Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5363 del 02/03/2017

Cassazione civile, sez. VI, 02/03/2017, (ud. 10/05/2016, dep.02/03/2017),  n. 5363

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. LOMBNARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.L., rappresentata e difesa, per procura speciale a margine

del ricorso, dagli Avvocati Michele Torre e Lia Casu, elettivamente

domiciliata in Roma, via degli Scipioni n. 267, presso lo studio

dell’Avvocato Daniela Ciardo;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è domiciliato per

legge;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma, depositato il 20

novembre 2014 (R.G.V.G. 61473/2010);

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10

maggio 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per la ricorrente, l’Avvocato Antonio De Iulio, per delega

dell’Avvocato Michele Torre.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Roma il 29 novembre 2010, P.L. chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dei danni non patrimoniali derivati dalla irragionevole durata di un giudizio civile, iniziato nei suoi confronti con citazione del 16 ottobre 1980, deciso in primo grado con sentenza del 15 luglio 2003, proseguito con atto di appello del 23 luglio 2004, deciso in secondo grado con sentenza del 25 settembre 2009, pendente in cassazione alla data della domanda, essendo stato proposto ricorso il 21 gennaio 2010;

che la Corte d’appello, detratti i segmenti processuali imputabili alle parti per quattro anni, nonchè la durata ragionevole di sette anni (quattro anni per il primo grado, in ragione della complessità, due anni per l’appello e un anno per il giudizio di cassazione), accertava una irragionevole durata di diciotto anni, in relazione alla quale liquidava un indennizzo di 17.250,00 Euro, facendo applicazione del criterio di 750,00 Euro per i primi tre anni di ritardo e di 1.000,00 Euro per ciascuno degli anni successivi;

che per la cassazione di questo decreto la ricorrente ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo;

che l’intimato Ministero della giustizia ha resistito con controricorso.

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che con l’unico motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della l. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6 CEDU, dolendosi della esiguità della liquidazione, che, in considerazione dell’oggetto della controversia, avrebbe dovuto essere ragguagliata all’importo normalmente riconosciuto dalla Corte EDU e compreso tra 1.000,00 e 1.500,00 Euro per anno;

che il ricorso è infondato;

che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2001; Cass. n. 17922 del 2010);

che la Corte d’appello si è attenuta a tale criterio, sicchè la concreta individuazione dell’indennizzo si sottrae alla denunciata violazione di legge;

che, invero, la Corte d’appello non si è affatto discostata in maniera irragionevole dai parametri normalmente adottati dalla Corte Europea in casi analoghi e ha dunque validamente esercitato la sua discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo nel sostanziale rispetto di quei parametri, mentre la liquidazione del danno, proprio perchè effettuata nell’ambito dei limiti, anche di natura quantitativa, riservati a una valutazione di merito, si sottrae a qualsiasi censura in sede di legittimità (Cass. n. 3943 del 2013);

che il ricorso va quindi rigettato, con conseguente condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al comma 1-quater del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 892,50 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 10 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2017

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