Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5371 del 02/03/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 02/03/2017, (ud. 19/01/2017, dep.02/03/2017),  n. 5371

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5100-2016 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANICIO GALLO

102 SC/A IN 13, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO POLESE,

rappresentato e difeso da sè medesimo e dall’avvocato EMILIO PAOLO

SALVIA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (CF (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7318/39/2015, emessa il 24/06/2015, della

COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALI di NAPOLI, depositata il

20/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 19/01/2017 dal Consigliere Relatore Dott. ENRICO

MANZON.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Rilevato che:

Con sentenza in data 26 aprile 2015 la Commissione tributaria regionale della Campania respingeva l’appello proposto da S.M. avverso la sentenza n. 12005/33/14 della Commissione tributaria provinciale di Napoli che ne aveva respinto il ricorso contro la cartella di pagamento IRPEF, IVA ed altro 2008. La CTR osservava in particolare che la cartella esattoriale era stata congruamente motivata, essendo stata emessa all’esito di controlli automatizzati D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, riferendosi la pretesa fiscale ad omessi versamenti delle rispettive imposte; che il differenziale di importo tra l’avviso bonario e la cartella di pagamento impugnata appariva giustificata in fatto (diversità delle sanzioni applicate); che il contribuente non aveva assolto al proprio onere contro probatorio dei fatti costitutivi della maggior pretesa fiscale azionata.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il contribuente deducendo tre motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Nelle more il ricorrente ha depositato memoria.

Considerato che:

Anzitutto deve affermarsi l’infondatezza dell’ istanza di fissazione della pubblica udienza avanti alla Sezione semplice formulata in via preliminare con la memoria depositata dal ricorrente, basata su profili di violazione dei principi costituzionali e convenzionali in materia di “giusto processo”.

Il Collegio infatti condivide ed intende dar seguito alle considerazioni di portata generale e dunque senz’altro estensibili al presente procedimento- recentemente sviluppate da questa Corte in ordine alla compatibilità costituzionale e convenzionale del “nuovo rito camerale non partecipato” a motivazione della reiezione di un’ analoga istanza. In particolare va a tal fine ribadito che “l’intervento novellatore del giudizio di legittimità recato dalla L. n. 197 del 2016 è ispirato, secondo una linea di tendenza registratasi nell’ultimo decennio, da pressanti esigenze di semplificazione, snellimento e deflazione del contenzioso dinanzi alla Corte di cassazione, in attuazione del principio costituzionale, di cui all’art. 111 Cost. (e convenzionale: art. 6 CEDU), della ragionevole durata del processo e di quello, in esso coonestato, dell’effettività della tutela giurisdizionale; che in siffatta prospettiva il legislatore (attingendo ad indicazioni de iure condendo, provenienti dalle Commissioni ministeriali di riforma del processo civile del 2013 e del 2015, in parte approdate all’esame parlamentare) ha inteso modulare il giudizio di legittimità (incidendo, segnatamente, sugli artt. 375, 376 e 380-bis c.p.c., art. 380-bis c.p.c., comma 1 e art. 380-ter c.p.c.) in ragione di una più generale suddivisione del contenzioso in base alla valenza nomofilattica, o meno, delle cause, riservando a quelle prive di siffatto connotato (ossia, il contenzioso più nutrito) un procedimento camerale, tendenzialmente assunto come procedimento ordinario, “non partecipato” e da definirsi tramite ordinanza (in luogo della celebrazione dell’udienza pubblica e della decisione con sentenza, previste essenzialmente per le cause “dalla particolare rilevanza della questione di diritto”); che, tanto premesso, occorre osservare che il principio di pubblicità dell’udienza – di rilevanza costituzionale in quanto, seppur non esplicitato dalla Carta Fondamentale, è connaturato ad un ordinamento democratico e previsto, tra gli altri strumenti internazionali, segnatamente dall’art. 6 CEDU – non riveste carattere assoluto e può essere derogato in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (Corte cost., sent. n. 80 del 2011); che una siffatta deroga – anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU (tra le tante e più di recente, sentenza 21 giugno 2016, Tato Alarinho c. Portogallo), seguiti da un costante orientamento di questa Corte (tra le altre, Cass., 18 luglio 2008, n. 19947; Cass., 16 marzo 2012, n. 4268; Cass., 9 ottobre 2015, n. 20282; Cass., 5 maggio 2016, n. 9041) – è consentita in ragione della conformazione complessiva del procedimento, là dove, a fronte della pubblicità del giudizio assicurata in prima o seconda istanza, una tale esigenza non si manifesti comunque più necessaria per la struttura e funzione dell’ulteriore istanza, il cui rito sia volto, eminentemente, a risolvere questioni di diritto o comunque non “di fatto”, tramite una trattazione rapida dell’affare, non rivestente peculiare complessità; che in tal senso, come accennato in precedenza, viene a declinarsi la disciplina dell’art. 380-bis c.p.c. (sul modello di quella già dettata per il giudizio penale di cassazione dall’art. 611 c.p.p.), funzionale alla decisione, in sede di legittimità (quale giudizio che, oltre a non postulare in sè profili di autonomo accertamento dei fatti, ha assunto, in ambito civile, a seguito della novella legislativa del 2012 recante la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, una ancor più spiccata accentuazione del sindacato sugli errores in indicando rispetto a quello sul vizio di “motivazione”, resecato nei confini indicati dall’esegesi compiuta da Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053), di ricorsi che si presentino, all’evidenza (“a un sommario esame”: art. 376 c.p.c.), inammissibili, manifestamente infondati o manifestamente fondati (art. 375 c.p.c.), ossia di impugnazioni per le quali, lungi dal porsi questioni giuridiche di rilevanza nomofilattica (cui soltanto è riservata la pubblica udienza e la decisione con sentenza dall’art. 375 c.p.c.), risulta consentanea, nei termini e per le ragioni innanzi evidenziati, la decisione resa con ordinanza (ex art. 375 c.p.c., quale provvedimento per definizione succintamente motivato: art. 134 c.p.c.) all’esito di adunanza camerale non partecipata; che, proprio sotto tale ultimo profilo, la garanzia del contraddittorio, necessaria in quanto costituente il nucleo indefettibile del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato dagli artt. 24 e 111 Cost. (cfr., in rapporto all’art. 24 Cost., già Corte cost., sent. n. 102 del 1981), è, comunque, assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni (che, del resto, devono essere già compiutamente declinate con il ricorso per quanto riguarda, segnatamente, i motivi dell’impugnazione), non solo in funzione delle difese svolte dalla controparte, ma anche in rapporto alla proposta del relatore circa la sussistenza di ipotesi di trattazione camerale, ex art. 375 c.p.c.; che l’interlocuzione scritta, attraverso la quale viene a configurarsi il contraddittorio nell’ambito del procedimento di cui all’art. 380-bis c.p.c., si mostra come l’esito di un bilanciamento, non irragionevolmente effettuato dal legislatore alla stregua dell’ampia discrezionalità che gli appartiene nella conformazione degli istituti processuali (tra le tante, Corte cost., sent. n. 152 del 2016), tra le esigenze del diritto di difesa e quelle, del pari costituzionalmente rilevanti, in precedenza evidenziate, di speditezza e concentrazione, in funzione della ragionevole durata del processo e della tutela effettiva da assicurare, anche in tale prospettiva, alle parti interessate dal contenzioso; esigenze, queste, che trovano congruente contestualizzazione nel peculiare assetto strutturale e funzionale del procedimento previsto dalla L. n. 197 del 2016; che, infine, la previsione di una proposta di trattazione camerale da parte del relatore, in ragione della ravvisata esistenza di ipotesi di decisione del ricorso di cui all’art. 375 c.p.c. – in luogo della relazione (o cd. “opinamento”) depositata in cancelleria, secondo la formulazione del previgente art. 380-bis c.p.c. – appartiene anch’essa all’esercizio della discrezionalità del legislatore in ambito processuale e non è tale da vulnerare il diritto di difesa, giacchè trattasi di esplicitazione interlocutoria di mera ipotesi di esito decisorio, non affatto vincolante per il Collegio e che, di per sè, ove rimanga confinata nell’alveo del thema decidendum segnato dai motivi di impugnazione, neppure è idonea a sollecitare profili attinenti allo stesso principio del contraddittorio” (Sez. 6-3, ordinanza n. 395/2017). Ciò posto in via preliminare e passando dunque all’esame del ricorso, con il primo motivo -ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente lamenta violazione/falsa applicazione di varie disposizioni legislative, poichè la CTR ha ritenuto insussistente il dedotto vizio motivazionale della cartella esattoriale impugnata.

La censura è infondata.

Va infatti ribadito che “In tema di motivazione della cartella di pagamento, l’atto con cui siano rettificati i risultati della dichiarazione e, quindi, sia esercitata una vera e propria potestà impositiva, va motivato debitamente, dovendosi rendere edotto il contribuente dei fatti su cui si fonda la pretesa, mentre quello con cui si proceda, in sede di controllo cartolare D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, alla liquidazione dell’imposta in base ai dati contenuti nella dichiarazione o rinvenibili negli archivi dell’anagrafe tributaria, può essere motivato con il mero richiamo alla dichiarazione, poichè il contribuente è già in grado di conoscere i presupposti della pretesa” (Sez. 5, Sentenza n. 25329 del 28/11/2014, Rv. 633304); che “La cartella di pagamento emessa all’esito di un procedimento di controllo cd. formale o automatizzato, a cui l’Amministrazione finanziaria ha potuto procedere attingendo i dati necessari direttamente dalla dichiarazione, può essere motivata con il mero richiamo a tale atto, atteso che il contribuente è già in grado di conoscere i presupposti della pretesa, anche qualora si richiedano somme maggiori di quelle risultanti dalla dichiarazione” (Sez. 5, Sentenza n. 15564 del 27/07/2016, Rv. 640655); che “L’omessa indicazione nella cartella esattoriale del nome del responsabile del procedimento (nel regime anteriore all’entrata in vigore del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4 ter, conv. con L. 28 febbraio 2008, n. 31), non determina il vizio di illegittimità della cartella, trattandosi di provvedimento a contenuto vincolato e secondo il principio generale in tema di annullamento degli atti amministrativi applicabile in materia, di cui alla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies, comma 2, in quanto la L. n. 212 del 2000, art. 7, sullo Statuto del contribuente, è norma “minus quam perfecta” e priva di sanzione, di guisa che la ricostruzione del suo regime non può essere operata che facendo ricorso ai precetti generali” (Sez. 5, Sentenza n. 3754 del 15/02/2013, Rv. 625778).

La sentenza impugnata -pronunciandosi su di un caso che pacificamente riguarda l’omesso versamento di imposte dichiarate, da cui il recupero delle somme capitarie e relativi accessori- si è puntualmente conformata a tali principi e pertanto sotto tale profilo certamente non merita cassazione.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 – 3 – il ricorrente denuncia la nullità della sentenza per vizio motivazionale e per la falsa applicazione dei principi normativi sull’onere probatorio, poichè il giudice di appello ha ritenuto i maggiori importi della cartella esattoriale impugnata rispetto all’avviso bonario. La censura è infondata.

Sicuramente corrispondente al “minimo costituzionale” (cfr. Sez. U, 8053/2014), la motivazione della sentenza impugnata da congruamente conto della ragione di detta circostanza, con valutazione di merito non sindacabile in questa sede, secondo il principio che “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis, da ultimo v. Sez. 5, n. 26610 del 2015).

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – il ricorrente si duole di omessa pronuncia, poichè la CTR non ha statuito sul suo 4 motivo di gravame ossia la “nullità derivata” dell’atto esattivo impugnato per la nullità dell’avviso bonario prodromico (specificamente per l’omessa indicazione del responsabile del procedimento e dell’ufficio al quale rivolgersi per chiarimenti).

La censura è astrattamente fondata, poichè effettivamente la CTR non ha pronunciato sul quarto motivo dell’appello, appunto devolvente l’eccezione di nullità “derivata” della cartella esattoriale impugnata a causa della propagazione a tale atto esattivo della invalidità dell’avviso bonario prodromico in quanto non contenente dette indicazioni.

Tuttavia va incidentalmente rilevato che il motivo di gravame de quo è manifestamente infondato tenuto conto della giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, per un verso “L’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’Amministrazione finanziaria non è richiesta, dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7(c.d. Statuto del contribuente), a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4-ter, convertito, con modificazioni, nella L. 28 febbraio 2008, n. 31, applicabile soltanto alle cartelle riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1 giugno 2008” (Sez. U, Sentenza n. 11722 del 14/05/2010, Rv. 613232 – 01), per altro verso, più in generale, che le previsioni di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, riguardanti il contenuto degli atti impositivi ed esattoriali sono minus quam perfectae, in quanto non sanzionate di nullità (cfr. in questo senso, ex pluribus Sez. 5, Sentenza n. 13322 del 28/06/2016, Rv. 640149 – 01; Sez. 5, Ordinanza n. 20024 del 30/09/2011, Rv. 619082 – 01).

Ciò rilevato, va altresì ribadito che “Nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (Sez. 5, Sentenza n. 21968 del 28/10/2015, Rv. 637019 – 01).

Quindi, considerata al contempo la fondatezza astratta della censura di legittimità e l’infondatezza meritale del correlativo motivo di appello, dando seguito al principio di diritto ultimo citato non deve pronunciarsi la cassazione della sentenza impugnata nemmeno per lo specifico motivo de quo.

In conclusione il ricorso va dunque rigettato ed il ricorrente va condannato alle spese del presente giudizio secondo generale principio della soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2.000 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2017

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