Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5400 del 07/03/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 07/03/2018, (ud. 18/07/2017, dep.07/03/2018),  n. 5400

Fatto

– che l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui la East West s.r.l. resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe indicata con la quale la Commissione tributaria regionale dell’Umbria, in controversia concernente l’impugnazione di un avviso di accertamento ai fini IVA, IRPEG ed IRAP per l’anno di imposta 2001, emesso dall’amministrazione finanziaria sul presupposto che la predetta società contribuente aveva qualificato come cessioni all’esportazione in sospensione di imposta D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 8 e, quindi, come vendite con trasferimento di proprietà (di calzature e tomaie), quelle che invece dovevano considerarsi cessioni di beni in conto lavorazione a società estere (nella specie, Rosada e Wizard International), con conseguente irregolare utilizzo delle fatture emesse a quel titolo ai fini della costituzione del plafond per l’effettuazione di acquisti in sospensione di imposta, rigettava l’appello dell’Agenzia confermando la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della contribuente;

– che i giudici di appello, per quanto ancora qui di interesse, valorizzando il comportamento complessivo tenuto dalle parti, desunto dalla documentazione fiscale, il principio secondo cui “nei movimenti di beni mobili la cessione vale titolo” e la circostanza “evidenziata anche nei contratti fra East West, “Rosada” e Wizard International che i prodotti o i macchinari, una volta entrati in Romania diventassero di esclusiva proprietà delle società rumene che provvedevano alla loro lavorazione (in proprio o in conto terzi) per poi rivenderle alla stessa committente”, ritenevano infondata la presunzione dell’ufficio finanziario di trasferimento di tali beni solo in conto lavorazione e che, pertanto, “la prova della simulazione della compravendita” non poteva trarsi dalla circostanza che i rapporti tra la società contribuente ed i committenti italiani erano soltanto verbali e che quelli con le società rumene erano invece solo inizialmente regolati da accordi scritti per poi proseguire su base verbale.

Diritto

CONSIDERATO

– che con il primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2,comma 1 e art. 8, comma 1, lett. a); sostiene che “la qualificazione giuridica delle operazioni in esame compiuta dalla CTR risulta palesemente in contrasto con le norme indicate in rubrica” in quanto, dal complesso delle circostanze evidenziate nell’avviso di accertamento e non contestate, emergeva che “la finalità delle cessioni in esame, complessivamente considerate ed in collegamento con le successive reimportazioni – era esclusivamente la lavorazione dei materiali, tanto che il prezzo di vendita e riacquisto dei materiali stessi era sempre identico, con la conseguenza che erroneamente la CTR le ha qualificate come cessioni all’importazione (rectius: all’esportazione) e non come cessioni in conto lavorazione, in tal modo violando le norme indicate in rubrica”;

– che il motivo è inammissibile;

– che, al riguardo, va preliminarmente ribadito che, per consolidato insegnamento di questa Corte, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa (Cass., sent. n. 26307 del 2014); al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 8315 del 2013);

– che nel caso in esame, dal tenore del ricorso si evince che la ricorrente ha contestato la correttezza della decisione dei giudici di appello per aver erroneamente qualificato, sulla base degli elementi probatori acquisiti in giudizio, come cessioni all’esportazione quelle che secondo la tesi di parte ricorrente dovevano considerarsi essere state effettuate dalla società contribuente in conto lavorazione; è quindi evidente che la ricorrente, deducendo che la CTR aveva errato nella valutazione delle emergenze processuali, e cioè che era incorsa in un errore di giudizio in ordine all’apprezzamento dei fatti e delle prove, avrebbe dovuto censurare la predetta decisione in relazione al profilo attinente alla motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5;

– che, peraltro, il dedotto vizio di violazione di legge neppure sussiste, atteso che il giudice di merito ha correttamente interpretato il disposto di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, lett. a);

– che, invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, che trova il conforto di unanime dottrina, per potersi configurare una cessione all’esportazione non imponibile ai fini IVA ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, devono necessariamente concorrere due distinti ma indefettibili requisiti: a) il trasporto o la spedizione dei beni fuori del territorio dell’Unione europea, comprovati da apposita documentazione doganale (trattasi di requisito che interseca la normativa doganale); b) la cessione di beni, che ai sensi dell’art. 2 medesimo D.P.R., si realizza mediante atti a titolo oneroso che importano il trasferimento della proprietà ovvero la costituzione o il trasferimento di un altro diritto reale sui beni medesimi; quindi, la cessione all’esportazione implica “la necessaria ricorrenza di un vincolo finalistico tra trasferimento della proprietà e esportazione, ma non anche quella di un’obbligata successione temporale tra i due termini dell’operazione. Sul piano sistematico, poi, l’osservanza del richiamato principio della tassazione dei beni nel luogo di consumazione richiede solo il carattere definitivo dell’operazione, sicchè ciò che risulta essenziale, e che la norma persegue al fine di evitare iniziative fraudolente, è la prova (il cui onere grava sul contribuente) che l’operazione, fin dalla sua origine e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero” (Cass. n. 23588 del 2012);

– che la norma di esenzione in esame trova fonte diretta, a livello unionale, “nel combinato disposto dell’art. 15, comma 1 e art. 3, comma 1 della 6 Direttiva 77/388/CEE del 17.5.77 (applicabile al caso di specie ratione temporis), a norma dei quali gli Stati membri esentano dall’IVA le cessioni di beni spediti o trasportati dal venditore o per suo conto fuori del territorio della Comunità Europea (ora Unione Europea). E l’obiettivo dell’esenzione in parola risiede nella volontà comunitaria – di cui è applicazione il suindicato sistema italiano di detassazione dei beni in uscita – di non assoggettare ad IVA i consumatori degli Stati terzi, essendo detta imposta destinata a gravare esclusivamente sui consumatori della Comunità Europea (cfr. C. Giust. CE 2.8.93, Lange, C- 111/92)” (Cass. n. 5894 del 2013; conf. Cass. n. 5168 del 2016);

– che, secondo una giurisprudenza costante della Corte di giustizia la nozione di “cessione di beni” di cui all’art. 14, par. 1, della direttiva 2006/112/CE (che con formula identica a quella dell’art. 5, par. 1, della Sesta direttiva n. 388/77/CEE del Consiglio in data 17/05/1977, applicabile ratione temporis, prevede che “costituisce “cessione di beni” il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario”), “non si riferisce al trasferimento di proprietà nelle forme previste dal diritto nazionale vigente, bensì comprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l’altra parte a disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario (v. sentenze dell’8 febbraio 1990, Shipping and Forwarding Enterprise Safe, C-320/88, Racc. pag. 1-285, punti 7 e 8; del 14 luglio 2005, British American Tobacco e Newman Shipping, C-435/03, Racc. pag. 1-7077, punto 35, nonchè del 3 giugno 2010, De Fruytier, C-237/09, Racc. pag. 1-4985, punto 24)” (Corte di giustizia, sent. 18 luglio 2013 nella causa C-78/12, “Evita-K” EOOD, punto 33) e che “spetta quindi al giudice nazionale determinare, caso per caso, in relazione alla singola fattispecie, se venga trasferito il potere di disporre del bene in questione come proprietario (v. sentenza Shipping and Forwarding Enterprise Safe, cit., punto 13)” (Corte di giustizia, punto 34 sent. cit.);

– che deve, quindi, concludersi che la cessione all’esportazione di un bene non assorbe la previsione legale di non imponibilità D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 8,laddove non si realizzi, con essa, il trasferimento della titolarità giuridica del medesimo bene, dovendosi ritenere che è la sola “operazione di cessione del bene” ad un soggetto intra o extracomunitario che viene considerata dalle norme esonerativa ai fini IVA, perchè mancando quel trasferimento si realizza soltanto un’operazione di esportazione ai fini doganali, rimanendo esclusa la configurabilità di una cessione all’esportazione ai sensi delle disposizioni sull’IVA (Cass. n. 2214 del 2014);

– che, alla stregua di tali considerazioni, va ribadito il principio che nella sfera di applicabilità del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, comma 1, non rientrano le esportazioni effettuate in conto lavorazione (neppure se effettuate attraverso la procedura dell’esportazione temporanea – c.d. perfezionamento passivo -, di cui agli artt. 147 e segg. del codice doganale comunitario, stante l’assoggettabilità ad IVA della “reimportazione a scarico di esportazione temporanea” come previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, comma 2), in quanto normalmente effettuate senza trasferimento alla società estera della titolarità, di fatto e giuridica, dei beni ceduti per la lavorazione, salvo che il contribuente, su cui grava il relativo onere probatorio (essendo inapplicabile all’esportazione la presunzione di cessione di cui al D.P.R. n. 441 del 1997, art. 1, riferita ai soli “beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, nè in quelli dei suoi rappresentanti), non dimostri il definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero dietro pagamento di corrispettivo;

– che, pertanto, la CTR non è incorsa nella dedotta violazione di legge, avendo correttamente applicato il principio appena sopra enunciato ritenendo, sulla base della effettuata (e non censurata) valutazione degli elementi probatori, che quelle effettuate dalla società ricorrente non erano vendite in conto lavorazione ma vere e proprie cessioni all’esportazione;

– che con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione delle medesime disposizioni censurate con il primo motivo (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 1, e 8, comma 1, lett. a)), nonchè dei principi generali che vietano l’abuso del diritto, lamentando che la CTR non si era interrogata sul fatto che il ricorso allo strumento delle cessioni all’esportazione dei materiali utilizzati per le lavorazioni rispondesse ad un effettivo interesse economico delle parti o non, piuttosto all’essenziale scopo di conseguire un risparmio di imposta contrario all’obiettivo delle disposizioni fiscali applicabili, omettendo in tal modo l’applicazione del principio comunitario del divieto di abuso del diritto;

– che tale motivo di ricorso è inammissibile per le stesse ragioni indicate con riferimento al primo mezzo di cassazione, posto che anche in tale caso le argomentazioni sviluppate a sostegno della censura rendono evidente che la ricorrente contesta l’erronea valutazione delle emergenze processuali, ovvero l’erroneo apprezzamento dei fatti e delle prove da parte del giudice di merito, da censurarsi come vizio motivazionale, ex art. 360 c.p.c., n. 5, piuttosto che una errata applicazione delle norme di legge indicate nella rubrica del motivo, che integra l’error in iudicando;

– che la censura, anche sotto il profilo del dedotto abuso del diritto, è peraltro infondata;

– che, invero, “in materia tributaria, alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale comunitaria e nazionale, costituisce pratica abusiva l’operazione economica che, attraverso l’impiego “improprio” e “distorto” dello strumento negoziale, abbia quale scopo predominante e assorbente (seppur non esclusivo) l’elusione della norma tributaria, mentre la mera astratta configurabilità di un vantaggio fiscale non è sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, poichè è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio di imposta e l’accertamento della effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale” (Cass. n. 25758 del 2014); si è quindi precisato che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. n. 5090 e n. 9610 del 2017);

– che, nel caso di specie, i giudici di appello hanno escluso intenti evasivi (rectius: abusivi) da parte della società contribuente valorizzando la circostanza che la stessa applicava un ricarico medio del 14 per cento sui materiali oggetto di successiva lavorazione (pag. 12 della sentenza impugnata), mentre l’amministrazione finanziaria ha sostenuto che l’eccessività dello strumento negoziale utilizzato dalla società contribuente (di cessione all’esportazione con trasferimento della proprietà) rispetto alla finalità dalla medesima conseguita, dipendesse dall’identità del prezzo di cessione e di riacquisto dei macchinari che le società estere dovevano utilizzare nelle lavorazioni, ovvero sulla base di una circostanza del tutto irrilevante a quel fine, atteso che oggetto di contestazione non era la cessione all’esportazione con trasferimento della proprietà dei macchinari e delle attrezzature, ma dei materiali oggetto di successiva lavorazione;

– che, conclusivamente, i motivi di ricorso vanno dichiarati inammissibili e la ricorrente condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i motivi di ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 17.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2018

 

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