Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5300 del 27/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 27/02/2020, (ud. 17/12/2019, dep. 27/02/2020), n.5300

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33013-2018 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE,

14, presso lo studio dell’avvocato ALESSIA CIPROTTI, rappresentato e

difeso dall’avvocato ROBERTA MARCHESETTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto n. R.G. 50979/2017 del TRIBUNALE di MILANO,

depositato il 10/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA

IOFRIDA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Milano Sezione Specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, con decreto n. 5703/2018, ha, all’esito di udienza e di audizione del richiedente, respinto la richiesta di protezione internazionale di M.S., cittadino del Pakistan, a seguito del provvedimento di diniego della protezione internazionale ad opera della competente Commissione territoriale, rilevando che la vicenda narrata dal richiedente (essere stato costretto a lasciare il Pakistan, per sfuggire alla vendetta dei talebani, in quanto egli, insieme al padre, li aveva denunciati alla Polizia, dopo avere appreso che un fratello, che frequentava una rnadrassa vicino al suo villaggio, si era sacrificato come martire ed era morto) non risultava credibile, per genericità ed intrinseca contraddittorietà, sicchè non integrava i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione umanitaria e sussidiaria; in particolare, in relazione all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la regione di provenienza del richiedente (la citta di (OMISSIS) nel Pakistan) non era interessata secondo le diverse fonti consultate (Report EASO 2017 e Refworld 2016) da una situazione di violenza generalizzata, mentre in relazione alla richiesta di protezione umanitaria non erano state dedotte ulteriori cause di vulnerabilità, rispetto a quelle già esaminate, e non era sufficiente il solo processo di integrazione avviato in Italia, grazie agli strumenti messi a disposizione dal Sistema di accoglienza.

Avverso il suddetto decreto, M.S. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge attività difensiva).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, questioni di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, così come modificato dalla L. N. 46 del 2017, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., laddove il nuovo rito sommario di cognizione determina una contrazione del diritto di difesa, nonchè del D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, conv. in L. n. 46 del 2017, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1 e dell’art. 77 Cost., per mancanza dei presupposti di necessità ed urgenza per l’emanazione del decreto legge e quindi per quanto concerne il differimento dell’entrata in vigore del nuovo rito in materia di protezione internazionale, e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, come modificato dalla L. n. 46 del 2017, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., laddove si stabilisce che il procedimento è definito con decreto non reclamabile entro sessanta gg. dalla presentazione del ricorso; 2) con il secondo motivo, si lamenta poi sia la violazione dell’art. 1 Convenzione di Ginevra 1951, nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 10, 15, 26ì7, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, avendo il Tribunale ritenuto inattendibile il racconto del richiedente, pur circostanziato e non in contrasto con 1e informazioni specifiche pertinenti il suo caso (in ordine alle modalità di reclutamento in Pakistan degli Jihadisti, grazie alle madrasse), sia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 comma 1, lett. g) e art. 14, non avendo il Tribunale approfondito le circostanze allegate dal richiedente (anche in ordine alle sofferenze patite nei Paesi di Transito, Turchia ed Ungheria) ai fini della richiesta di protezione sussidiaria, sia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, lett. a), b) e c), artt. 4 e 5 e 19, il Tribunale tenuto, ai fini sempre della protezione sussidiaria, ad esercitare i poteri ufficiosi, al fine di vagliare la situazione esterna del Paese di provenienza; 3) infine, con il terzo motivo, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 comma 3, e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al rigetto della richiesta di protezione umanitaria, avendo trascurato il Tribunale di effettuare una valutazione comparativa tra la situazione personale del richiedente in caso di rientro in Palkistan (ove egli non ha un’abitazione, venduta dai genitori per pagare il suo viaggio in Italia, ed un lavoro) ed il percorso di integrazione positivamente avviato in Italia.

2. La prima, plurima, censura è infondata.

In ordine alle questioni di legittimità costituzionali sollevate dal ricorrente, va richiamato, infatti, quanto chiarito da questa Corte, con la pronuncia n. 17717/2018 (conf. Cass. 32029/2018), secondo la quale “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, poichè il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di “status”, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte”, nonchè “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, conv. con modifiche in L. n. 46 del 2017, per difetto dei requisiti della straordinaria necessità ed urgenza, poichè la disposizione transitoria – che differisce di 180 giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito – è connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale per consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime” ed “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, relativa all’eccessiva limitatezza del termine di trenta giorni prescritto per proporre ricorso per cassazione avverso il decreto del tribunale, poichè la previsione di tale termine è espressione della discrezionalità del legislatore e trova fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento”.

Questa Corte, con la successiva pronuncia n. 27700/2018, ha poi chiarito che “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 13, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, dell’art. 24Cost. e dell’art. 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile in quanto è necessario soddisfare esigenze di celerità, non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione” (conf. Cass. 28119/2018).

3. Il secondo, plurimo, motivo è inammissibile.

In riferimento al diniego di protezione sussidiaria, infatti, se è vero che nella materia in oggetto il giudice abbia il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo un’attività istruttoria ufficiosa, essendo necessario temperare l’asimmetria derivante dalla posizione delle parti (Cass. 13 dicembre 2016, n. 25534), deve tuttavia rilevarsi che il Tribunale ha attivato il potere di indagine nel senso indicato, in relazione all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Inoltre, come già rilevato da questa Corte (Cass.19197/2015; conf. Cass. 7385/2017; Cass. 30679/2017), “il ricorso al tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al citato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore”, cosicchè “i fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono necessariamente essere l’indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale” (in termini anche Cass. 27503/2018 e Cas3s.29358/2018).

Ora, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica, in relazione al decisum (avendo il Tribunale attivato i poteri di acquisizione officiosa delle informative, consultando più fonti indicate), e, per conseguenza, priva di decisività: il ricorrente manca di indicare quali siano le informazioni e le fonti ufficiali delle stesse che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso.

La doglianza è altresì inammissibile perchè mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

Con riguardo poi alla contestazione in ordine alla valutazione di inattendibilità, in materia di protezione internazionale questa Corte ha da tempo chiarito che la valutazione in ordine alla credibilità soggettiva del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve stimare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, in forza della griglia valutativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c). L’apprezzamento, di fatto, risulta censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 05/02/2019 n. 3340; in tema, cfr. anche Cass. 27503/2018).

4. La censura poi, riguardo alla protezione umanitaria, di cui al terzo motivo, è inammissibile, limitandosi il ricorrente a considerazioni di ordine generale sul tema della tutela umanitaria (che, nell’impostazione del ricorso, dovrebbe essere comunque accordata, laddove lo straniero non possa rientrare nel Paese d’origine in condizioni di assoluta sicurezza e di stabilità economica), le quali nulla hanno a che vedere con la specifica situazione individuale. In ultimo, in relazione alla censura circa la mancata considerazione delle vulnerabilità personali conseguenti a quanto subito durante il viaggio in Italia, nei Paesi di transito (Turchia e Ungheria) la doglianza è del tutto generica.

Questa Corte ha chiarito (Cass. 31676/2018) che “nella domanda di protezione internazionale” l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese”.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità (cfr. Cass. 4455/2018) in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il il ricorso.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2020

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