Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5288 del 06/03/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 06/03/2018, (ud. 03/11/2017, dep.06/03/2018),  n. 5288

Fatto

Con sentenza depositata il 9.5.2012, la Corte d’appello di Torino, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato il diritto di D.G. a vedersi computare, nel calcolo del trattamento pensionistico integrativo dovutogli dal Fondo pensioni per il personale dipendente della ex Cassa di Risparmio di Torino, l’importo della maggiorazione del premio di rendimento, per una differenza di Euro 866,79 sull’importo della pensione percepita, condannando il Fondo a versare agli eredi le differenze consequenziali.

La Corte di merito, per quanto qui rileva, ha ritenuto decisiva la formulazione dell’art. 31 dello Statuto del Fondo approvato nel 1973, che imponeva di includere nella base di calcolo della pensione qualunque indennità corrisposta avente carattere continuativo, valorizzando ai fini del decidere anche la pronuncia n. 7154 del 2003, con cui questa Corte di legittimità, in una fattispecie analoga, aveva avallato il ragionamento dei giudici di merito secondo cui, potendo le disposizioni dello Statuto essere modificate solo mediante la speciale procedura di cui all’art. 8, nessun rilievo poteva attribuirsi alla circostanza che la contrattazione collettiva avesse disciplinato diversamente l’emolumento allora in questione, affermandone la non inclusione nella base di calcolo del trattamento pensionistico.

Ricorre contro tali statuizioni il Fondo pensioni per il personale dipendente della ex Cassa di Risparmio di Torino, deducendo quattro motivi. Gli eredi D. resistono con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

Con il primo motivo, il Fondo ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione agli artt. 19 e 31 dello Statuto del Fondo medesimo approvato nel 1973, della Delib. Consiglio di amministrazione 30 marzo 1982, art. 6 (rectius: del contratto integrativo aziendale per il personale direttivo) e dell’art. 31, punto 15, dello Statuto del Fondo approvato nel 1994, per avere la Corte territoriale attribuito efficacia decisiva al disposto dell’art. 31 cit. senza leggerlo in relazione all’art. 19 e alla delibera istitutiva della maggiorazione del premio di rendimento, che differenziava quest’ultima dal premio in quanto erogazione discrezionale.

Con il secondo ed il terzo motivo, il Fondo ricorrente lamenta insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi, per avere la Corte di merito omesso ogni valutazione in ordine al contenuto della nota a verbale aggiunta all’art. 6 del contratto integrativo aziendale del 30.3.1982, secondo la quale la base di calcolo per il trattamento di liquidazione e di pensione sarebbe stata costituita unicamente dal premio di rendimento, e avere altresì ritenuto la continuatività della corresponsione della maggiorazione del premio di rendimento, nonostante che nell’ultimo anno esso non fosse stato corrisposto al de cuius.

Con il quarto motivo, infine, il Fondo ricorrente si duole di violazione dell’art. 112 c.p.c., anche in relazione all’art. 420 c.p.c. e art. 2113 c.c., per avere la Corte territoriale liquidato la differenza mensile sul trattamento dovuto in Euro 866,79, nonostante che, già all’udienza in primo grado dell’11.3.2010, la difesa dell’allora ricorrente e dante causa degli odierni intimati avesse aderito alla sua quantificazione in Euro 276,90.

I primi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, involgendo complessivamente l’interpretazione data dai giudici di merito alle disposizioni contrattuali concernenti l’istituzione e la disciplina della maggiorazione del premio di rendimento, e sono fondati nei termini che seguono.

Va premesso che l’interpretazione delle clausole di un contratto costituisce, di norma, operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità solo ex art. 360 c.p.c., n. 5 ovvero, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento ai canoni legali di ermeneutica contrattuale, a condizione, s’intende, che i motivi di ricorso non si limitino a contrapporre una diversa interpretazione rispetto a quella del provvedimento gravato (giurisprudenza costante: cfr. da ult. in tal senso Cass. n. 21888 del 2016).

Più in particolare, questa Corte ha precisato che, fermo restando che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale (cfr., fra le tante, Cass. n. 4670 del 2009), la violazione del principio di interpretazione complessiva delle clausole contrattuali si configura non soltanto nell’ipotesi della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare ex post le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili (Cass. n. 9755 del 2011).

Ciò posto, deve parzialmente convenirsi con parte ricorrente nelle censure mosse all’interpretazione delle clausole contrattuali operata dai giudici di merito. Costoro, infatti, nel ricostruire la volontà negoziale, hanno esclusivamente valorizzato, ai fini dell’accoglimento della domanda, la disposizione di cui all’art. 31, punto 12, dello Statuto approvato nel 1973, secondo la quale rientra nel calcolo della retribuzione pensionabile “qualunque altra indennità corrisposta avente carattere continuativo, anche se non recepita in contratto o accordo aziendale”, senza preoccuparsi di cercarne un coordinamento con il precedente art. 19, il quale dispone non soltanto che “l’importo annuo della pensione è pari a 1/35 del 75% della retribuzione pensionabile, di cui successivo art. 31, percepita dall’iscritto nell’ultimo mese di servizio ragguagliata ad anno e per ogni 12 mesi di contribuzione al Fondo”, ma precisa all’ultimo comma che “le frazioni di anno sono proporzionalmente conteggiate in mesi, salvo che raggiungano il semestre, nel qual caso hanno valore di 12 mesi”.

Così operando, i giudici hanno trascurato di considerare la possibilità che le parti abbiano voluto riferirsi, ai fini dell’individuazione della base di calcolo della pensione, non a tutte le indennità di cui può fruire il dipendente, ma esclusivamente a quelle che maturano nel corso dell’anno e sono dunque suscettibili di essere calcolate pro parte, in funzione del momento in cui, risolvendosi il rapporto di lavoro, matura il diritto al trattamento pensionistico integrativo. E conseguentemente, hanno trascurato di considerare la possibilità che la nota a verbale aggiunta all’art. 6 del contratto integrativo aziendale, nella parte in cui include nella base di calcolo della retribuzione pensionabile esclusivamente il premio di rendimento, e non la sua maggiorazione, che è attribuita discrezionalmente ad anno, potesse essere espressione non già della (inammissibile) volontà di modificare le disposizioni statutarie, ma di una regola in realtà desumibile proprio da queste ultime, coerentemente, del resto, con i principi affermati da questa Corte in tema di liquidazione dell’indennità di anzianità, secondo cui l’ultima retribuzione, che ne costituiva la base di computo, non andava individuata necessariamente in quella dell’ultimo mese di lavoro, ma piuttosto in quella dell’ultimo periodo, ragionevolmente inteso, di corresponsione al lavoratore di tutti gli emolumenti fissi e continuativi utili alla sua determinazione (cfr., tra le tante, Cass. n. 9882 del 1990). Tanto premesso, il Collegio è consapevole che rivendicazioni pressochè sovrapponibili a quelle che ha avanzato il dante causa degli attuali controricorrenti sono state accolte da sentenze di merito confermate da questa Corte in sede di controllo di legittimità (cfr. Cass. nn. 7154 del 2003 e 2834 del 2014, la seconda delle quali richiamata nella memoria depositata da parte controricorrente ex art. 378 c.p.c.). Tuttavia, se un rapporto di analogia o perfino di identità può configurarsi nelle pretese di carattere sostanziale, non altrettanto può dirsi per ciò che concerne le controversie sottoposte al vaglio del giudice di legittimità: esse, infatti, hanno un oggetto delimitato dalle ragioni che sorreggono la statuizione impugnata, in relazione alla causa petendi prospettata nei giudizi di merito e ai motivi di ricorso, e a tale oggetto è radicalmente estranea la verifica della fondatezza della domanda ogni qualvolta essa dipenda da un accertamento di fatto, qual è, come anzidetto, la volontà negoziale espressa in un contratto o accordo avente efficacia inter partes, essendo consentito in tal caso soltanto il controllo della correttezza del procedimento seguito dal giudice di merito per compiere l’accertamento di tale volontà, sotto il profilo del rispetto dei canoni di cui agli art. 1362 c.c. e ss. e dell’insussistenza di vizi di motivazione.

Conseguentemente, tali pronunce di legittimità non possono costituire precedenti in senso tecnico-giuridico (così Cass. n. 11807 del 2003), ciò che costituisce un insopprimibile limite logico alla pur condivisibile esigenza che nell’interpretazione dei contratti collettivi aziendali propri di imprese di rilievo nazionale si pervenga a soluzioni ermeneutiche uniformi, stante la loro riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e il loro carattere sostanzialmente normativo, che li rende inassimilabili a qualsivoglia contratto o accordo concluso tra privati (cfr. in tal senso Cass. nn. 8297 del 2007 e 25139 del 2010).

Parimenti fondato è il quarto motivo: è sufficiente al riguardo rilevare che dell’errore in cui è incorsa la Corte territoriale ha dato atto la stessa parte controricorrente (cfr. controricorso, pag. 11).

Il ricorso, pertanto, va accolto e, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso,. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2018

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