Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5451 del 10/03/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 5451 Anno 2014
Presidente: FINOCCHIARO MARIO
Relatore: AMENDOLA ADELAIDE

ORDINANZA
sul ricorso 4184-2012 proposto da:
NAPOLITANO

COSTANTINO

NPLCTN68P071054E,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI PIETRALATA 320,
presso lo studio dell’avvocato MAZZA RICCI GIGLIOLA,
rappresentato e difeso dagli avvocati MONACO FRANCESCO,
RUTIGLIANO RAFFAELE, giusta mandato a margine del ricorso;
– ricorrente Contro
AZIENDA DI SERVIZI ALLA PERSONA “VINCENZO
ZACCAGNINO” in persona del Presidente del Consiglio di
Amministrazione, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
TRIPOLITANIA 115, presso lo studio dell’avvocato MARTINI
ADRIANA, rappresentata e difesa dall’avvocato DE ROSSI GUIDO,

Data pubblicazione: 10/03/2014

giusta Delibera del C.d.A. n. 6 del 20.2.2012 e Determina dirigenziale
n. 6 del 21.2.2012 e giusta mandato in calce al controricorso;

controricorrente

avverso la sentenza n. 35/2011 della CORTE D’APPELLO di BARI,

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
12/02/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ADELAIDE
AMENDOLA.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA
DECISIONE
È stata depositata in cancelleria la seguente relazione, regolarmente
comunicata al P.G. e notificata ai difensori delle parti.
“Il relatore, cons. Adelaide Amendola
esaminati gli atti,
osserva:

1. Con ricorso depositato il 13 settembre 2000 la Fondazione dott.
Vincenzo Zaccagnino convenne innanzi al Tribunale di Lucera, sez.
spec. agraria, Costantino Napolitano, chiedendo l’accertamento che il
contratto di affitto agrario a suo tempo stipulato con il dante causa
dello stesso, era scaduto il 10 novembre 1997, con conseguente
condanna dell’affittuario alla restituzione del predio.
Il convenuto, costituitosi in giudizio, contestò le avverse pretese.
Domandò, in via riconvenzionale, che la controparte venisse
condannata al pagamento della indennità per i miglioramenti apportati
al fondo nonché alla restituzione delle somme pagate in più rispetto al
canone legale.

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depositata il 03/02/2011;

2. Con sentenza non definitiva del 22 settembre 2002 il giudice adito
dichiarò cessato il contratto di affitto al 6 maggio 1997; condannò il
Napolitano al rilascio del fondo; dichiarò improcedibile la domanda di
risarcimento dei danni; rigettò la riconvenzionale volta ad ottenere il
pagamento delle migliorie, mentre dispose la prosecuzione del giudizio

indebitamente corrisposte.
All’udienza del 12 novembre 2003, avendo la ricorrente dichiarato che
il Consiglio di Amministrazione della Fondazione aveva deciso di
accettare le proposte transattive avanzate dalla controparte, la causa
venne rinviata per la formalizzazione della conciliazione giudiziale al 10
dicembre 2003.
In tale data intervenne tuttavia in giudizio il rappresentante della
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lucera che, sull’assunto
che erano in corso indagini in relazione a un presunto voto di scambio
relativo alla vicenda dei c.d. “tretasettists”, e cioè degli affittuari, chiese,
ed ottenne, la sospensione del processo.
Con ricorso in riassunzione depositato il 12 febbraio 2007 la
Fondazione Zaccagnino, in persona del Commissario straordinario, si
attivò per la prosecuzione del giudizio, deducendo che, archiviato il
procedimento penale, era venuta meno la causa di sospensione.
Affermò anche che il nuovo organo gestorio dell’Ente aveva revocato
le delibere del Consiglio di amministrazione con le quali erano state
accettate le proposte transattive degli affittuari, conseguentemente
instando per la defmizione dei giudizi pendenti.
Il Napolitano, costituitosi, eccepì che la delibera di revoca era nulla,
perché intervenuta a contratto di transazione già concluso. Chiese,
pertanto, la declaratoria di cessazione della materia del contendere
nonché la condanna della Procura della Repubblica al pagamento delle
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per la decisione di quella di restituzione delle somme, in tesi,

spese di causa, ovvero della Fondazione, ove non avesse aderito alla
già perfezionata transazione.
2. Con sentenza dell’H giugno/17 ottobre 2008 il giudice adito,
ritenuto che nessuna transazione era stata validamente conclusa tra le
parti; disattesa l’eccezione di nullità delle delibera di revoca, potendo la

affermato, conseguentemente, che la materia del contendere non era
cessata, rigettò la domanda di ripetizione dei canoni pretesamente
pagati in eccesso, avanzata in via riconvenzionale dal convenuto.
Proposto gravame dal Napolitano, la Corte d’appello di Bari, in data 3
febbraio 2011, lo ha respinto.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte Costantino
Napolitano, formulando tre motivi.
Resiste con controricorso l’Azienda di Servizi alla Persona Vincenzo
Zaccagni.
3. Il ricorso è soggetto, in ragione della data della sentenza impugnata,
successiva al 4 luglio 2009, alla disciplina dettata dall’art. 360 bis,
inserito dall’art. 47, comma 1, lett. a) della legge 18 giugno 2009, n. 69.
Esso può pertanto essere trattato in camera di consiglio, in
applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ. per esservi
rigettato.
Queste le ragioni.
4. Con il primo motivo l’impugnante denuncia violazione degli artt. 88
cod. proc. civ., 3, 24 e 111 della Costituzione, ex art. 360, n. 3, cod.
proc. civ.
Con argomentazioni per vero alquanto confuse, l’esponente contesta
l’affermazione del giudice di merito secondo cui non poteva dichiararsi
cessata la materia del contendere, non essendo mai stata sottoscritta la
conciliazione giudiziale.
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stessa essere impugnata solo dal P.M. o dall’autorità governativa;

Sostiene per contro l’esponente che la cessazione della materia del
contendere si era già verificata nel momento in cui le parti avevano
manifestato esplicitamente la volontà di transigere, di talché nessuna
rilevanza poteva avere che il relativo atto non fosse mai stato firmato,
evenienza dovuta esclusivamente all’intervento in causa della Procura

alle parti di modificare ad libitum, in danno della controparte, la volontà
già espressa nel processo, in spregio ai doveri di lealtà e probità sanciti
dall’art. 88 cod. proc. civ.

5. Le censure sono infondate.
La cessazione della materia del contendere, quale evento preclusivo
della pronunzia giudiziale, può configurarsi solo quando, nel corso del
processo, sopravvenga una situazione che elimini completamente e in
tutti i suoi aspetti la posizione di contrasto tra i litiganti, facendo in tal
modo venir meno la necessità di una decisione sulla domanda quale
originariamente proposta in giudizio ed escludendo sotto ogni profilo
l’interesse delle parti ad ottenere l’accertamento, positivo o negativo,
del diritto, o di alcuno dei diritti inizialmente dedotti in causa. In tale
prospettiva si è quindi affermato che essa, in tanto può essere
dichiarata, in quanto i contendenti si diano reciprocamente atto
dell’intervenuto mutamento della situazione evocata in controversia,
sottoponendo al giudice conclusioni conformi, intese a sollecitare una
declaratoria di tal fatta, laddove preclusiva alla sua adozione è la
circostanza che una delle parti abbia allegato, ed eventualmente
provato, l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa e il
contraddittore di interesse e titolo all’esperimento della coltivata
pretesa, quando, nelle rispettive conclusioni, ciascuno abbia insistito
sulle domande originarie, così manifestando la determinazione di

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della Repubblica. A opinare diversamente, aggiunge, si consentirebbe

ottenere una decisione sul merito della vertenza (confr. Cass. civ. 14
febbraio 2012, n. 2155; Cass. civ. 3 settembre 2003, n. 12844)
6. A tali principi si è attenuto il giudice di merito, il quale ha
correttamente ritenuto irrilevanti gli intenti conciliativi manifestati dalla
Fondazione, considerato che nelle relative delibere il Consiglio di

transazione in sede giudiziale, di talché la manifestazione della volontà
di revocare l’accordo prima del suo perfezionamento precludeva in
maniera invincibile la possibilità di dichiarare cessata la materia del
contendere.
A ciò aggiungasi che la Fondazione aveva un apprezzabile interesse a
definire la vertenza con modalità che le consentissero di disporre di un
titolo esecutivo per la riscossione delle somme che gli affittuari, in base
allo schema di soluzione bonaria suo tempo concordato, si
obbligavano a pagare, di talché sotto nessun profilo la mancata
formalizzazione dello stesso in sede giudiziale poteva ritenersi neutra ai
fini della definizione della causa.
È del resto significativo che lo stesso ricorrente abbia richiamato i
doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 cod. proc. civ., unico
parametro in base al quale si presterebbe, in tesi, a essere apprezzata
l’ondivaga condotta processuale della Fondazione.
7. Con il secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione degli arti. 72
cod. proc. civ., 3 e 24 della Costituzione. Sostiene che il P.M., che con
il suo intervento aveva causato la sospensione del processo e la
mancata attuazione dell’accordo transattivo,
era parte necessaria del processo.
8. Anche tali doglianze sono prive di pregio.
Il giudice di merito ha fatto coerente e corretta applicazione del
principio per cui, nei giudizi in cui l’intervento del pubblico ministero è
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amministrazione aveva autorizzato il Presidente a sottoscrivere la

facoltativo a norma dell’art. 70, ultimo comma, cod. proc. civ., questi
non acquista la qualità di parte necessaria, sicché non sussiste, in grado
di appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti
(confr. Cass. civ. 10 giugno 2011, n. 12853; Cass. civ. 20 agosto 2003,
n. 1228). Ed è addirittura ovvio che nessuna rilevanza possono avere,

fattuali, che in concreto ha avuto l’intervento del P.M.
9. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 125 disp.
att. cod. proc. civ. Le censure si appuntano contro il rigetto
dell’eccezione di nullità e inammissibilità dell’atto di riassunzione, per
indeterminatezza, sostenendosi, al riguardo, che, contrariamente
all’opinione espressa dal giudice di merito, il richiamo a tutte le richieste,
deduzioni ed eccezioni formulate per la Fondazione nell’intero arco del giudizio,
non integrava il contenuto minino necessario ai fini del rispetto del
disposto della norma processuale innanzi richiamata.

10. Il motivo è, per certi aspetti inammissibile, per altri infondato.
Esso è, anzitutto, gravemente carente sotto il profilo
dell’autosufficienza, posto che non riporta con la necessaria precisione
il contenuto dell’atto di riassunzione, né ne indica l’esatta allocazione
nel fascicolo processuale.
Sotto altro, concorrente profilo va poi osservato che la giurisprudenza
di questa Corte, muovendosi nell’ottica di quel principio di
conservazione che informa tutta la disciplina della nullità degli atti, nel
diritto sostanziale (art. 1367 cod. civ.), come in quello processuale (artt.
156 e segg. cod. proc. civ.), ha segnatamente evidenziato che la nullità
dell’atto di riassunzione non deriva dal dato meramente formale,
costituito dalla mancanza di uno degli elementi indicati dall’art. 125
disp. att. cod. proc. civ., bensì dalla impossibilità di raggiungimento
dello scopo proprio dell’atto, di consentire la ripresa del processo. In
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ai fini dell’applicazione di questa regola, le conseguenze, meramente

tale prospettiva la possibilità di identificare o meno il giudizio riassunto
in quello in precedenza cancellato, costituisce l’elemento dirimente ai
fini dello scrutinio sulla rilevanza delle eventuali difformità dell’atto di
riassunzione dallo schema delineato nell’art. 125 disp. att. cod. proc.
civ. (confr. Cass. civ. 1° ottobre 2009, n. 21071; Cass. civ. 21 luglio

Ne deriva che la generica deduzione di pretese lacunosità dell’atto di
riassunzione è del tutto inidoneo a infirmare la valutazione in termini
di validità espressa al riguardo dal giudice di merito.
Il ricorso appare pertanto destinato al rigetto”.
Ritiene il collegio di dovere fare proprio il contenuto della sopra
trascritta relazione, alla quale il ricorrente non ha del resto neppure
replicato.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio,
nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle
spese di giudizio, liquidate in complessivi euro 2.700,00 (di cui curo
200,00 per esborsi), oltre IVA e CPA, come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 febbraio
2014.

2004, n. 13597).

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