Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5442 del 28/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/02/2020, (ud. 17/10/2019, dep. 28/02/2020), n.5442

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25618-2017 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TARANTO 6, presso

lo studio dell’avvocato DOMENICO CARTOLANO, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE EUROPA 190, presso l’AREA LEGALE TERRITORIALE dell’Istituto

medesimo, rappresentata e difesa dall’avvocato ANNA MARIA ROSARIA

URSINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2340/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARIO

CIGNA.

Fatto

RILEVATO

che:

Poste Italiane SpA convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Velletri L.A., chiedendo la restituzione, a titolo di indebito oggettivo (o, in subordine, di arricchimento senza causa), della somma di Euro 15.000,00, oltre accessori.

A sostegno della domanda dedusse che la predetta somma era stata accreditata da Poste Italiane su c.c. intestato alla convenuta (aperto presso la Banca di Credito Cooperativo di Roma), in quanto la L. risultava prenditrice di due assegni (di Euro 5.000,00 ed Euro 10.000,00) emessi a firma di C.A. (all’epoca dei fatti marito della L.) su conto corrente di quest’ultimo, radicato presso l’Ufficio Postale di Pomezia e cointestato con il padre C.E.; in seguito, tuttavia, Poste Italiane, dietro ripetute richieste di C.A. ed C.E. (che avevano addotto e denunciato ai c.c. la sottrazione degli assegni e la contraffazione -da parte della L. – della firma di emissione/traenza: fatti accertati con decreto penale del GIP di Velletri), aveva provveduto a riaccreditare il detto importo sul menzionato conto corrente postale cointestato.

Si costituì la L. e chiese il rigetto della domanda.

Con sentenza 2148/2009 l’adito Tribunale rigettò la domanda, ritenendo non provata la falsità della firma di C.A..

Con sentenza 2340/2017 la Corte d’Appello di Roma, in accoglimento del gravame di Poste Italiane SpA, ha condannato L.A. al pagamento, in favore dell’appellante, della somma di Euro 15.000,00, oltre interessi; in particolare la Corte, premesso che in caso di indebito oggettivo, il creditore deve provare sia i pagamento (nella specie pacifico) sia la mancanza di una causa giustificativa dello stesso, ha evidenziato che l’attrice Poste Italiane aveva fornito la prova, quanto meno presuntiva, dell’inesistenza della “causa debendi”, avendo documentato la mancanza di un valido ordine da parte dei contitolari del c/c postale; in particolare, invero, emergeva “ictu oculi” la non corrispondenza delle firme di traenza apposte sui due assegni con la firma depositata risultante dal prodotto “cartellino firme delle persone autorizzate ad operare sul rapporto” (c.d. specimen di firma); nè poteva disconoscersi una qualche “significanza asseverativa” alle comunicazioni con le quali i correntisti avevano rappresentato a Poste Italiane l’avvenuta sottrazione e contraffazione ed avevano sporto regolare denuncia (assumendosi l’eventuale responsabilità per calunnia); nulla aveva invece allegato, in senso contrario, la L., che non aveva addotto neanche l’esito dell’opposizione dalla stessa presentata avverso il decreto penale di condanna a suo carico.

Avverso detta sentenza L.A. propone ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo.

Poste Italiane SpA resiste con controricorso.

Il relatore ha proposto la trattazione della controversia ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.; detta proposta, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata, è stata ritualmente notificata alle parti.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con l’unico motivo la ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. si duole che la Corte territoriale abbia utilizzato elementi probatori esulanti dalla nozione di “prudente apprezzamento” (v. verbale di denuncia-querela sporta da C.E. e poi da C.A.; v. comunicazioni intercorse tra i correntisti e la Banca; v. decreto penale di condanna seguito da opposizione) ed abbia affermato la non corrispondenza tra firma di traenza e “specimen”, senza prudentemente apprezzare alcune circostanze (rapporto di coniugio, mancato disconoscimento della firma da parte del coniuge, mancata richiesta. di CTU da parte attrice) e violando in tal modo il principio dell’onere della prova.

Il ricorso è, in primo luogo, inammissibile ex art. 366 c.p.c., n. 6, non avendo il ricorrente assolto all’onere di specifica indicazione degli atti e dei documenti sui quali lo stesso si fonda e dei dati necessari al reperimento degli stessi (conf. Cass. S.U. 22726/2011; Cass. 27465/2017). Lo deduce esattamente anche la resistente.

Il motivo è, comunque, inammissibile anche in quanto si risolve, sub specie di violazione di legge, in una critica, non consentita in sede di legittimità, alla valutazione degli elementi istruttori per come operata dalla Corte di merito.

Come, invero, già chiarito da questa S.C., in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, spettando in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge; di conseguenza, la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012″ (Cass. 23940/2017; conf. 2434/2016; v. anche Cass. 2700/2016, secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione”; v. anche cass. 11892/2016, secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime”.

Non sussiste, inoltre, neanche la violazione dell’art. 2697 c.c., che, come ribadito da Cass. S.U. 16598, “si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”, e non quando, come in ricorso, ci si duole solo che la Corte territoriale, a seguito del procedimento di acquisizione e valutazione del materiale probatorio strumentale alla decisione, abbia ritenuto raggiunta la prova dei fatti dedotti a fondamento della domanda avanzata.

Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato dichiarato inammissibile, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.200,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2020

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