituire i frutti indebitamente percepiti abbia diritto – a mente dell’art. 1149 c.c. – al rimborso delle spese.

La ricorrente rappresenta come il consulente nominato dalla corte distrettuale avesse quantificato i costi da dedurre, facendo richiamo a principi generali di estimo e individuando una soluzione “equa e di mercato”, riporta il dato testuale della relazione peritale e lamenta l’omesso esame delle risultanze di tale atto.

12. Va precisato, in via preliminare, che non può essere accolta l’eccezione di inammissibilità del motivo sollevata dalle controricorrenti sul rilievo che la questione inerente la deducibilità delle spese era stata sollevata per la prima volta in appello e costituiva domanda (rectius: eccezione) nuova, inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c.: la corte d’appello, infatti, ha esaminato l’eccezione, respingendola nel merito, sicché le O., parti vittoriose nel grado, ma soccombenti sulla questione pregiudiziale di rito, avrebbero dovuto proporre sul punto ricorso incidentale condizionato.

12.1 Ciò premesso, il motivo, che va riqualificato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto sostanzialmente volto a lamentare l’omesso esame di un fatto decisivo, è fondato e deve essere accolto.

12.2 La corte di merito ha escluso il diritto dei percipienti (loro riconosciuto dall’art. 1149 c.c.) ad ottenere il rimborso delle spese sostenute per gli immobili “per l’assenza totale di elementi di prova in causa” (pag. 22), senza tenere in alcun conto il contenuto della consulenza tecnica espletata in grado d’appello, che aveva quantificato dette spese, sulla scorta di specifici criteri di estimo, nella misura del 40% del canone lordo ricavabile dalla locazione dei beni.

Sussiste, quindi, il vizio di motivazione dedotto, giacché la corte distrettuale, a fronte della risposta data dal CTU a un quesito che essa stessa gli aveva posto, non poteva escludere la presenza di elementi di prova in causa, ma avrebbe dovuto chiarire i motivi per i quali non aveva ritenuto condivisibili le conclusioni del tecnico nominato, ovvero spiegare perché le spese – non ripetibili da un ipotetico locatario degli immobili (ad es. quelle di manutenzione straordinaria o per versamento di imposte) – indubitabilmente sostenute dagli appellanti nell’arco del quasi trentennio occorso a definire il giudizio di revocatoria, non potevano a suo giudizio essere quantificate in via forfetaria, secondo la metodologia prevista per casi analoghi da specifiche tabelle estimatorie.

13. Il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 2901 c.c. e L. Fall., art. 67, in quanto la corte distrettuale ha affermato che l’azione revocatoria ha natura risarcitoria, e che la sua funzione è remuneratoria del danno causato dall’atto revocato, malgrado la giurisprudenza di legittimità sia ferma nel ritenere che essa abbia effetti meramente restitutori.

14. Il settimo motivo denuncia ulteriore violazione dell’art. 2901 c.c. e L. Fall., art. 67, perché il giudice d’appello ha qualificato l’obbligo restitutorio debito di valore, anziché di valuta, ed ha erroneamente ritenuto che l’importo liquidato in favore delle controparti dovesse essere rivalutato.

15. I motivi, che sono fra loro connessi e possono essere congiuntamente esaminati, sono fondati nei termini che di seguito si espongono.

15.1 Va in primo luogo rilevato che la sentenza, pur non avendo espressamente affermato che l’azione L. Fall., ex art. 67, ha natura risarcitoria, si fonda su tale implicita premessa, in quanto ha qualificato come debito di valore la somma liquidata a seguito del vittorioso esperimento dell’azione.

15.2 Costituisce, per contro, orientamento ormai consolidato di questa Corte, che il collegio pienamente condivide ed intende qui ribadire, che l’obbligazione restitutoria dell’accipiens, rimasto soccombente rispetto alla domanda L. Fall., ex art. 67, svolta nei suoi confronti, ha natura di debito di valuta e non di valore (si vedano in questo senso, ex multis, Cass. 12850/2018, Cass. 6575/2018, Cass. 27084/2011, Cass. 12736/2011, Cass. 6538/2010, Cass. 6991/2007).

Vero è che le pronunce appena citate si riferiscono all’obbligo di restituzione del bene fuoriuscito dal patrimonio del fallito per effetto dell’atto dichiarato inefficace (bene costituito, nella specie, dagli immobili oggetto delle compravendite revocate) e non anche alle obbligazioni accessorie (quale quella di rimborso dei frutti indebitamente percepiti) eventualmente sorte in capo ai soccombenti a seguito dall’accoglimento della domanda: pare tuttavia evidente che a queste ultime non può essere attribuita natura diversa da quella dell’obbligazione principale.

Peraltro, analoga natura, di debito di valuta, indipendentemente dalla buona o mala fede dell’accipiens, ha anche l’obbligo di restituzione dei frutti civili costituenti il corrispettivo del godimento della cosa (Cass. 5776/2006, Cass. 3466/2010, Cass. 21906/2021).

15.3 Diversa questione è quella dell’eventuale diritto della parte vittoriosa ad ottenere il risarcimento del maggior danno per il ritardo nel pagamento.

Tale danno va specificamente domandato, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, ed allegato (nonché dimostrato) ove sia richiesto in misura superiore a quella presuntivamente identificabile nell’eventuale differenza intercorsa, durante la mora, fra il tasso di rendimento medio dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi ed il tasso degli interessi legali (Cass., Sez. U., 19499/2008).

15.4 La portata dei principi appena illustrati opera, tuttavia, nei limiti del giudicato e dunque per il periodo (dall’introduzione dell’azione revocatoria sino al passaggio in giudicato della relativa sentenza) rispetto al quale l’obbligo di restituzione dei frutti ha tratto fondamento – secondo la valutazione del primo giudice, che non è stata oggetto di impugnazione – nell’art. 2036 c.c., comma 2; rispetto al periodo successivo al passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento dell’azione revocatoria opera, invece, la disciplina propria dei debiti di valore, in ragione del definitivo accertamento del fatto che l’obbligo di restituzione dei frutti si fonda sull’art. 2043 c.c., trattandosi di detenzione sine titulo.

15.5 Dalla lettura della sentenza non è dato comprendere se l’importo di Euro 144.392,50 sia stato determinato dal ctu già all’attualità (e se pertanto il giudice d’appello sia incorso nel marchiano errore di riconoscere la rivalutazione su una somma già rivalutata); quel che è certo è che la corte del merito ha errato laddove ha quantificato il debito restitutorio in un unicum indistinto, non tenendo conto che dal 7.2.1972, e sino al 21.1.1999, secondo il principio nominalistico applicabile alle obbligazioni di valuta, i frutti civili (i canoni ricavabili dalla locazione degli immobili) andavano liquidati al valore della moneta nell’anno in cui erano maturati e maggiorati dei soli interessi legali (salvo il diritto delle O. al risarcimento del maggior danno da ritardo, se domandato), potendosi riconoscere la rivalutazione unicamente sui canoni percepibili dal 22.1.1999 al 30.6.1999.

16. L’ottavo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e discusso fra le parti, in quanto la corte di merito, parametrando il debito restitutorio ai frutti percipiendi, avrebbe trascurato di considerare che nel periodo ottobre 1971/aprile 1981, v’era prova dei frutti percepiti, atteso che con sentenza n. 1228/82 passata in giudicato, il Tribunale di Brescia aveva condannato O.L. a pagare ad essa ricorrente ed alle altre parti convenute in revocatoria la somma di Euro 7.746 per l’occupazione sine titulo dei locali adibiti a bar.

17. Il motivo è assorbito dall’accoglimento di quelli che lo precedono, spettando al giudice del rinvio, tenuto a rideterminare l’ammontare del debito restitutorio controverso, di valutare se, a tal fine, possa o meno tenersi conto dei fatti dedotti e provati nel giudizio già definito con la sentenza passata in giudicato.

18. Il nono motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2909 c.c., in quanto la corte di merito ha recepito le conclusioni del C.T.U. in ordine all’entità dei canoni che un locatore diligente avrebbe potuto percepire non tenendo conto del giudicato esterno, costituito dalla citata sentenza n. 1228/1982 del Tribunale di Brescia, che aveva quantificato in Lire 15.000.000 la somma dovuta per l’occupazione del medesimo immobile da fine ottobre 1971 ad aprile 1981.

19. Il motivo è infondato.

19.1 La sentenza impugnata dà atto (a pag. 6) che il Tribunale di Brescia (con sentenza n. 1228/1992) ha condannato O.L., conduttrice del bar oggetto dell’azione revocatoria, a pagare a S.M., F.M. e P.A. la somma di Lire 15.000.000 a titolo di risarcimento danni da illegittima occupazione dell’immobile dal 30 ottobre 1971 all’aprile 1981.

La condanna è stata dunque pronunciata a ristoro dei danni provocati dal conduttore per la mora nella restituzione della cosa, ex art. 1591 c.c..

19.2 Ora, affinché il giudicato sostanziale formatosi in un giudizio operi all’interno di altro instaurato successivamente, è necessario che tra la precedente causa e quella in atto vi sia, oltre che identità di parti e di petitum, anche di causa petendi, ai fini della cui individuazione rilevano non tanto le ragioni giuridiche enunciate dalla parte a fondamento della pretesa avanzata in giudizio, bensì l’insieme delle circostanze di fatto che la parte stessa pone a base della propria richiesta, essendo compito precipuo del giudice la corretta identificazione degli effetti giuridici scaturenti dai fatti dedotti in causa (Cass. 16688/2018; nello stesso senso Cass. 15817/2021).

La presente lite differisce da quella risolta dal Tribunale di Brescia con sentenza n. 1228/1982 per parti, petitum e causa petendi, alla luce dei fatti addotti a fondamento della pretesa.

In questa lite, infatti, non è coinvolta solo O.L., ma anche O.S. (entrambe quali aventi causa da Br.Ca.).

Inoltre, la sentenza qui impugnata accerta l’esistenza di un giudicato interno in merito all’esistenza di un obbligo di restituzione dei frutti dalla domanda di revocatoria sino al passaggio in giudicato della relativa sentenza, in virtù del disposto dell’art. 2036 c.c., comma 2, e, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dell’art. 2043 c.c., mentre la sentenza del Tribunale di Brescia n. 1228/1982 accerta una responsabilità contrattuale per il ritardo nella riconsegna dell’immobile locato ex art. 1591 c.c..

Neppure i fatti allegati dalle parti a suffragio della domanda coincidono, perché mentre in questo giudizio è stato dedotto il mancato godimento dei frutti percepiti sugli immobili interessati dalla precedente azione revocatoria e restituiti soltanto in data 30 giugno 1999, con la sentenza n. 1228/1982 era stata dedotta l’illegittimità dell’occupazione della conduttrice una volta che il contratto di locazione era giunto a scadenza.

Non è possibile, quindi, riconoscere in questa sede efficacia di giudicato esterno alla sentenza n. 1228/1982 del Tribunale di Brescia.

20. All’accoglimento del quinto, del sesto e del settimo motivo di ricorso conseguono la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Corte d’appello di Brescia in diversa composizione, la quale, nel procedere a nuovo esame, si atterrà ai principi enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto, il sesto e il settimo motivo di ricorso, assorbito l’ottavo, e rigetta nel resto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2022

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