Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5234 del 25/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 25/02/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 25/02/2021), n.5234

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10155/2017 proposto da:

I.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLO DI DONO

3/A, presso lo studio degli avvocati PAOLO DE BERARDINIS, e VINCENZO

MOZZI, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MCCANN WORLDGROUP S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27,

presso lo STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e difesa

dagli avvocati PAOLO ZUCCHINALI, e VITTORIO PROVERA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4632/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/10/2016 r.g.n. 3677/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. con sentenza 26 ottobre 2016, la Corte d’appello di Roma dichiarava inammissibile la domanda di I.A., già dirigente di McCann Erickson Italia (ora McCann Worldgroup) s.r.l. dall’ottobre 1983 al 31 ottobre 2008, di condanna della società datrice al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 176.651,68 a titolo di mancato computo dei bonus annuali ai fini di tredicesima, quattordicesima mensilità e T.f.r., oltre accessori e relativi contributi: così riformando la sentenza di primo grado, che l’aveva invece accolta;

2. a motivo della decisione, la Corte capitolina riteneva detta inammissibilità, ai sensi dell’art. 2113 c.c., comma 2, per la consapevole ed inequivoca rinuncia della lavoratrice ad ogni ulteriore pretesa economica, derivante dal rapporto con la società, espressa nell’accordo del 31 ottobre 2008, confermato dal successivo del 23 novembre 2010, alla luce del chiaro tenore letterale e delle scrutinate risultanze istruttorie (in particolare, per la posizione apicale in essa rivestita, oltre che di dirigente, di Presidente del C.d.A. fino al novembre 2010 ad oltre due anni dalla risoluzione consensuale del rapporto e valorizzazione del comportamento anche successivo);

3. con atto notificato il 21 aprile 2017, la lavoratrice ricorreva per cassazione avverso la sentenza con quattro motivi, cui la società resisteva con controricorso;

4. entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. la ricorrente deduce violazione dell’art. 2113 c.c., per l’erronea qualificazione degli accordi tra le parti quali rinuncia, in difetto persino di indicazione di specifici diritti, siccome contenenti espressioni di mero stile, in assenza poi di maturazione del diritto al T.f.r. al tempo del primo accordo e per il riferimento del secondo a questioni diverse dal pregresso rapporto di lavoro, cessato da oltre due anni (primo motivo); violazione degli artt. 1362 c.c. e segg. e art. 115 c.p.c., per erronea interpretazione delle lettere unilateralmente predisposte dalla società datrice (con adesione della lavoratrice con mera dichiarazione di gradimento) del 31 ottobre 2008 e del 23 novembre 2010 come rinunce a diritti neppure specificati, in violazione del principale criterio ermeneutico di letteralità espressiva della comune volontà delle parti, rispetto al quale valorizzato prioritariamente quello sussidiario del comportamento delle parti; neppure essendo in tali lettere ravvisabile alcuna transazione, non potendo le espressioni impiegate delle parti, per quanto generali, comprendere oggetti al di fuori della contrattazione tra le stesse (art. 1364 c.c.) (secondo motivo); violazione e falsa applicazione dell’art. 1965 c.c., per l’assenza di reciprocità delle rispettive concessioni tra le parti, quale elemento costitutivo di una transazione, a voler ritenere l’individuazione di un tale atto negoziale da parte della Corte territoriale (terzo motivo); omesso esame di un fatto decisivo, consistente nel non avere la Corte territoriale, nell’erronea riforma della sentenza del Tribunale con una diversa motivazione, neppure disposto un’istruzione probatoria, nonostante il richiamo della lavoratrice alle proprie deduzioni probatorie, senza considerare nè le allegazioni del ricorso introduttivo nè i documenti ad esso allegati (quarto motivo);

2. essi, tutti congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati;

3. la Corte territoriale ha scrutinato i due accordi del 31 ottobre 2008 e del 23 novembre 2010 orientata alla ricerca della comune volontà delle parti, in applicazione dell’art. 1362 c.c. e pertanto del criterio ermeneutico che deve prevalere, quando riveli con chiarezza e univocità la volontà comune delle stesse, sicchè non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti (Cass. 28 agosto 2007, n. 18180; Cass. 21 agosto 2013, n. 19357);

3.1. è noto che esso richieda, ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, che il giudice, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, anche quando il significato letterale sia apparentemente chiaro, verifichi se quest’ultimo sia coerente con la causa del contratto, con le dichiarate intenzioni delle parti e con la condotta delle stesse (Cass. 9 dicembre 2014, n. 25840; Cass. 10 maggio 2016, n. 9380);

3.2. la Corte capitolina ha esattamente applicato i suenunciati principi di diritto, facendo poi corretto ricorso, in via integrativa al fine della ricostruzione della volontà delle parti, “anche” al loro “comportamento successivo alla conclusione del contratto” (così al secondo capoverso di pg. 3 della sentenza), come previsto dall’art. 1362 c.c., comma 2;

3.3. l’esigenza di una chiara e piena consapevolezza della lavoratrice di abdicare o comunque di transigere sui propri diritti (Cass. 31 gennaio 2011, n. 2146; Cass. 6 maggio 2015, n. 9120; Cass. 15 settembre 2015, n. 18094; Cass. 18 settembre 2019, n. 23296) è stata dalla Corte doverosamente riscontrata in fatto, in relazione a quelli oggetto specifico di domanda (mancato computo dei bonus annuali ai fini della tredicesima e quattordicesima mensilità e del T.f.r.), evidentemente ricompresi nella “reciproca soddisfazione” delle parti datrice e lavoratrice e nella dichiarazione di entrambe di “essere integralmente soddisfatte” (secondo le testuali espressioni utilizzate nei due accordi, come trascritti al primo capoverso di pg. 3 della sentenza), in riferimento al rapporto intrattenuto (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 3 al terzo di pg. 4 della sentenza): il che costituisce un accertamento in fatto del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione (Cass. 25 gennaio 2008, n. 1657; Cass. 28 agosto 2013, n. 19831; Cass. 31 maggio 2018, n. 13967), nel caso di specie insussistenti;

3.4. l’interpretazione giudiziale del testo dei due accordi risulta pertanto assolutamente plausibile e congruamente argomentata, per le ragioni richiamate, sicchè le censure della ricorrente convergono in una mera contrapposizione dell’interpretazione propria ad essa, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 10 maggio 2018, n. 11254), alla fine consistendo nella critica del risultato interpretativo in sè (Cass. 8 agosto 2019, n. 21198);

3.5. infine, non si configura il vizio motivo denunciato, in assenza di un fatto storico, di cui sia stato omesso l’esame, alla luce del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, piuttosto risolvendosi in una contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415);

4. per le suesposte ragioni il ricorso deve essere rigettato, con la statuizione sulle spese secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la lavoratrice alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2021

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