Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 527 del 14/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 14/01/2021, (ud. 03/11/2020, dep. 14/01/2021), n.527

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 929/2014 R.G. proposto da:

Neo Fin s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Domenico Trobia, elettivamente

domiciliata presso lo studio dell’Avv. Florangela Marano, in Roma,

Piazzale Clodio n. 61, giusta procura speciale a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui Uffici domicilia in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio,

sezione distaccata di Latina, n. 595/40/2012 depositata il 13

novembre 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 novembre 2020

dal Consigliere Luigi D’Orazio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Roberto Mucci, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del primo motivo e la dichiarazione di

inammissibilità del secondo e del terzo motivo e l’avv. Cherubini

Mattia per l’Agenzia delle Entrate.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, rigettava l’appello proposto dalla Neo Fin s.r.l. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Latina, che aveva accolto solo in parte (per i rilievi nn. 1 e 4, in parte, dell’avviso) il ricorso della contribuente presentato contro l’avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate nei suoi confronti, per l’anno 2004, per omessa dichiarazione di redditi pari ad Euro 122.472,00, con maggiore Irpeg, per Iva non fatturata per Euro 82.400,00 e per Iva indebitamente detratta per Euro 63.373,00, oltre maggiore Irap per Euro 17.157,00, rigettando per il resto. Il giudice di appello rilevava che la contribuente aveva acceso nel 2003 il conto “fatture da emettere” per Euro 300.000,00, in relazione ai costi che aveva sostenuto per acquisti dai fornitori della Vico del Cavallo s.r.l., alla quale aveva ceduto la gestione del complesso turistico Aeneas Landing oltre al ristorante e che avrebbe dovuto “ribaltare” in capo alla Vico del Cavallo (rilievo n. 2). Il conto “fatture da emettere” veniva chiuso con l’emissione di due fatture (nn. 3 e 4) che, anzichè contenere il “riaddebito” dei costi per merci e servizi, si riferivano a “canoni per fitti di azienda”, ma non poteva trattarsi di un errore formale nella redazione delle fatture. Quanto all’Iva, trattandosi di “conto d’ordine”, in quanto fatta gravare sulla prestazione di cauzioni, era una operazione finanziaria, sicchè era esclusa dall’applicazione del tributo. Inoltre, la contribuente non aveva provato che gli importi dedotti si riferivano agli oneri di urbanizzazione versarti per la definizione degli illeciti amministrativi collegati al condono edilizio, non essendo, dunque, deducibili.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la contribuente.

3. L’Agenzia delle entrate si costituisce al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza di discussione, depositando memoria scritta.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “sulla presunta indeducibilità dei costi del condono edilizio 1.a. Violazione art. 360 c.p.c., n. 3) – Violazione e falsa applicazione art. 102 Tuir – Violazione e falsa applicazione art. 116 c.p.c. Violazione e falsa applicazione art. 2697 c.c.. 1b. Violazione art. 350 5) Omessa-insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia”, in quanto il giudice di primo grado ha respinto le doglianze della contribuente in ordine al recupero a tassazione delle quote di ammortamento dei costi di condono edilizio ritenendo che la non deducibilità delle spese riguardanti “sanzioni da condono edilizio”. Con l’appello la contribuente ha evidenziato che l’Ufficio aveva disconosciuto la contabilizzazione nella voce “immobilizzazioni” del costo relativo agli esborsi monetari sostenuti per la definizione degli illeciti edilizi, attesa la loro natura sanzionatoria, non riconoscendo dunque in deduzione a titolo di “costi non inerenti” gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria sostenuti dalla Neo Fin, dovuti al Comune per il rilascio delle relative concessioni in sanatoria. In particolare, erano state depositate nel corso dell’accertamento per adesione sia l’attestazione del pagamento degli oneri connessi alla concessione edilizia in sanatoria, sia la dichiarazione del Geom. L.S., il quale aveva attestato che le somme ivi elencate non erano riconducibili nè a sanzioni nè ad oblazioni per richiesta di condono edilizio. Nella verifica fiscale, dunque, non sono stati distinti gli oneri “eventualmente per sanzioni” dagli oneri di urbanizzazione. Il giudice di appello si è limitato ad affermare che la società non ha provato con idonea documentazione che “gli importi indebitamente dedotti si riferiscono solo alle somme versate per la definizione degli illeciti”, come del resto “risultante dai registri e dalle dichiarazioni di parte”. Mancherebbe, quindi, per il giudice di appello la prova della natura dei costi sostenuti dalla contribuente, riguardanti esclusivamente gli oneri di urbanizzazione e non anche le sanzioni estintive dell’abuso condonato. In realtà, la società aveva documentato che le somme versate erano relative proprio alle “pratiche di condono” nn. 1094/S 2196/S e 892/C, come da dichiarazione del geom. L.S.. Si trattava di oneri di urbanizzazione legittimamente deducibili ai sensi dell’art. 102 Tuir come immobilizzazioni, sicchè il giudice di appello ha erroneamente applicato l’art. 2697 c.c. sulla ripartizione dell’onere della prova. Essendo pacifico che le somme afferivano al condono edilizio, era onere dell’Amministrazione accertare se parte delle stesse avessero riguardato sanzioni. Inoltre, la Commissione regionale non ha tenuto conto della documentazione prodotta dalla società.

1.1. Il motivo è fondato.

Sussiste la violazione di legge, in quanto il giudice di appello ha erroneamente applicato la regola di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c..

Invero, per questa Corte le spese affrontate da una società per provvedere al condono edilizio di edifici di sua proprietà non possono essere qualificate come “costi sanzionatori”, in quanto alla loro formazione concorrono anche oneri che non possono definirsi tali, come gli “oneri di urbanizzazione” (Cass., sez. 5, 7 settembre 2007, n. 18860; Cass., sez. 5, n. 8135/2011; Cass., sez. 5, n. 10952/2005). E’, dunque, onere dell’Amministrazione dedurre se e sotto quali profili le somme spese per condono costituiscano una forma di oblazione di di sanzioni.

Peraltro, poichè la sentenza è stata depositata il 13 novembre 2012, trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione successiva al D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012, sicchè il vizio di motivazione va enucleato come omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti.

Benchè la ricorrente abbia nella rubrica del motivo avanzato la censura alla motivazione della sentenza di appello, come “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione”, tuttavia nel corpo del motivo è stato indicato il documento non preso in considerazione dalla Commissione regionale, costituito dalla dichiarazione del geom. L.S..

Tale documento è sicuramente decisivo, in quanto in tale dichiarazione si precisa che “sono state versate ai sensi della L. n. 10 del 1977, art. 3 (oneri concessori) e non sono riconducibili nè a sanzioni comunque emesse nè ad oblazione per richiesta di condono edilizio”.

Tale documento dovrà essere preso in esame dal giudice del rinvio, che dovrà anche fare corretta applicazione della regola di riparto dell’onere della prova.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “sul recupero a tassazione dell’Iva per Euro 63.373,00. 2.a. Violazione art. 360 c.p.c., n. 3). Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633/del 1972, art. 26. 2.b. Violazione art. 350 5) Omessa-Insufficiente e Contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia”, in quanto il giudice di appello ha respinto il gravame della società limitandosi ad osservare, quanto alla indetraibilità dell’Iva, che “trattandosi di conto d’ordine, deve essere richiamata la natura finanziaria dell’operazione, esclusa dal campo di applicazione del tributo”. Nell’appello si è precisato che l’importo non detraibile traeva origine dalla fattura n. 223 del 3112-2004 (imponibile Euro 316.865,00 con Iva di Euro 63.373,00) emessa dalla società Vico del Cavallo e registrata dalla Neo Fines, riportante la causale “fattura a titolo di cauzione ricevuta”. Per l’Agenzia l’unico effetto di questa operazione è stato quello di generare un credito Iva in favore della contribuente per tale somma. L’anno successivo la Vico del Cavallo ha emesso nota di credito n. 41 del 31-12-2005 ad annullamento dell’operazione per quanto atteneva alla operazione imponibile, mentre l’imposta non era stata neutralizzata. La Neo Fin ha regolarmente registrato la fattura ricevuta dalla Vico del cavallo, portando in detrazione l’Iva relativa, trattandosi di Iva a credito, mentre nulla le potrebbe essere addebitato se la società emittente la fattura, in sede di redazione della successiva nota di credito n. 41 del 31-122005, non ha correttamente eseguito la rettifica della fattura mediante riaccredito dell’Iva pagata.

L’operazione, quindi, non avrebbe prodotto alcun danno all’Erario.

2.1. Il motivo è infondato.

Invero, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, consente al soggetto attivo di una operazione soggetta ad Iva (cessione del bene o prestazione di servizio) di recuperare l’imposta addebitata in fattura (e conseguentemente versata all’Erario) quando, per cause originarie o sopravvenute, detta operazione viene meno (in tutto o in parte) o si verifica una riduzione del relativo ammontare imponibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, comma 2, “se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli artt. 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili… il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25”.

Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26, comma 5, poi, indica il procedimento per la variazione in diminuzione dell’importo della fattura e prevede che “ove il cedente o prestatore si avvalga della facoltà di cui al comma 2, il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi dell’art. 25, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’art. 23 o dell’art. 24, nei limiti della detrazione operata, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa”.

L’art. 26, comma 8, prevede anche regole di registrazione alternative, stabilendo che ” le variazioni di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 e per quelle per errori di registrazione di cui al comma 7 possono essere effettuate dal cedente o prestatore del servizio e dal cessionario o committente anche mediante apposite annotazioni in rettifica rispettivamente sui registri di cui agli artt. 23, 24 e sul registro di cui all’art. 25″.

Per il comma 3, poi, “La disposizione di cui al comma 2 non può essere applicata dopo il decorso di un anno dall’effettuazione dell’operazione imponibile qualora gli eventi ivi indicati si verifichino in dipendenza di sopravvenuto accordo fra le parti”.

Per effettuare una variazione “in diminuzione”, poichè la facoltà è concessa al cedente o al prestatore, è proprio quest’ultimo che manifesta la sua intenzione di voler utilizzare la procedura con l’emissione di una “nota di accredito” con Iva a favore della controparte. Ai sensi del comma 5, quindi, l’Iva risultante da una variazione in diminuzione deve essere “recuperata” attraverso la “detrazione” da parte del cedente/prestatore che in precedenza l’aveva computata “a debito”; l’Iva deve essere “riversata” attraverso il computo della stessa quale Iva “dovuta”, da parte del cessionario-committente che in precedenza l’aveva computata in “detrazione”. Pertanto, il soggetto attivo dell’operazione acquista il diritto a recuperare l’Iva addebitata nella fattura originaria al cessionario/committente, mentre quest’ultimo è tenuto ad eliminare gli effetti della detrazione già contabilizzata riversando all’Erario l’imposta in precedenza detratta.

Resta ferma la fattura già emessa ed al fatto sopravvenuto può essere data rilevanza ai fini fiscali con la emissione di una nota di variazione o “nota di credito”, di contenuto uguale e di segno contrario a quello della fattura originariamente emessa.

Nella specie, però, il giudice di prime cure ha ritenuto la non applicazione dell’Iva alla operazione realizzata, descritta come “fattura a titolo di cauzione ricevuta” emessa dalla Vico del Cavallo nei confronti della contribuente.

La cauzione consiste nel versamento di un determinato importo a garanzia dell’adempimento contrattuale, sicchè, in caso di inadempimento, serva quale risarcimento del danno. Non rileva ai fini reddituali fino a quando non si verifica l’inadempimento; in tal caso costituisce componente di reddito positivo o negativo. La cauzione al termine del contratto va, infatti, restituita al soggetto che l’ha versata.

Pertanto, si è ritenuto che trattavasi di una operazione meramente “finanziaria”, rappresentata in un conto d’ordine.

I conti d’ordine sono conti contabili definiti “di memoria” e che sono destinati ad accogliere, nell’ambito del sistema informativo, tutte le poste che non costituiscono costo, ricavo, attività e passività. Fino a quando le poste sono allocate nei conti d’ordine significa che non si è verificata alcuna variazione patrimoniale e che nessun costo o ricavo ha interessato il conto economico. In genere tali conti rappresentano potenziali rischi o vantaggi.

Pertanto, poichè non si è in presenza di cessione di beni o di prestazione di servizi, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, ma solo di mere attività finanziarie, come il rilascio di una cauzione da parte della contribuente in favore della Vico del Cavallo, non è possibile applicare l’Iva, nè conseguentemente l’istituto della nota di credito.

Il giudice di appello sul punto ha correttamente affermato che “quanto all’Iva, anche su tale punto si condivide la tesi dell’ufficio e dei primi giudici, secondo cui l’Iva fatta gravare sulla prestazione di cauzioni, trattandosi di conti d’ordine, è una operazione finanziaria e pertanto è esclusa dall’applicazione del tributo”.

Tale precisa e chiara ratio decidendi non è stata in alcun modo incisa dal motivo di ricorso per cassazione, che si è dipanato solo sull’asserita mancanza di un danno per l’Erario, senza considerare che la nota di credito non era in alcun modo applicabile alla fattispecie in esame in assenza di una operazione assoggettabile ad Iva, quale una cessione di beni o una prestazione di servizi, trattandosi di una mera operazione finanziaria, costituente soltanto un conto d’ordine.

In questo caso il vizio di motivazione è, invece, inammissibile perchè configurato alla stregua del vecchio art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, senza l’indicazione di un fatto decisivo che non sarebbe stato fatto oggetto di esame da parte del giudice di appello.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “sul recupero a tassazione della ulteriore e residua Irpeg per Euro 105.342,00. 3.a. Violazione art. 360 5) – Omessa-insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia”, in quanto l’Agenzia delle entrate ha ritenuto che le fatture nn. 3 e 4 del 2004 emesse dalla contribuente nei confronti della Vico del Cavallo s.r.l., con indicazione “acconto canone affitto di azienda” costituivano ricavi non dichiarati. La contribuente, con il ricorso introduttivo, ha dedotto che tali fatture rappresentavano solo il “ribaltamento dei costi” sostenuti da essa in quanto, quale affittante l’azienda, era stata destinataria per errore di fatture da parte dei fornitori della Vico del Cavallo, società affittuaria dell’azienda. Tali documenti erano stati registrati con attribuzione al conto di “fatture da emettere”, in quanto la società avrebbe dovuto “ribaltare” alla Vico del Cavallo i costi per errore sostenuti da essa contribuente. L’ufficio, invece, avendo ritenuto che trattavasi di un conto “di natura finanziaria”, ha concluso per l’elusione della attribuzione di detto importo di Euro 300.000 dal reddito di esercizio e, quindi, dalla tassazione. Il giudice di primo grado ha evidenziato che il periodo di “locazione” si poneva a cavallo di due esercizi. Vi era stato allora un risconto maturato alla chiusura dell’esercizio 2003 pari ad Euro 170.138,89, considerando la corresponsione del fitto come contrattualmente determinato. L’importo complessivo per Euro 350.000,00 era stato erogato nel 2004 in tre “quote”, con le fatture nn. 3, 4 e 5, per Euro 150.000,00, Euro 150.000,00 ed Euro 50.000,00, quest’ultima affluita regolarmente al conto “Affitti attivi”. Era stato, poi, calcolato l’importo di Euro 194.658,00 corrispondente al risconto passivo maturato alla chiusura dell’esercizio, pari allla differenza tra l’importo del canone pagato annualmente per Euro 350.000,00 ed il precedente risconto passivo. L’Amministrazione aveva, dunque, determinato il valore della ripresa a tassazione in Euro 105.342,00, pari alla differenza tra la somma di Euro 300.000,00, ossia le fatture non confluite nel conto “Fitti Attivi” (solo la somma di Euro 50.000 vi era confluita) ed il risconto passivo di fine annuo per Euro 194.658,00.

Con l’appello la contribuente ha rilevato che, in realtà, le due fatture emesse nel 2004 dalla contribuente, nn. 2 e 3 del 2004, per l’importo complessivo di Euro 300.000,00 (Euro 150.000 per ciascuna) avevano avuto come contropartita il conto “fatture da emettere” acceso nel 2003 per rilevare i ricavi che si sarebbero conseguiti per il “ribaltamento” dei costi sostenuti per conto della Vico del Cavallo s.r.l. Per l’Ufficio nel conto “fitto attivo” del 2004 non sono state contabilizzate le due fatture nn. 3 e 4 dell’importo di Euro 150.000,00 per ciascuna. E non sarebbe stato rilevato il risconto passivo di competenza di Euro 194.658,00. Pertanto, la società non avrebbe emesso nel 2004 alcun documento a chiusura del conto “fatture da emettere”, sicchè la due fatture non sarebbero riferibili al “ribaltamento dei costi” sostenuti nel precente 2003, ma al canone di affitto del 2004. Per fare questo hanno dovuto “immaginare” l’esistenza nel 2004 di un risconto passivo per Euro 194.658,00. Del resto non si comprende in che modo sarebbe stato chiuso il risconto passivo di Euro 194.658,00. Se vi è stato un maggiore ricavo di Euro 105.342,00 nel 2004 non si comprende il rinvio ad un futuro esercizio per Euro 194.658,00. L’affitto di azienda per l’anno 2004 è stato pagato dalla affittuaria per la somma di Euro 350.000 come risulta dalla voce “fitti attivi”. Tra l’altro, nella sentenza della CTP 34/3/09 relativa al 2003 si era riconosciuto che le fatture nn. 3 e 4 del 2004 erano riferibili proprio al “ribaltamento dei costi”, sicchè era stata recuperata solo la differenza tra le fatture dei fornitori ed i costi ribaltati per un importo di Euro 4.525,61 (306.888,54 – 302.362,939.

Il giudice di appello ha concluso nel senso che “tale tesi è con tutta evidenza non condivisibile”.

3.1. Tale motivo è fondato.

Invero, la tesi della contribuente muove dalla contabilizzazione nel 2003 della voce “fatture da emettere” per Euro 300.000,00″, a titolo di “ribaltamento dei costi” nei confronti della affittuaria di azienda Vico del Cavallo. Insomma, poichè i fornitori della affittuaria per l’anno 2003 avevano per errore fatturato i costi delle forniture alla contribuente, questa intendeva nel 2004 “ribaltare i costi”. Nel 2004 sono state poi emesse le due fatture nn. 3 e 4 per l’importo di Euro 150.000,00 per ciascuna a chiusura della voce contabile relative alle “fatture da emettere”. Nelle fatture però, anzichè la motivazione “ribaltamento dei costi” era indicata la causale “acconto canone affitto di azienda”. Per la contribuente si trattava di un mero errore. Nella dichiarazione dei redditi la società contribuente ha dichiarato nel 2004 ricavi per “fitti attivi” per Euro 350.000,00 come previsto dal contratto. Occorre tenere distinte allora le fatture attive nn. 3 e 4 dell’importo per Euro 300.000,00, relativo alle “fatture da emettere” nel 2003, come mero “ribaltamento dei costi”, dai canoni ricevuti dalla affittuaria per la somma annua di Euro 350.000,00 come da previsione contrattuale, regolarmente dichiarati nella denuncia dei redditi per l’anno 2004. Nel 2003 vi era effettivamente un “risconto passivo” per la somma di Euro 170.138,89 ed è circostanza pacifica tra le parti. Il “risconto passivo” costituisce una quota di “ricavo” di competenza dell’anno “prossimo”, ma già incassata interamente quest’anno. Risponde, quindi, al principio di competenza. Ciò accade quando un contratto di locazione, nel caso in esame un affitto di azienda, si trova a cavallo tra due annualità, quindi nel caso che ci riguarda tra il 2003 ed il 2004. Pertanto, se si incassa l’intero credito (il canone di affitto di azienda di Euro 350.000,00 annui) nel 2003, si incassa un ricavo anche di competenza dell’anno prossimo (il 2004), sicchè va eliminata la parte che non è di competenza di quest’anno (2003), ossia quella dopo il 31/12 nello schema del tempo. Pertanto, al bilancio 2003 nel conto economico, tra i ricavi, si indica la somma di competenza degli ultimi mesi del 2003 (dividendo il totale del ricavo annuo per 12 mesi si ottiene il ricavo mensile), se l’affitto è stato stipulato prima di dicembre 2003, ed allo stato patrimoniale nel “passivo” si indica l’importo del risconto passivo. Il “risconto passivo” costituisce la rettifica di un ricavo contabilizzato ma non interamente di competenza (regolamento anticipato). Tale risconto è come un debito, in quanto rappresenta un obbligo verso chi utilizza i servizi, sicchè nell’esercizio successivo tale debito scompare a fronte dei fitti attivi di competenza.

L’Agenzia delle entrate per il 2004 inserisce un nuovo “risconto passivo” per Euro 194.658,00, ma per il 2004 il canone di affitto doveva essere pagato per intero e registrato in contabilità per intero, in quanto per tale anno l’affitto di azienda non ricadeva in anni diversi, sicchè non era applicabile la rettifica di bilancio dei risconti passivi.

A fronte di questa complessa problematica il giudice di appello si è limitato a ritenere non fondata la tesi della contribuente con la lapidaria affermazione “tale tesi è con tutta evidenza non condivisile”.

Nella specie, è vero che la sentenza è stata depositata il 13-11-2012, con applicazione del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione successiva alle modifiche di cui al D.L. n. 82 del 2012, applicabile alla sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012, ma la ricorrente ha chiesto pronunciarsi la nullità della sentenza di appello anche per omessa motivazione, quindi al di sotto del minimum costituzionale. Tale doglianza è prospettabile anche con la nuova versione del vizio di motivazione.

4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in ordine ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie il primo ed il terzo motivo; rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, sezione distaccata di Latina, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 3 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2021

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