Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5273 del 01/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 01/03/2017, (ud. 23/11/2016, dep.01/03/2017),  n. 5273

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21482/2015 proposto da:

V.A., C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e

difesa dall’Avvocato ROBERTO CARLI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

VITTORIA COLONNA 40, presso lo studio dell’avvocato DAMIANO LIPANI,

che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 201/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 06/07/2015 R.G.N. 126/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito l’Avvocato CARLI ROBERTO;

udito l’Avvocato MAZZONE GIORGIO per delega orale Avvocato LIPANI

DAMIANO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza 6 luglio 2015, la Corte d’appello di Ancona rigettava l’impugnazione di V.A. del licenziamento per giusta causa intimatole il 21 marzo 2013 dalla datrice Poste Italiane s.p.a., in accoglimento del suo reclamo principale e assorbimento di quello incidentale della lavoratrice: così riformando la sentenza di primo grado, che invece l’aveva accolta.

A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva la fondatezza dell’addebito disciplinare contestato il 16 febbraio 2013 (di emissione di un contratto di sottoscrizione di polizza senza apposizione della propria firma, quale direttrice dell’ufficio postale di (OMISSIS) e lasciandolo anzi nella disponibilità della dipendente M.V. pure non abilitata, a nome di S.N. senza alcun accertamento sulle condizioni per la sua regolarità e piuttosto con falsificazione della sua sottoscrizione, nè disposizione di alcun blocco, a seguito dell’appresa morte della predetta dal mese di (OMISSIS), del deposito a risparmio nominativo, collegato alla polizza e cointestato alla defunta e alla figlia C.M.R.: azzerato dopo la morte della prima da due prelievi in date (OMISSIS)), in violazione degli obblighi prescritti dagli artt. 2104, 2105 c.c., da artt. 52 a 55 del CCNL del 14 aprile 2011 e tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra le parti.

Essa ravvisava la piena imputabilità alla direttrice, per l’essenzialità del suo ruolo, del fatto, comportante un rilevantissimo danno di immagine alla società datrice, che aveva proceduto ad una contestazione ampiamente motivata, nè tardiva (sia per l’epoca di acquisizione della documentazione necessaria dal legale incaricato da C.M.R. di incassare la polizza e che aveva denunciato la falsità della sottoscrizione di S.N., sia per la complessità degli accertamenti operati), nè pregiudizievole del diritto di difesa della lavoratrice incolpata, in relazione alla sua disattesa richiesta di documentazione, pure generica e comunque irrilevante rispetto alla sostanza dell’inadempimento contestato.

Con atto notificato il 3 settembre 2015, V.A. ricorre per cassazione con nove motivi, cui resiste Poste Italiane s.p.a. con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, artt. 2104, 2106 e 2119 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per il mancato rispetto del principio di immutabilità della contestazione disciplinare dalla Corte territoriale con il passaggio da un addebito di responsabilità diretta della lavoratrice quale autrice di un fatto, in conseguenza di propri atti commissivi ed omissivi ad una ravvisata responsabilità per omesso controllo ovvero insufficiente vigilanza dell’altrui operato, pure indotto psicologicamente, quale autrice mediata.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1362 c.c. e seg., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la mancata utilizzazione dei criteri ermeneutici dell’intenzione datoriale e del senso letterale delle parole nell’interpretazione degli atti unilaterali di contestazione disciplinare e di intimazione di licenziamento nell’individuazione della propria responsabilità alla stregua di autrice mediata della condotta commissiva e omissiva della collega M.V..

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18 e art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea individuazione della responsabilità propria quale autore morale e soggetto responsabile dell’operato di M.V..

Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112, 434, 437 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per il fondamento della decisione sui fatti nuovi suindicati, comportanti violazione dei principi della domanda e della corrispondenza ad essa della pronuncia e di quelli coerenti di devoluzione di quanto impugnato.

Con il quinto, la ricorrente deduce omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quali la necessaria verifica dal cliente del c.d. preventivo personalizzato dell’investimento e l’accettazione del potenziale investitore preliminari all’emissione della polizza, determinante l’arbitraria individuazione di una responsabilità propria diversa da quella contestata.

Con il sesto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, art. 53, comma 4 e art. 54, comma 3, lett. f), comma 4, lett. d), n) e comma 6, lett. c) CCNL personale non dirigente di Poste Italiane del 14 aprile 2011, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la ravvisata sussistenza di giusta causa nella rottura del vincolo fiduciario per il solo ruolo della lavoratrice e in un supposto forte pregiudizio ascritto ad un danno all’immagine neppure dedotto dalla datrice, senza alcun rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità della sanzione previsti dalla normativa contrattuale di settore.

Con il settimo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18 e art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla deduzione, fin dal ricorso introduttivo e riproposta nella memoria difensiva in sede di reclamo, di mancata affissione del codice disciplinare.

Con l’ottavo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, artt. 1175, 1375, 2119 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per il rigetto dell’eccezione di mancata messa a disposizione dalla datrice della documentazione aziendale tempestivamente richiesta, con pregiudizio per la completezza delle proprie giustificazioni in sede di audizione.

Con il nono, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, artt. 1175, 1375, 2119 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la tardività della contestazione (con lettera del 5 febbraio 2013, ricevuta il 16 febbraio 2013) di fatti risalenti (sottoscrizione della polizza di assicurazione sulla vita il 28 aprile 2008, mancato blocco del deposito di risparmio nominativo del (OMISSIS), prelievo su di esso di somme l’11 aprile 2012 e il 3 agosto 2012), appresi, non già da lettera dell’avv. Felicetti del 10 agosto 2012, ma già del 22 marzo 2012, neppure giustificata dalla complessità delle indagini.

I primi quattro motivi possono essere congiuntamente esaminati, per la loro stretta connessione, dipendente dalla convergenza nella censura di mancato rispetto del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, sotto gli illustrati profili di sua violazione diretta (primo motivo), erronea applicazione dei criteri ermeneutici di interpretazione degli atti unilaterali di contestazione disciplinare e di intimazione di licenziamento (secondo), di erronea individuazione del titolo di responsabilità della lavoratrice (terzo) e di violazione del principio di corrispondenza della pronuncia alla domanda (quarto).

Essi sono infondati.

Occorre premettere che la violazione del principio di immutabilità della contestazione attiene alla correttezza del procedimento disciplinare, che evidentemente non può che collocarsi in una fase anteriore a quella di eventuale impugnazione giudiziale del provvedimento sanzionatorio cui esso mette capo, in quanto corollario del principio di specificità della contestazione medesima.

Detto principio risponde, infatti, all’esigenza, rilevante ai fini della garanzia dell’esercizio del diritto di difesa, che i fatti addebitati siano specificamente individuati nell’atto di contestazione, secondo l’impostazione giurisprudenziale più squisitamente contenutistica di applicazione del principio esclusivamente in relazione alla funzione di garanzia di esercizio del diritto di difesa del lavoratore, con la negazione di qualsiasi profilo di illegittimità qualora in concreto nessun vulnus sia arrecato a tale diritto (Cass. 22 aprile 2015, n. 8238; Cass. 5 marzo 2010 n. 5401; Cass. 13 giugno 2005 n. 12644). Neppure verificandosi alcuna violazione del diritto di difesa, qualora sia rispettato il principio generale, in materia di sanzioni disciplinari, di assicurazione al lavoratore della possibilità di contestare l’addebito in relazione all’unico fatto materiale accertato, anche diversamente qualificato giuridicamente, con le garanzie del contraddittorio (Cass. 10 marzo 2016, n. 4725; Cass. 20 marzo 2007, n. 6638).

Ma, come ben si comprende, non di questo si tratta.

La Corte territoriale, rendendo una pronuncia coerente con la domanda e pertanto rispettosa del principio di corrispondenza della prima alla seconda, posto dall’art. 112 c.p.c., ha ritenuto la prova del fatto addebitato, senza alcuna immutazione dei fatti contestati (contenuti nella lettera 5 febbraio 2013 nella loro trascrizione in particolare a pgg. da 4 a 6 del ricorso e interpretati nel rispetto dei canoni ermeneutici, infondatamente denunciati come violati, ben applicabili anche agli atti unilaterali quale quello in esame, nei limiti di compatibilità con la loro natura: Cass. 6 magio 2015, n. 9127; Cass. 14 novembre 2013, n. 25608; Cass. 11 gennaio 2011, n. 460; Cass. 20 gennaio 2009, n. 1387), ma qualificati come disciplinarmente rilevanti sulla base del loro critico ed argomentato apprezzamento nel senso di una responsabilità della lavoratrice quale autrice non diretta, ma mediata (per le ragioni esposte ai p.ti 4 e 5, dal secondo capoverso di pg. 5 al penultimo di pg. 8 della sentenza).

Il quinto motivo, relativo ad omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, determinante l’arbitraria individuazione di una responsabilità propria diversa da quella contestata, è inammissibile.

Deve essere, infatti, esclusa alcuna omissione di esame dei fatti in questione, in particolare riguardanti la necessaria verifica dal cliente del c.d. preventivo personalizzato dell’investimento e l’accettazione del potenziale investitore preliminari all’emissione della polizza, poichè essi sono stati, al contrario, scrutinati e valutati (al primo capoverso di pg. 5 della sentenza).

Ciò comporta l’evidente incompatibilità della deduzione con il novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, in difetto di indicazione del “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, con esclusione dell’integrazione, per effetto di un omesso esame, di per sè, di elementi istruttori, del vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 26 maggio 2014, n. 11728; Cass. 17 febbraio 2011, n. 3869).

Il sesto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, art. 53, comma 4, lett. f), comma 4, lett. d), n) e comma 6, lett. c) CCNL personale non dirigente di Poste Italiane del 14 aprile 2011, per insussistenza di giusta causa nella supposta rottura del vincolo fiduciario, senza alcun rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità, è infondato.

La Corte territoriale ha proceduto ad un accertamento in fatto, con congrua ed argomentata motivazione (per le ragioni esposte al p.to 6 dall’ultimo capoverso di pg. 8 al quart’ultimo di pg. 9 della sentenza), della sussistenza della giusta causa di licenziamento, come in particolare regolata dalla contestata violazione dell’art. 54, comma 3, lett. f) CCNL personale non dirigente di Poste Italiane del 14 aprile 2011.

Ed essa ha correttamente applicato i principi di diritto in ordine al carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, in esito alla valutazione, propria del giudice di merito: da un lato, della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale in concreto da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 16 ottobre 2015, n. 21017; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 18 settembre 2012, n. 15654; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144); con particolare rigore nel settore delle attività creditizie e lato sensu finanziarie (Cass. 8 aprile 2016, n. 6901; Cass. 13 maggio 2015, n. 9802).

Deve quindi essere ribadito come l’accertamento del principio di proporzionalità sia di competenza esclusiva del giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità (Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; Cass. 7 aprile 2011, n. 7948; Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 19 gennaio 1998, n. 437), qualora, come nel caso di specie, adeguatamente motivato con l’inequivocabile riferimento comprovato alla gravità delle conseguenze della condotta contestata (dal secondo al quarto capoverso di pg. 9 della sentenza).

Il settimo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18 e art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla deduzione di mancata affissione del codice disciplinare, è infondato.

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (Cass. 1 febbraio 2010, n. 2313; Cass. 11 luglio 2012, n. 11659; Cass. 17 giugno 2013, n. 15112; Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21257; Cass. 11 novembre 2014, n. 23989), coerente con i principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, ai sensi dell’art. 111 Cost., la Corte di Cassazione può omettere la pronuncia nel merito su una questione di diritto posta con un motivo, allorchè essa risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere venga a confermare il dispositivo della sentenza di appello (Cass. 2 luglio 2015, n. 13609, con più specifico riferimento, anche in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata ai suddetti principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, alla cassazione della sentenza impugnata, con decisione della causa nel merito, nell’inutilità di un rinvio della causa al giudice di merito, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti di fatto).

Ed è questo proprio il caso qui in esame, per l’esclusione della necessità di un’indicazione nel codice disciplinare, ai fini della legittimità del provvedimento irrogativo di un licenziamento disciplinare, qualora esso si fondi sulla violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà previsti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., che integrano la stessa istituzione del rapporto, quale sua regola di disciplina fondamentale (Cass. 1 settembre 2015, n. 17366; Cass. 29 agosto 2014, n. 18462; Cass. 29 febbraio 2012, n. 3060; Cass. 18 settembre 2009, n. 20270). Essi sono stati, infatti, esplicitamente menzionati (e comunque risultando ex se dal tenore della contestazione) nella lettera 5 febbraio 2013 integralmente trascritta (in particolare nella parte al primo periodo di pg. 7 del ricorso) ed espressamente richiamati nella lettera di licenziamento 18 marzo 2013 come sua parte integrante (trascritta a pg. 9 del ricorso).

L’ottavo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, art. 1175, 1375, 2119 c.c., per mancata messa a disposizione dalla datrice della documentazione aziendale tempestivamente richiesta dalla lavoratrice, è inammissibile. Non sussiste la violazione delle norme di legge denunciate, in mancanza dei requisiti di indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche di specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110 Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

Il mezzo consiste piuttosto in una contestazione della valutazione (di immeritevolezza di accoglimento dell’istanza di esibizione documentale) operata con congrua motivazione dalla Corte (dal penultimo capoverso di pg. 10 al primo di pg. 11 della sentenza), insindacabile in sede di legittimità dell’accertamento e della valutazione probatoria di esclusiva pertinenza del giudice di merito (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694)

Il nono motivo, relativo a violazione e falsa applicazione ella L. n. 300 del 1970, artt. 7, 18, artt. 1175, 1375, 2119 c.c., per tardività della contestazione, è pure inammissibile.

Anche qui la Corte territoriale ha compiuto un accertamento in fatto, giustificato con motivazione congrua (per le ragioni esposte ai primi tre capoversi di pg. 10 della sentenza), in applicazione del principio di immediatezza relativa della contestazione, in ragione alla complessità dell’accertamento del fatto addebitato (Cass. 12 gennaio 2016, n. 281; Cass. 20 giugno 2014, n. 14103; Cass. 10 settembre 2013, n. 20719), tenuto conto del momento di effettiva conoscenza datoriale dell’inadempimento contestato al dipendente (Cass. 15 luglio 2014, n. 16138).

Ed esso neppure è stato specificamente confutato, sicchè il mezzo si rivela generico, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che ne esige l’illustrazione, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 6 luglio 2007, n. 15952).

Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna V.A. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2017

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