Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5411 del 05/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 05/03/2010, (ud. 14/01/2010, dep. 05/03/2010), n.5411

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati FABIANI

GIUSEPPE, TRIOLO VINCENZO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.G., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato RINALDI GIUSEPPE, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e contro

FALLIMENTO PIERRE CONFEZIONI MODA DI CAPUTO GRAZIA & C. SAS;

– intimati –

avverso la sentenza n. 766/2006 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 07/12/2006 r.g.n. 553/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

14/01/2010 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito l’Avvocato CORETTI per delega TRIOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per dichiarazione di

inammissibilità.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Catania, in funzione di giudice del lavoro, la lavoratrice odierna intimata, premesso di avere lavorato alle dipendenze della società Pierre Confezioni Moda sino al 15 gennaio 1996 e di avere ottenuto, dopo il fallimento di questa, l’ammissione al passivo dei crediti rimasti inadempiuti, a titolo di trattamento di fine rapporto e retribuzioni non corrisposte, assumeva che l’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia previsto dalla L. n. 297 del 1982, art. 2, non aveva pagato la rivalutazione sul t.f.r.

nè le ultime tre mensilità di retribuzione, così come ammesse al passivo della procedura fallimentare, e chiedeva, pertanto, la condanna dell’Istituto alla corresponsione di tali emolumenti, oltre agli accessori.

Con sentenza del 12 marzo 2004 il Tribunale accoglieva la domanda e la decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di Catania, che, con sentenza del 7 dicembre 2006, respingeva l’impugnazione proposta dall’Istituto, limitata ai crediti retributivi diversi dal t.f.r..

Per quanto rileva nella presente sede di legittimità, i giudici d’appello affermavano che il decreto di ammissione al passivo comprendeva l’intero credito azionato, senza specificazione dei periodi di riferimento, sì che, a fronte dell’allegazione della lavoratrice circa la mancata percezione delle tre ultime mensilità, sarebbe spettato all’Istituto dimostrare il contrario; d’altra parte, il primo giudice aveva correttamente imputato a precedenti mensilità, ai sensi dell’art. 1193 c.c., alcuni acconti percepiti dalla lavoratrice, che l’Istituto aveva dedotto e dei quali il decreto di ammissione al passivo non aveva specificato l’imputazione.

Contro questa sentenza l’INPS ricorre per cassazione deducendo un unico motivo di impugnazione.

La lavoratrice intimata resiste con controricorso, precisato con successiva memoria, mentre la curatela fallimentare, anch’essa evocata in giudizio, non si è costituita.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’INPS, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 1, e dell’art. 12 preleggi, lamenta che la Corte territoriale abbia affermato la sussistenza del credito della lavoratrice sulla base degli importi ammessi al passivo fallimentare, senza considerare che questi si riferivano, indistintamente, a tutte le retribuzioni non corrisposte, anche diverse da quelle relative alle ultime tre mensilità, e che la lavoratrice non aveva assolto all’onere probatorio riguardante la determinazione dell’esatto ammontare delle retribuzioni degli ultimi tre mesi, spettanti alla stregua del citato decreto legislativo.

Preliminarmente, il Collegio rileva che il ricorso appare privo dei requisiti previsti dall’art. 366 bis c.p.c. (applicabile nella specie, ai sensi del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, essendo impugnata una sentenza depositata il 7 dicembre 2006).

Invero, l’unico motivo si conclude con la richiesta di “dichiarare se l’accertamento delle retribuzioni non corrisposte dal datore di lavoro risultanti dallo stato passivo in misura complessiva, e non dettagliatamente con riguardo alle ultime tre mensilità del rapporto di lavoro, precluda in un ordinario giudizio di cognizione un’autonoma e distinta liquidazione della quota riferibile al Fondo di garanzia”. Come già rilevato da questa Corte in analoghe controversie (cfr., fra tante, Cass. n. 8463 del 2009), tale richiesta, limitandosi alla deduzione generica dell’obbligatorietà dell’accertamento giudiziale circa l’esistenza del credito esigibile nei confronti del Fondo di garanzia, in presenza di un accertamento non dettagliato del decreto di ammissione al passivo fallimentare, è priva di alcuna specificità in relazione alla corrispondente ratio decidendi della sentenza impugnata, fondata sull’attribuzione all’Istituto debitore, anzichè alla lavoratrice, dell’onere di provare l’esatto ammontare di tale credito, sì che una risposta affermativa al quesito – nel senso della non preclusione dell’indagine giudiziale – non sarebbe comunque idonea a risolvere la controversia. Nè può rilevare che al suddetto onere probatorio l’Istituto si sia riferito nel corso del motivo di impugnazione, che la funzione propria di un quesito di diritto, a pena di inammissibilità del motivo proposto, è di far comprendere alla Corte di legittimità dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (cfr. Cass., sez. un., n. 28054 del 2008; n. 26020 del 2008; n. 18759 del 2008; n. 3519 del 2008). In mancanza di ciò, la formulazione del quesito di diritto equivale ad un’omessa formulazione, siccome la norma, se detta una prescrizione di ordine formale, incide anche sulla sostanza dell’impugnazione, imponendo al ricorrente di chiarire con il quesito l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (cfr. Cass., Sez. un., n. 28054 e 26020/08, cit.).

Alla stregua di tali considerazioni il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

L’Istituto ricorrente va condannato alle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, con distrazione in favore del difensore antistatario della resistente.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, liquidate in Euro 13,80, per esborsi e in euro millecinquecento per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore dell’avvocato Giuseppe Rinaldi, difensore antistatario.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2010

 

 

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