Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5336 del 17/03/2016

Civile Sent. Sez. 2 Num. 5336 Anno 2016
Presidente: BIANCHINI BRUNO
Relatore: SCALISI ANTONINO

SENTENZA

sul ricorso 22316-2011 proposto da:
A.A.

elettivamente

domiciliata in ROMA, P.ZZA CAVOUR presso la CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’Avvocato
ACHILLE VELLUCCI;
– ricorrente contro

2016
375

B.B.,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA G.PISANELLI 2, presso lo
studio dell’avvocato FRANCESCA ROMANA FUSELLI,
rappresentato e difeso dagli avvocati ALESSANDRO

Data pubblicazione: 17/03/2016

FASTOSO, FRANCESCO BUCO;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 1373/2011 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, depositata il 27/04/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SCALISI;
udito l’Avvocato VELLUCCI Achille, difensore della
ricorrente che ha chiesto raccoglimento del ricorso;
,udito il P.M.

in

persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udienza del 16/02/2016 dal Consigliere Dott. ANTONINO

Svolgimento del processo
adiva il Pretore di

B.B., con ricorso del 12 novembre 1985,

Roccamonfina e, premesso di essere proprietario e possessore di una grotta
cantina, sita in Roccamonfina, sottostante la particella n. 4189, di proprietà di
A.A.,

moglie di B.B., aveva un lavatoio in cemento, frequentemente
usato e svuotato in loco, la A.A., benché ripetutamente invitata, non aveva
voluto mai desistere dai suoi comportamenti lesivi dei diritti del ricorrente. Il
9 ottobre del 1985, B.B. constatava che nella cantina si stavano
verificando dilavamenti di acqua, tanto abbondanti

da mettere in serio

pericolo la staticità della grotta, dovuti alla fuoriuscita di acqua dal terminale
di una pompa che era stata lasciata aperta proprio in corrispondenza della
volta della cantina. Pertanto, avendo ragione di temere

che a seguito del

comportamento della A.A. sovrastasse pericolo di danno grave e prossimo
anche alle persone, chiedeva ai sensi dell’art. 1172 cc., l’adozione dei
provvedimenti necessari, al fine di ovviare alla situazione di pericolo.
Il Pretore, con decreto, emesso inaudita altare parte, ordinava, ad Evelina
A.A., l’immediata rimozione del lavatoio e del relativo scarico sistemati
nella parte sovrastante la cantina di proprietà del ricorrente e fissava udienza
per la comparizione delle parti.
Instauratosi il contraddittorio la  A.A. eccepiva la carenza di legittimazione
passiva,

non essendo suo il terreno ove era ubicato il lavatoio di sua

proprietà; nel merito affermava che l’uso del suddetto lavatoio era legittimo,
la sua allocazione risaliva a circa quindici anni addietro, senza che fosse stata
avanzata alcuna lamentela; sosteneva che la pompa era sempre chiusa; i

B.B.; che, nella parte sovrastante la cantina,

_
_
chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda.
Esaurita l’istruttoria, anche f mediante l’espletamento di CTU, il Tribunale di
Santa Maria Capua Vetere,

domanda attrice, confermava il provvedimento interdittale dell’allora Pretore
di Roccamonfina, condannava la convenuta a rimuovere il lavatoio, oggetto
della controversia e a non effettuare lo scarico d’acqua nella zona sovrastante
il vano cantina dell’attore, nonché, al pagamento della somma di E. 4.450,23,
oltre interessi legali

dal gennaio 2003 al soddisfo, a titolo di risarcimento

danni, nonché alle spese del giudizio comprese le spese di tutte le CTU
espletate.
Avverso questa sentenza, interponeva appello A.A., riproponendo
le stesse domande ed eccezioni già formulate in primo grado, lamentando,
altresì, l’errata quantificazione del danno e censurava il governo delle spese di
lite.
Si costituiva B.B., contestando

la fondatezza dei motivi del

gravame e chiedendo la conferma della sentenza impugnata.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 1373 del 2011, rigettava
l’appello, confermava la sentenza impugnata e condannava l’appellante al
pagamento delle spese giudiziali relative al grado. A sostegno di questa
decisione, la Corte partenopea osserva: a) che infondata era l’eccezione di
mancata legittimazione passiva, avanzata da A.A., dato che era
emerso dall’istruttoria testimoniale che il lavatoio, di cui si dice, era nella
piena disponibilità della A.A. e ai fini della legittimazione passiva
dell’azione nunciatoria doveva ritenersi sufficiente la qualità di possessore
della cosa,

dalla quale proveniva il danno: b) il ricorso del B.B.,
2

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con sentenza n. 2242 del 2004, accoglieva la

_

depositato il 12 novembre 1985, era tempestivo, posto che l’azione di danno
temuto è proponibile nel termine prescrizionale di cui all’art. 2946 cc e
dall’istruttoria era emerso che il lavatoio di cui si dice era stato collocato
all’incirca nell’anno 1980; e) il Tribunale aveva dato conto, con ampia

ed i danni riscontrati nel locale di proprietà del B.B.,

richiamando le

risultanze dell’elaborato, redatto dal geologo Punzo, e le dichiarazioni dei
testi escussi; d) Il Tribunale, aveva fatta corretta applicazione della normativa
di cu all’art. 91 cpc., posto che la controversia si era protratta per oltre
vent’anni.
La cassazione di questa sentenza, è stata chiesta da A.A., con
ricorso affidato a 3 motivi. B.B. ha resistito con controricorso. In
prossimità dell’udienza pubblica le parti hanno depositato memorie ex art.
378 cpc.
Motivi della decisione
1 .= Con il primo motivo di ricorso A.A.lamenta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1172 e 2043 cc. nonché dell’art. 100 cpc.

in

quanto qui combinabili (art. 360 n. 3 cpc.). Secondo la ricorrente,
erroneamente, la Corte distrettuale avrebbe rigettato l’eccezione di carenza di
legittimazione

passiva

della

A.A.,

posto

che

unico

proprietario

dell’immobile (casa di abitazione e giardinetto) era B.B., solo
quest’ultimo
provvedimento

poteva essere destinatario,— ergo,
sanzionatorio

circa

l’attività

legittimato passivo— di
necessaria

per

evitare

l’insorgenza della situazione di pericolo. Il concetto di potere di fatto non
esclusivo avanzato dalla Corte distrettuale
3

sarebbe, sempre secondo la

motivazione, del nesso di casualità tra la presenza del lavatoio (ed il suo uso)

ricorrente, errato rispetto alla ratio dell’art. 1172 cc., che presuppone, non un
orna

i potere di fatto ma il possesso, la proprietà o la disponibilità della

/(

cosa da cui proviene l’ipotizzato danno.
Secondo, ancora, la ricorrente, nel caso in esame, il criterio individuatore della

la persona del B.B. e che lo rende razionalmente e
giuridicamente responsabile di qualsiasi evento possa scaturire da ciò che è
compreso nel suo titolo. Il titolo di proprietà sarebbe assorbente rispetto al
possesso ed alla detenzione qualificata che sono legittimazioni passive
subordinate cui far risalire la condanna nell’azione di danno temuto.
1.1.= Il motivo è infondato, non solo perché, sostanzialmente, si risolve nella
richiesta di una nuova e diversa valutazione dei dati processuali, non
proponibile nel giudizio di cassazione se, come nel caso in esame, la
valutazione effettuata dalla Corte distrettuale non presenti vizi logici e/o
giuridici, ma, anche, e/o soprattutto, perché presuppone un’interpretazione
della normativa di cui all’art. 1172 cc. non sostenibile.
È noto che la denunzia di danno temuto postula una situazione (intesa come
condizione o modo di essere) di un edificio, di un albero o di qualsiasi altra
cosa inanimata esistente sul fondo altrui comportante pericolo di un danno
grave e prossimo per la cosa che forma oggetto del diritto o del possesso del
denunziante. L’obbligo di rimuovere siffatta situazione e di eseguire quanto
necessario per la rimozione della causa del pericolo incombe a colui che ha la
proprietà, il possesso, o, comunque, la piena disponibilità della cosa dalla
quale promana la minaccia di danno per la cosa altrui (tra le tante v. Cass. n.
345 del 11/01/2001; n. 2897/87). Infatti, posto che la norma di cui all’art.
4

/5

fonte della responsabilità è da ascriversi al titolo di proprietà che coincide con

.

1172 c.c. tende a sanzionare l’inerzia di colui il quale, essendovi obbligato,
“abbia omesso di espletare l’attività necessaria per evitare l’insorgenza della
situazione di pericolo”, ovvero di rimuoverne la causa, senz’altro, legittimato
passivo è il proprietario della cosa o, comunque, il titolare del diritto reale
portatore dell’obbligo. Ma legittimati passivi sono anche il possessore e chi

ha, comunque, la disponibilità della cosa dalla quale si assume provenga la
minaccia di danno per i beni altrui; perché su costoro, analogamente al
proprietario, in ragione “dell’effettivo potere fisico sulla cosa” incombe
l’obbligo “di predispone ed attuare, nei limiti del generale dovere di vigilanza
connesso alla custodia, le opere necessarie ad ovviare il pericolo” (Cass. n.
354/1980) o comunque di rimuovere la situazione di pericolo di danno grave e
prossimo (Cass. n. 345/2001). Va tenuto presente che —come chiarisce la
dottrina più attenta:- il presupposto dell’azione di danno temuto è un non
.

facere del denunciato, la violazione, cioè, di un (obbligo di) facere
concretantesi nella disattenzione degli obblighi di custodia e manutenzione
che gravano su chiunque abbia la legittima disponibilità di un bene, a
prescindere dal titolo di proprietà, di possesso, o di mera detenzione, secondo
il chiaro disposto dell’art. 2051 c.c.
Ebbene, conformemente a tali principi, che questo Collegio condivide, la
Corte

distrettuale

ha

ritenuto

infondata

l’eccezione

di

carenza

di

legittimazione passiva, proposta da A.A. sul rilievo di non essere
proprietaria del fondo sul quale era ubicato il lavatoio di cui si dice/posto che
ai fini della legittimazione passiva all’azione nunciatoria doveva ritenersi
sufficiente, prescindendosi da ogni accertamento sull’esistenza del diritto di
proprietà, la qualità di possessore della cosa dalla quale proveniva il danno,
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I

chiaramente emergente in capo alla stessa A.A.  in base a valutazione di
fatto insindacabile nella attuale sede di legittimità. La Corte distrettuale ha
avuto cura di specificare che, nel caso di specie,

la piena disponibilità da

parte della A.A. del lavatoio all’origine del danno lamentato dal B.B.
era circostanza che, oltre ad essere emersa nel corso dell’istruttoria

essendosi, la convenuta, limitata ad eccepire di non essere proprietaria
terreno ove era collocato il manufatto

testimoniale espletata, non era stata oggetto di specifica contestazione,
del

(ciò che per quanto detto non era

rilevante ai fini che qui interessano) e che il suo utilizzo era del tutto
legittimo. D’altra parte, la A.A.

non risultava avere, in alcun modo,

replicato ai diversi inviti e diffide a lei inviati sin dal luglio del 1985 dal
B.B., riguardanti l’utilizzo del lavatoio, neanche per affermare la sua
estraneità agli addebiti mossi. E, comunque, la disponibilità del lavatoio della
A.A. restava confermata dalla circostanza, riferita dalla stessa appellante,
che a seguito dell’intimazione alla A.A. di atto di precetto, fondato sul
provvedimento interdittale del Pretore del 15 novembre 1985, il manufatto
era stato spostato.
2.= Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 10 cpc. (art. 360 n. 3 cpc). Secondo la ricorrente, la
Corte distrettuale avrebbe errato nel confermare la quantificazione dei danni
effettuata dal Tribunale, non tenendo conto che la liquidazione non avrebbe
potuto superare

i limiti di competenza per valore del Pretore e, cioè,
i

l’importo di €. 789,13, proprio perché la controversia nasceva nel 1985 e il

/

giudizio anche dopo la cognizione sommaria è rimasto incardinato davanti al
/
Pretore di Roccamonfina. Il Tribunale prima e la Corte distrettuale, insomma,
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non avrebbero potuto non tener conto che, nonostante, la soppressione delle
Pretura e la istituzione delle sezioni stralcio il valore della controversia entro il
I

 

qualt si sarebbe dovuto attenere intanto il Tribunale era sempre quello segnato
dalla competenza del Pretore. La prospettazione della Corte di merito rsecondo

risarcimento del danni come quantificati dal CTU perché tale modifica
integrava un’ipotesi di emendatio libelli legittima ai sensi dell’art. 184 cpc.

non sarebbe convincentei una richiesta che incide sulla competenza non
sarebbe un’emendatio libelli ma una mutati° non consentita.
21= Il motivo è infondato.
Come è ripetutamente affermato da questa Corte e anche dalla dottrina
processualistica, si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa
obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un
petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni
giuridiche non prospettate prima e, particolarmente, su un fatto costitutivo
radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema
d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di
disorientare la difesa della controparte e alterare il regolare svolgimento del
processo. Si ha, invece, semplice emendatio libelli, e come tale ammissibile,
quando si incida sulla causa petendi in modo che risulti modificata soltanto
l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto,
oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo
al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere
Alla luce di questi principi la richiesta di B.B. ad un risarcimento
danni come quantificato dal CTU e non, invece, come originariamente
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/.

cui legittimamente l’attore aveva modificato il petitum richiedendo il

richiesto entro i limiti di competenza per valore del Pretore, era legittima sia
perché formulata davanti al Giudice competente, nel momento della sua
formulazione, e sia perché integrava un’ipotesi di ampliamento del petitum e,
dunque, di un emendatio libelli consentita dall’art. 184 cpc. allora vigente.
Pertanto, correttamente la Corte distrettuale ha precisato che (…) all’udienza

pendente innanzi al Tribunale

di precisazione delle conclusioni del 18 febbraio 2004 quando il fascicolo era
a seguito della soppressione dell’Ufficio del

Pretore, l’attore, (B.B.) aveva

abbandonato

la clausola del

contenimento (entro i limiti della competenza per valore del Pretore) ed
aveva, legittimamente, chiesto il risarcimento dei danni, come quantificato dal
CTU, dato che si era in presenza di una mera emendatio libelli consentita
dall’art. 184 cpc. nella formulazione all’epoca vigente.
1= Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 91 cpc.

Secondo la ricorrente la fondatezza delle

eccezioni e deduzioni sollevate davanti ai giudici dei diversi gradi del merito,
dovevano indurre la Corte di Appello a porre le spese del giudizio a carico del
B.B..
31= Il motivo è inammissibile perché presuppone fondate le eccezioni e le
deduzioni sollevate davanti ai giudici del merito. E, comunque, è
inammissibile perché è una censura generica, per altrok non riferita alla
motivazione con la quale la Corte distrettuale ha ritenuto corretta
l’applicazione del principio di cui all’art. 91 cpc. fatta dal Tribunale. Come ha
affermato la Corte distrettuale: il primo giudice ha fatto corretta applicazione
del principio di cui all’art. 91 cpc., in una controversia protrattasi per circa
vent’anni e che ha richiesto l’espletamento di articolata attività istruttoria —
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/1

anche di natura tecnica.
In definitiva, il ricorso va rigettato e la ricorrente, in ragione del principio di
soccombenza ex art. 91 cpc., va condannata al pagamento delle spese del
presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare a B.B.
Pietro le spese del presente giudizio di cassazione che liquida in €. 2.200,00 di
cui €. 200,00 per esborsi oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della
Corte Suprema di Cassazione il 16 febbraio 2016

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