Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5452 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/02/2020, (ud. 17/10/2019, dep. 28/02/2020), n.5452

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7624-2018 proposto da:

ASSIMOCO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A, presso lo

studio dell’avvocato MARCO ANNECCHINO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

G.R., GU.EL., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO SAVARESE,

che le rappresenta e difende;

– controricorrenti –

contro

S.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 7275/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO

MARIA CIRILLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. In data (OMISSIS) si verificò in (OMISSIS), un tragico incidente stradale consistente nello scontro frontale tra una vettura Opel condotta da G.G. ed un fuoristrada condotto da S.G., a causa del quale il G. rimase ucciso.

A seguito di ciò la madre della vittima, M.A., in proprio e quale erede del defunto marito Go.Ri., e la sorella della vittima, G.R., in proprio e quale rappresentante della figlia minore Gu.El., convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, il S. e l’Assimoco s.p.a., chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del loro congiunto.

Si costituirono in giudizio entrambi i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda.

Il Tribunale rigettò la domanda e compensò le spese di lite.

2. La pronuncia è stata impugnata da G.R. in via principale (la M. era morta nel corso del giudizio di primo grado) e dalla società di assicurazione in via incidentale (in punto di spese) e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 17 novembre 2017, in riforma della decisione di primo grado, ha fatto applicazione della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, ed ha condannato il S. e l’Assimoco s.p.a., in solido, al risarcimento dei danni liquidati in misura di Euro 120.000 per ciascuno dei genitori della vittima, nonchè di Euro 50.000 ciascuna in favore di G.R. e di Gu.El., con il carico del cinquanta per cento delle spese dei due gradi di giudizio, compensate quanto all’altra metà, rigettando l’appello incidentale della società di assicurazione.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma ricorre l’Assimoco s.p.a. con atto affidato a quattro motivi.

G.R. e S.G. hanno svolto attività difensiva in questa sede, con un controricorso notificato tardivamente.

A seguito di trattazione nella camera di consiglio dell’11 luglio 2019, l’esame del ricorso è stato rinviato a nuovo ruolo, con ordinanza interlocutoria del 1 agosto 2019, per un vizio relativo alla notifica dell’avviso della camera di consiglio nei confronti dei controricorrenti costituiti.

Dopo di che, il ricorso è stato fissato di nuovo per la camera di consiglio odierna, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate ulteriori memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nullità della sentenza per illogicità manifesta e insanabile della motivazione, in riferimento all’art. 132 c.p.c., n. 4); con il secondo motivo si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), errore percettivo e violazione dell’art. 115 c.p.c., nonchè, in subordine, nullità della sentenza per illogicità manifesta e insanabile della motivazione, in riferimento all’art. 132, c.p.c., n. 4).

Sostiene la società ricorrente che la sentenza impugnata, non ritenendo affidabile la deposizione dell’unico testimone presente sul luogo del sinistro, avrebbe reso una motivazione contraddittoria al di sotto della soglia del “minimo costituzionale”, da ritenere perciò nulla.

2. I due motivi, da trattare congiuntamente in quanto tra loro strettamente connessi, sono, quando non inammissibili, comunque privi di fondamento.

La giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni ribadito che in materia di responsabilità da sinistri derivanti dalla circolazione stradale, la ricostruzione delle modalità del fatto generatore del danno, la valutazione della condotta dei singoli soggetti che vi sono coinvolti, l’accertamento e la graduazione della colpa, l’esistenza o l’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, integrano altrettanti giudizi di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità se il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico (v., tra le altre, le sentenze 23 febbraio 2006, n. 4009, 25 gennaio 2012, n. 1028 nonchè l’ordinanza 22 settembre 2017, n. 22205).

Nella specie la Corte d’appello, dopo aver premesso che il materiale probatorio a disposizione non consentiva un’esatta ricostruzione della dinamica del sinistro, ha osservato che entrambi i conducenti avevano tenuto una velocità spropositata rispetto alla situazione della strada ed ha illustrato con chiarezza le ragioni per le quali ha ritenuto di non attribuire credibilità alla deposizione del teste Pelliccioni, raccolta dalla Polizia municipale intervenuta sul posto, deposizione alla quale il Tribunale, invece, aveva dato valenza decisiva.

Nella motivazione la Corte romana ha fondato questa valutazione su tre elementi: la mancanza di giustificazione della presenza del teste sul luogo del sinistro, posto che la Polizia municipale era intervenuta circa un’ora e mezza dopo l’incidente; il fatto che tale dichiarazione era poco circostanziata, perchè il teste non aveva spiegato a quale distanza egli viaggiasse rispetto alla Opel della vittima, dato importante attesa la presenza di un dosso che influiva sulla visibilità; ed infine la circostanza, risultante dalle foto e dalla perizia di parte, in base alla quale i detriti della Opel si trovavano nella corsia di marcia della medesima, il che era in contrasto con quanto affermato dal teste (secondo cui la Opel aveva sbandato portandosi contromano ed invadendo l’altrui corsia di marcia).

Si tratta, come facilmente si può cogliere, di una motivazione che considera sia il teatro del sinistro, sia la velocità (ritenuta del tutto eccessiva) di entrambi i veicoli, sia le ragioni per le quali non è stata attribuita credibilità all’unico teste, pervenendo in tal modo alla conclusione di dover necessariamente fare applicazione della presunzione di pari responsabilità.

A fronte di simile ricostruzione, i motivi di ricorso qui in esame, che si risolvono entrambi in una censura di vizio di motivazione, oltre a tendere in modo palese ad ottenere in questa sede un nuovo e non consentito esame del merito, sono privi di fondamento nella parte in cui giungono ad ipotizzare una motivazione così contraddittoria da tradursi in nullità della sentenza. Mentre è evidente, sulla base di quanto detto, che le argomentazioni della Corte sono logiche e dimostrano di superare ampiamente la soglia di quel minimo costituzionale cui la giurisprudenza di questa Corte ha fatto riferimento a proposito del vizio di motivazione (sentenza 7 aprile 2014, n. 8053), è chiaro che a questa Corte è interdetto ogni accertamento in punto di fatto che porti ad un riesame delle prove (significativo è che i motivi in esame richiamino, a sostegno, addirittura quanto risulta dalle fotografie scattate sul luogo del sinistro).

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), violazione dell’art. 1223 c.c., e nullità della sentenza per manifesta illogicità della motivazione.

La censura ha ad oggetto la liquidazione del danno in favore dei genitori della vittima – a loro volta deceduti entrambi nel corso del giudizio – sostenendo che sarebbe errata la liquidazione della stessa somma per entrambi, essendo morti il padre dopo un anno e la madre cinque anni dopo la morte del figlio, e che la somma sarebbe comunque eccessiva in rapporto alle tabelle di Milano applicate dalla Corte romana.

3.1. Il motivo non è fondato.

Osserva la Corte, innanzitutto, che la stessa società ricorrente riconosce che l’entità della somma liquidata è compresa tra il minimo ed il massimo previsto dalle suindicate tabelle. Ciò posto, è innegabile, come sostiene la parte ricorrente nella memoria, che la diversità dei momenti della morte dei due genitori cristallizza in modo certo la durata dei periodi di tempo (differenti) nei quali questi ultimi hanno vissuto sopportando il dolore per la perdita del figlio. Pur tuttavia, la Corte d’appello ha dato ragione della propria decisione rilevando che la breve sopravvivenza dei genitori al figlio aveva determinato un pregiudizio sofferto “per un tempo contenuto”; il che, tra l’altro, non consente di affermare che sussista l’omesso esame di un fatto decisivo, posto che la Corte d’appello dimostra di avere comunque tenuto presente questo elemento (v. sentenza a p. 5). Ragione per cui, in definitiva, la scelta di liquidare la medesima somma per entrambi i defunti genitori e la decisione di fissare tale liquidazione ad una certa soglia appartengono comunque ad una sfera discrezionale del giudice di merito che non è sindacabile in questa sede e che non viola l’art. 1223 c.c., posto che la diversa durata della vita residua è rimasta contenuta in un margine molto limitato.

4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione degli artt. 1223 e 2059 c.c., oltre a nullità della sentenza per totale mancanza di motivazione.

La censura ha ad oggetto il riconoscimento di un risarcimento nella misura di Euro 50.000 in favore di Gu.El., nipote della vittima per parte della sorella. Secondo la società ricorrente, simile risarcimento potrebbe essere riconosciuto solo in presenza di una prova in ordine all’esistenza di un vincolo affettivo, e ciò data la parentela non prossima esistente tra il defunto e sua nipote. La sentenza nulla avrebbe detto sul punto, per cui in mancanza di ogni prova, quella domanda avrebbe dovuto essere rigettata.

4.1. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello ha correttamente richiamato l’insegnamento di questa Corte secondo cui il fatto illecito costituito dalla uccisione del congiunto dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorchè colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Perchè, invece, possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero o la nuora), è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonchè la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno (sentenza 16 marzo 2012, n. 4253).

Tale principio è stato sostanzialmente ribadito anche in seguito, sia pure con la precisazione che la prova del danno non deve necessariamente essere collegata al dato della convivenza (sentenza 20 ottobre 2016, n. 21230); ma comunque, l’insegnamento di questa Corte è nel senso che, rispetto ai nipoti, il diritto al risarcimento deve fondarsi sulla prova positiva dell’esistenza di un vincolo affettivo, prova che è invece presunta per i familiari legati alla vittima da uno stretto legame di parentela (genitori, coniuge, figli o fratelli; v. la sentenza 14 giugno 2016, n. 12146, e l’ordinanza 15 febbraio 2018, n. 3767).

Pur partendo, appunto, da una corretta premessa, la Corte d’appello non ne ha tratto le giuste conseguenze, perchè nulla ha detto in ordine alle ragioni per la quali la nipote del defunto avesse diritto al risarcimento del danno; l’unica affermazione sul punto è che a G.R. doveva essere riconosciuto il risarcimento “anche quale legale rappresentante della figlia (unica nipote del deceduto)”. Ma, anche volendo prescindere dal fatto che non è dato sapere se la nipote fosse nel frattempo divenuta o meno maggiorenne, resta il fatto che la sentenza manca radicalmente di ogni motivazione sul punto, posto che anche il risarcimento al legale rappresentante presuppone che il diritto sussista in capo al rappresentato.

La proposta censura, quindi, coglie nel segno.

5. In conclusione, sono rigettati i primi tre motivi di ricorso, mentre è accolto il quarto.

La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione personale, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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