Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5268 del 04/03/2010

Cassazione civile sez. I, 04/03/2010, (ud. 26/11/2009, dep. 04/03/2010), n.5268

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 27845/2007 proposto da:

P.B., M.D., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA LAZIO 20/C, presso lo STUDIO LEGALE COGGIATTI,

rappresentati e difesi dall’avvocato RICCI Tommaso, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto R.E.R. 273/06 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO

del 10.10.06, depositato il 06/12/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/11/2009 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO DIDONE.

E’ presente il P.G. in persona del Dott. MARCO PIVETTI.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

1. – La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è del seguente tenore: ” P.B. e M.D. chiedono, per un motivo, la cassazione del decreto, emesso il 6 dicembre 2006, con cui la Corte d’appello di Catanzaro ha liquidato loro la somma di Euro 2.855,00 a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale patito in conseguenza della durata, ritenuta irragionevole in misura di anni due, mesi dieci e giorni otto, di un giudizio di scioglimento della comunione iniziato davanti al Tribunale di Palmi il 9 dicembre 1998 e definito in primo grado con sentenza del 17 ottobre 2005.

Non resiste il Ministero della Giustizia.

Osserva:

Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2, commi 2 e 3, e art. 6 CEDU nonchè vizi di motivazione. Dopo il petitum essi formulano il seguente quesito di diritto: Accerti la Suprema Corte se vi è violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 e art. 3, dell’art. 6 della CEDU, e dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nel caso in cui non venga esattamente computato il periodo eccedente il termine ragionevole di durata di un processo civile di primo grado e altresì venga negato il diritto all’equo indennizzo a tutti quei soggetti – nel caso di specie, parti in un giudizio civile introdotto con citazione notificata il 9.12.1998 e concluso con sentenza emessa il 17.10.2005 – che abbiano subito un danno non patrimoniale derivante dall’eccessiva durata del detto processo.

Il motivo va dichiarato inammissibile, in quanto il correlativo quesito di diritto non ha alcuna attinenza al decisimi.

Infatti al quesito, così come proposto, non può che darsi risposta (ovviamente) affermativa, senza che tuttavia essa possa incidere sulla decisione, la quale ha risolto questioni concrete, ea sunt la determinazione della ragionevole durata del processo in generale e con riferimento al caso di specie, la valutazione, ai predetti fini, del comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio presupposto, la liquidazione unitaria del danno in caso di consorti in lite. Relativamente alle questioni cennate andava posto il quesito, formulato, invece, in termini di assoluta astrattezza.

In altri termini, con il sopra riportato quesito i ricorrenti si limitano a chiedere a questa Corte di accertare la denunziata violazione di norme di legge – tra cui, peraltro, l’art. 360 c.p.c., che non è suscettibile di essere violato, essendo norma strumentale e il vizio di motivazione, senza individuare in alcun modo l’esistenza di una discrasia tra la (non indicata) ratio decidendi e il (non enunciato) principio di diritto che il ricorrente vorrebbe fosse posto a fondamento di una diversa decisione. Il quesito, dunque, si riduce alla semplice sollecitazione all’esercizio della funzione nomofilattica e cioè a quella generica istanza di decisione sulla esistenza della violazione denunziata nel motivo che costituiva l’incombente del difensore ricorrente nella previsione anteriore alla novella del 2006.

La mancanza di conferenza del quesito rispetto alle rese statuizioni comporta, quindi, come accennato, che la risposta positiva allo stesso sia totalmente priva di rilevanza nella fattispecie, in quanto il deciso attiene a questioni concrete (come sopra riportate). Sotto questo profilo, il ricorrente non ha interesse a proporre quel quesito dal quale non può trarre alcuna conseguenza concreta utile ai fini della causa. Il caso di quesito di diritto inconferente va assimilato, quindi, all’ipotesi di mancanza del quesito, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., con conseguente inammissibilità del motivo.

Ove si condividano i superiori rilievi, sussistono i presupposti per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 375 c.p.c.”.

2. – Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, condividendo le argomentazioni che le fondano e che conducono alla declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Nulla va disposto in ordine alle spese del giudizio di legittimità stante l’assenza di attività difensiva da parte del Ministero intimato.

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2010

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