Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5281 del 18/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 18/02/2022, (ud. 10/01/2022, dep. 18/02/2022), n.5281
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2701/2015 R.G. proposto da:
Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n.
12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e
difende;
– ricorrente –
contro
R.R. & E. s.n.c., rappresentata e difesa nel
giudizio di appello dall’Avv. Emanuele Fregola, con studio in Imola,
via Emilia, n. 241;
– intimata –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale
dell’Emilia-Romagna n. 1526/9/14 depositata il 16 settembre 2014.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 gennaio
2022 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.
Fatto
RILEVATO
che:
a seguito della liquidazione, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis delle imposte dovute in base alla dichiarazione IRAP per il periodo d’imposta 2007, l’agente della riscossione notificò a R.R. & E. s.n.c. una cartella di pagamento, con l’iscrizione a ruolo, tra l’altro, di IRAP, dichiarata e non versata, per Euro 29.646,00, nonché della correlativa sanzione;
deducendo che, per mero errore materiale, aveva omesso di indicare nella dichiarazione i costi deducibili (con la conseguente liquidazione di un’imposta maggiore di quella dovuta) – in particolare, che “era evidente l’errore materiale in quanto nella dichiarazione ai fini IVA erano stati indicati costi di gestione per Euro 679.461,00 non riportati nella dichiarazione IRAP” (così la sentenza impugnata) – R.R. & E. s.n.c. impugnò la cartella di pagamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna (hinc anche: “CTP”), che rigettò il ricorso, affermando, anzitutto, l’inefficacia della dichiarazione integrativa presentata dalla società contribuente il 14 ottobre 2011 in quanto intervenuta oltre il termine previsto dal D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, comma 8-bis, e, in secondo luogo, nel merito, la mancata prova dei fatti costitutivi del diritto alla deduzione dei costi;
avverso tale pronuncia, R.R. & E. s.n.c., propose appello alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna (hinc anche: “CTR”), depositando, insieme con il ricorso, una consulenza tecnica di parte;
la CTR accolse l’appello della società contribuente, motivando, in particolare, che: a) “la possibilità di evidenziare errori nelle proprie dichiarazioni da parte del contribuente anche in sede contenziosa, ha trovato riscontro nella recente giurisprudenza di legittimità” (e’ citata, in particolare, la massima di Cass., 18/02/2014, n. 3754), “il che esclude che si sia verificata una decadenza in relazione alla pretesa avanzata dall’appellante”; b) “la produzione documentale eseguita pochi giorni prima dell’udienza (6) e che secondo l’appellante riscontrerebbe le conclusioni cui è pervenuto il proprio CTP, è da ritenersi inammissibile atteso il mancato rispetto dei termini previsti per detta produzione” dal combinato disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 61, comma 1, e art. 32, comma 1; c) “(n)ella CTP prodotta (Dott. C.) attraverso l’esame dei dati contabili forniti dall’appellante si indicano costi pari a Euro 917,680.16; si determina quindi un ampliamento dei costi rispetto alla pretesa azionata in primo grado dal contribuente limitata all’omessa indicazione dei costi di gestione sopra indicati, operandosi quindi un ampliamento della domanda inammissibile in sede di appello, oltre che non riscontrabile nel merito in base a quanto sopra rilevato riguardo alla tardività delle produzioni”; d) “(t)uttavia l’Agenzia delle Entrate si è limitata a sostenere la decadenza della società appellante riguardo alla richiesta di correzione della propria dichiarazione senza contestare l’importo indicato nell’originale domanda del contribuente da dedurre al fine di determinare il dovuto, avendo l’appellante nella propria impugnazione ribadito che anche ai fini IRAP, oltre che IVA come indicato, occorreva dedurre i costi di gestione pari ad Euro 679.461,00. Ne discende che nei limiti di detta somma non contestata dall’Ufficio dovrà disporsi la relativa detrazione per la determinazione dell’imposta dovuta”;
avverso tale sentenza – depositata in segreteria il 16 settembre 2014 e notificata il 20 novembre 2014 – ricorre per cassazione l’Agenzia delle entrate, che affida il proprio ricorso, notificato il 14/1920 gennaio 2015, a tre motivi;
R.R. & E. s.n.c. non ha svolto attività difensiva.
Diritto
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la nullità della sentenza o del procedimento per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 24,57 e 58;
in particolare, la ricorrente – premesso che nel ricorso introduttivo del giudizio la società contribuente aveva “genericamente contestato la legittimità della cartella di pagamento, senza affatto indicare l’importo dei costi deducibili ai fini IRAP” e che “(s)olo con la memoria “integrativa”, cui ha allegato la dichiarazione integrativa (…) presentata il 14/10/2011, vengono quantificati per la prima volta i componenti negativi in questione (in Euro 668.605,00)” – deduce che “e’ chiaro che l’allegazione di uno specifico importo di costi deducibili costituiva una vera e propria domanda nuova, inammissibile per espressa previsione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 e che la perizia di parte ricadeva sotto l’analoga previsione di inammissibilità, contenuta nell’art. 58 dello stesso D.Lgs., evidente essendone la natura di vera e propria “nuova prova” e non già di documento”, con la conseguenza che la CTR, “pronunciandosi sul merito di tali allegazioni e produzioni (..), è incorsa nella nullità denunciata”;
con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), la “mancanza di motivazione”, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4), e la violazione dell’art. 115 c.p.c. e dello stesso D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57;
sotto un primo profilo, la ricorrente denuncia che, posta la (esatta) affermazione della CTR circa l’inammissibilità della produzione documentale tardivamente effettuata dalla società contribuente, “(n)on si comprende (…) su quale base la Commissione abbia ritenuto corretta la deduzione d(ella) somma” di Euro 679.461,00, atteso che “(l)’importo di Euro 679.461,00 non corrisponde ad alcun elemento probatorio apportato al processo e desumibile dalla sentenza e, pertanto, non è dato cogliere quale ragionamento giuridico, sia in punto di fatto che in punto di diritto, abbia indotto la CTR ad affermarne la deducibilità”;
sotto un secondo profilo, la ricorrente denuncia che, con riguardo ai predetti componenti negativi, “non è possibile fare riferimento alla mancata contestazione dell’Ufficio dell’importo indicato nella originaria domanda dal contribuente da dedurre al fine di determinare il dovuto” – in quanto, “come già dedotto al motivo n. 1, l’indicazione dei pretesi costi deducibili costituiva argomento del tutto nuovo in appello e da dichiararsi inammissibile anche d’ufficio D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 57; l’importo di Euro 679.461,00 è stato indicato ad altri fini (si tratta dei costi indicati nel quadro VF come sopra esposto) in una memoria presentata tardivamente, cui l’Ufficio non ha quindi potuto replicare” – sicché, “(i)n presenza di una espressa comminatoria di nullità per le domande nuove in appello, la CTR ha dunque travisato il significato del principio di non contestazione posto dall’art. 115 c.p.c., comma 1, ritenendo che occorresse la specifica contestazione dell’Ufficio per poter dichiarare la novità della domanda volta al riconoscimento di un certo importo di costi deducibili”;
con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis, in quanto la “dichiarazione integrativa, presentata dalla contribuente (…) non poteva (…) essere tenuta in alcuna considerazione” giacché, essendo diretta a mutare la base imponibile dell’imposta mediante l’indicazione di maggiori costi deducibili, a norma del predetto comma 2-bis, avrebbe dovuto intervenire entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo 2008, cioè entro il 30 settembre 2009, termine non rispettato dalla contribuente;
il primo motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata;
il motivo presuppone infatti che la CTR abbia assunto quali componenti negativi, ai fini della determinazione della base imponibile dell’imposta, i costi di Euro 668.605,00, risultanti dalla dichiarazione integrativa presentata dalla società contribuente il 14 ottobre 2011, o i costi di Euro 917.680,00, risultanti dalla consulenza tecnica di parte prodotta dalla stessa società nel giudizio di appello, laddove la CTR ha invece assunto quali componenti negativi quelli, pari a Euro 679.461,00, corrispondenti alle operazioni passive risultanti dal quadro VF della dichiarazione IVA per l’anno 2007 in considerazione;
in ordine logico, deve essere ora esaminato il terzo motivo;
le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato i principi di diritto secondo cui, “(i)n caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, la dichiarazione integrativa può essere presentata non oltre i termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 se diretta ad evitare un danno per la P.A. (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8), mentre, se intesa, ai sensi del successivo comma 8 bis, ad emendare errori od omissioni in danno del contribuente, incontra il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d’imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante, fermo restando che il contribuente può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento ed, in ogni caso, opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria” (Cass., S.U., 30/06/2016, n. 13378; in senso conforme, successivamente, Cass., 11/05/2018, n. 11505, 30/10/2018, n. 27583);
con riguardo, in particolare, a quest’ultima statuizione, le Sezioni unite – considerato “il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario”, il cui oggetto è “l’accertamento circa la legittimità della pretesa impositiva”, con la conseguenza che, “in tal caso, non si verte in tema di “dichiarazione integrativa” ex art. 2 (del D.P.R. n. 322 del 1998), o di richiesta di rimborso ex art. 38 (del D.P.R. n. 602 del 1973)” – hanno ritenuto che, sulla base dei principi di capacità contribuiva (di cui all’art. 53 Cost., comma 1) e di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria (di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1), al contribuente dovesse essere riconosciuta la possibilità, indipendentemente dal rispetto del termine stabilito dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis di opporsi in sede contenziosa alla maggiore pretesa dell’amministrazione finanziaria allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione e incidenti sull’obbligazione tributaria;
alla luce dei rammentati principi affermati dalle Sezioni unite, risulta evidente che nessun error in iudicando ha commesso la CTR col ritenere che – indipendentemente dall’essere o no decaduta dalla possibilità di emendare in sede amministrativa l’errore dichiarativo asseritamente commesso – la società contribuente poteva comunque fare valere tale errore in sede contenziosa per opporsi alla pretesa impositiva azionata dall’amministrazione finanziaria con l’impugnata iscrizione a ruolo dell’imposta, la quale era stata operata, sempre in assunto, in dipendenza dello stesso errore;
il secondo motivo non è fondato sotto entrambi in profili in cui è articolato;
secondo la giurisprudenza di questa Corte, si ha domanda nuova inammissibile in appello – per modificazione della causa petendi quando il diverso titolo giuridico della pretesa, dedotto innanzi al giudice di secondo grado, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, comporti il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato e, introducendo nel processo un nuovo tema di indagine e di decisione, alteri l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, in modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado (Cass., 16/02/2012, n. 2201, 23/07/2020, n. 15730);
si è altresì affermato che, nel processo tributario d’appello, si ha domanda nuova, come tale improponibile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, quando il contribuente, nell’atto di gravame, introduce una causa petendi nuova e fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, sicché risulti inserito nel processo un nuovo tema di indagine (Cass., 30/07/2007, n. 16829, n. 15730 del 2020);
nel ricorso introduttivo, la società contribuente dedusse che “la dichiarazione che è stata trasmessa dalla società, per mero errore materiale e/o formale non presentava il quadro relativo ai costi deducibili dall’Irap”;
nel ricorso in appello, la stessa contribuente precisò che “infatti il quadro IQ relativo all’IRAP non riporta alcun costo di gestione, il quadro VF relativo all’IVA (regolarmente compilato) riporta i costi di gestione pari ad Euro 679.461,00. Il dato sui costi dovuti agli acquisti da riportare in entrambi i quadri era lo stesso, ma mentre nel quadro VF questo è stato diligentemente riportato, nel quadro IQ relativo all’IRAP questo dato veniva omesso, comportando la mancata detrazione e la erronea maggior imposta dovuta”;
con tale ricorso in appello, l’appellante non ha modificato la causa petendi ma si è limitata a esplicitare che l’errore per cui “la dichiarazione che è stata trasmessa dalla società (…) non presentava il quadro relativo ai costi deducibili dall’Irap”, dedotto nel ricorso introduttivo, era specificamente consistito nel non indicare in detto quadro (IQ) lo stesso importo di Euro 679.461,00 che era stato indicato, quale ammontare delle operazioni passive, nel quadro VF della dichiarazione IVA;
da ciò discende, da un lato, che correttamente la CTR ha assunto la suddetta somma di Euro 679.461,00 come importo che la società contribuente aveva chiesto di riconoscere come componente negativo ai fini della determinazione della base imponibile dell’IRAP e, dall’altro lato, che la stessa CTR non ha “travisato”, sotto il profilo denunciato, il principio di non contestazione (di cui all’art. 115 c.p.c.), atteso che, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, non può reputarsi avere “riten(uto) che occorresse la specifica contestazione dell’Ufficio per poter dichiarare la novità della domanda volta al riconoscimento di un certo importo di costi deducibili”;
in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;
non occorre provvedere sulle spese atteso che R.R. & E. s.n.c. non ha svolto attività difensiva;
poiché la ricorrente è un’amministrazione dello Stato ammessa alla prenotazione a debito, non sussistono i presupposti per il pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Cass. S.U., 08/05/2014, n. 9938).
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2022