Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5233 del 21/02/2019

Cassazione civile sez. I, 21/02/2019, (ud. 10/10/2018, dep. 21/02/2019), n.5233

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10989/2015 proposto da:

G.M., Ga.Pa., L.L., Pa.Vi.,

P.G., Pe.Gu., Pe.Vi., elettivamente

domiciliati in Roma, Via Merulana n. 234, presso lo studio

dell’avvocato Della Valle Cristina, rappresentati e difesi

dall’avvocato Prozzo Roberto, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

(OMISSIS) S.c. a r.l. in scioglimento ex art. 2544 c.c., in persona

dei Commissari liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliata in

Roma, Via Sicilia n. 50, presso lo studio dell’avvocato Mazzanti

Pietro, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

Cosentino Antonella, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 949/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 04/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/10/2018 dal cons. Dott. VALITUTTI ANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO, che ha concluso per l’inammissibilità per carenza

di interesse sopravvenuta, in subordine rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del Ministero delle Attività produttive in data 7 marzo 2003, la (OMISSIS) società coop. a r.l. veniva posta in liquidazione, ai sensi dell’art. 2544 c.c. (ora art. 2545 septiesdecies c.c.). Con sentenza n. 578/2006 – emessa a seguito di ricorso del P. M. e dei Commissari liquidatori, i quali avevano, tuttavia, richiesto esclusivamente la dichiarazione dello stato di insolvenza – il Tribunale di Ariano Irpino dichiarava il fallimento della medesima cooperativa. Con successiva pronuncia n. 10/2008, il medesimo Tribunale accoglieva l’opposizione proposta dai Commissari liquidatori e, ritenendo che lo scioglimento della società e la sua messa in liquidazione ex art. 2544 c.c. precludessero la dichiarazione di fallimento della medesima, ai sensi della L. Fall., art. 196, revocava la dichiarazione di fallimento della cooperativa e dichiarava lo stato di insolvenza, procedura concorsuale parificata alla liquidazione coatta amministrativa, a norma della L. n. 400 del 1975, art. 1.

Tale ultima decisione veniva confermata dalla Corte d’appello di Napoli, con pronuncia n. 2116/2009, avente ad oggetto la sola revoca dello stato di insolvenza, essendo passata in giudicato – per difetto di impugnazione – la revoca del fallimento effettuata dal Tribunale di Ariano Irpino.

2. Con atto di citazione notificato il 4 marzo 2008, la (OMISSIS) in persona dei liquidatori, ai sensi della L. Fall., artt. 146 e 208, conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ariano Irpino, Pe.Vi., Pa.Nu.Vi., Pa.Vi., Pe.Gu., L.L., D.L.A. e M.F., componenti del consiglio di amministrazione della cooperativa al 7 marzo 2003, nonchè G.M., Ga.Pa. e P.G., i primi due componenti ed il terzo presidente del collegio sindacale, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni, quantificati in Euro 3.140.487,68, in conseguenza degli atti di mala gestio e della violazione dei doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo ad amministratori e sindaci, da essi posti in essere e che avevano determinato lo stato di dissesto della società.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 89/2009, dichiarava inammissibile la domanda per difetto di legitimatio ad processum dei Commissari liquidatori, compensando integralmente le spese di lite.

3. Con sentenza non definitiva n. 949/2014, depositata il 4 marzo 2014, la Corte d’appello di Napoli, così provvedeva: 1) in accoglimento del primo motivo di gravame proposto dalla (OMISSIS), dichiarava che i Commissari liquidatori erano attivamente legittimati a proporre l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci della cooperativa; 2) rigettava le eccezioni pregiudiziali degli appellati di inammissibilità del gravame per genericità e dell’azione di responsabilità per difetto dei presupposti legali, nonchè l’eccezione preliminare di prescrizione quinquennale proposta dai medesimi; 3) disponeva la rimessione della causa sul ruolo per l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio, al fine di accertare – in relazione al periodo in cui ciascun amministratore e sindaco era rimasto in carica – l’eventuale violazione degli obblighi sugli stessi incombenti, e di determinare e quantificare i danni arrecati alla cooperativa in conseguenza di tali violazioni.

4. Per la cassazione di tale sentenza hanno, quindi, proposto ricorso G.M., Ga.Pa., P.G., Pe.Vi., Pa.Vi., Pe.Gu. e L.L. nei confronti della (OMISSIS) società coop. a r.l., in scioglimento ex art. 2544 c.c., affidato a quattro motivi. La resistente ha replicato con controricorso e con memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via pregiudiziale, osserva la Corte che non sussistono, nel caso di specie, i presupposti per la pronuncia di cessazione della materia del contendere, sebbene dedotta da entrambe le parti.

1.1. Ed infatti, va, in primo luogo, rilevato che la sentenza definitiva della Corte d’appello di Napoli n. 3026/2017, depositata il 29 giugno 2017, manca dell’attestazione del cancelliere di passaggio in giudicato, ai sensi dell’art. 124 disp. att. c.p.c., da reputarsi indispensabile ai fini della prova della formazione del giudicato interno. La predetta norma prevede, invero, che il cancelliere certifica – sia nel caso in cui la sentenza sia stata notificata, ai fini del decorso del termine breve, sia in caso di operatività, per mancata notifica, del termine lungo ex art. 327 c.p.c. – che avverso la decisione, della quale occorre provare il passaggio in giudicato, non è stato proposto, nei termini di legge, appello o ricorso per cassazione, nè istanza di revocazione per i motivi di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5. Orbene – atteso il carattere pubblicistico del giudicato interno ed esterno, dotati di “vis imperativa” e indisponibilità per le parti, in quanto assimilabili per natura ed effetti, anche in relazione all’applicazione dei canoni interpretativi, agli atti normativi (Cass. Sez. U., 09/05/2008, n. 11501) – la sola, generica, ammissione dei contendenti, circa il passaggio in giudicato della decisione definitiva, non può surrogare la predetta certificazione ufficiale e costituire di per sè prova del giudicato.

Ne discende che non può ravvisarsi, nella specie, un’ipotesi di cessazione della materia del contendere, dal momento che soltanto dal passaggio in giudicato della sentenza definitiva può conseguire l’intangibilità del decisum, e la conseguente mancanza di interesse delle parti alla definizione del giudizio di cassazione – (cfr. Cass. Sez. U., 29/03/2013, n. 7932) – avente ad oggetto la sentenza non definitiva pronunciata tra le stesse parti.

1.2. In secondo luogo, va comunque osservato che la cessazione della materia del contendere postula che sopravvengano nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra i contendenti e, con ciò, dell’interesse al ricorso. La composizione in tal modo della controversia giustifica, non già l’inammissibilità del ricorso in cassazione bensì, da un lato, la rimozione, con cassazione senza rinvio, delle sentenze già emesse (quella oggetto del ricorso per cassazione e quella di primo grado), prive di attualità e, dall’altro, una pronuncia finale sulle spese, secondo una valutazione di soccombenza virtuale (Cass., 13/09/2007, n. 19160; Cass., 07/05/2009, n. 10553; Cass., 21/03/2000, n. 3311).

Nel caso concreto, per contro, deve ritenersi che permanga un contrasto tra le parti, avendo, non soltanto entrambe richiesto la liquidazione delle spese a proprio favore, ma avendo altresì la resistente (OMISSIS) avanzato – in memoria – tale richiesta di liquidazione delle spese, non alla stregua del criterio della soccombenza virtuale, bensì sulla base di valutazioni concernenti l’applicabilità, nella specie, della riserva di impugnazione differita ex art. 361 c.p.c., alla quale la controparte non avrebbe, erroneamente, fatto ricorso, decidendo di impugnare immediatamente la sentenza non definitiva.

2. Premesso quanto precede, va peraltro osservato, quanto a tale deduzione della resistente, che – al di là delle apprezzabili ragioni di opportunità che militerebbero, in funzione dell’unitarietà del giudizio di impugnazione e dell’economia dei giudizi, a favore del differimento dell’impugnazione avverso la sentenza di appello non definitiva, ai sensi dell’art. 361 c.p.c., dedotte dalla controricorrente nella memoria depositata – non può revocarsi in dubbio che la suddetta riserva di ricorso rientri nella facoltà discrezionale della parte, non censurabile in questa sede.

Ed invero, nel sistema di riserva facoltativa d’impugnazione contro sentenza non definitiva, la mancata o tardiva esplicitazione della riserva comporta solo la decadenza dall’impugnazione differita di quel provvedimento, ma non ne preclude quella immediata, che deve avvenire nel rispetto dei termini ordinari ex artt. 325 e 327 c.p.c. (Cass., 04/02/2016, n. 2188; Cass., 09/01/2007, n. 212).

3. Passando, quindi, all’esame del merito, va rilevato che, con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2310 c.c. e della L. Fall., artt. 197 e 198, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1. Gli istanti si dolgono del fatto che la Corte d’appello abbia erroneamente ritenuto sussistente la legittimazione attiva in primo grado, nonchè la legittimazione a proporre appello avverso la decisione di prime cure, in capo al Commissari liquidatori della (OMISSIS), M.A. e Ma.Ro., sebbene la nomina di quest’ultimo come Commissario liquidatore non fosse mai stata iscritta nel registro delle imprese. La pronuncia di appello concreterebbe, pertanto, ad avviso degli esponenti una palese violazione dell’art. 2310 c.c. (il cui disposto è estensibile, in forza del combinato disposto degli artt. 2452 e 2516 c.c., nel testo applicabile ratione temporis, anche alle società cooperative), a tenore del quale la rappresentanza della società, anche in giudizio, spetta ai liquidatori solo dall’iscrizione della loro nomina nel registro delle imprese. Sicchè, risultando agli atti la sola iscrizione del M. e non anche quella del Ma., la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto anche con il disposto della L. Fall., art. 198, secondo cui la rappresentanza della società in liquidazione deve essere esercitata congiuntamente da almeno due dei liquidatori.

3.2. La censura è inammissibile e comunque infondata.

3.2.1. Sotto il primo profilo, è necessario, invero, che il ricorso per cassazione contenga, a pena di inammissibilità, l’esposizione dei motivi per i quali si richiede la cassazione della sentenza impugnata, aventi i requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass., 25/02/2004, n. 3741; Cass., 23/03/2005, n. 6219; Cass., 17/07/2007, n. 15952; Cass., 19/08/2009, n. 18421). In particolare è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia oggetto di impugnazione (Cass., 10/08/2017, n. 19989).

Nel caso concreto, per contro, gli istanti non censurano in alcun modo la ratio fondamentale della decisione di appello, fondata, non già sul disposto dell’art. 2310 c.c., bensì sul disposto della L. Fall., art. 200, norma speciale in materia di liquidazione coatta amministrativa, applicabile – in forza del rinvio contenuto nella L. n. 400 del 1975, art. 1 (nel testo applicabile ratione temporis) anche allo scioglimento della società ex art. 2544 c.c.. Tale norma prevede che, “dalla data del provvedimento che ordina la liquidazione”, i commissari liquidatori subentrano in tutti ii rapporti sostanziali e processuali della società, assumendo – dalla stessa data – la legittimazione processuale nelle controversie, anche in corso, aventi ad oggetto rapporti di diritto patrimoniale dell’impresa.

La doglianza sotto tale profilo, è da considerarsi, pertanto,. inammissibile.

3.2.2. Nel merito, la censura è comunque infondata.

Ed invero, le esigenze di certezza giuridica espresse nei generale principio di conservazione degli effetti degli atti legalmente compiuti nelle procedure concorsuali, ricavabile dalla L. Fall., art. 21 (riprodotto nel D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 18, comma 15), del D.Lgs. n. 270 del 1999, art. 10, comma 2 e art. 33 (per l’amministrazione straordinaria) e del D.L. n. 347 del 2003, art. 4 conv. nella L. n. 39 del 2004, estensibile – nei limiti di compatibilità – alla liquidazione coatta amministrativa, comportano che, in relazione alla costituzione dei rapporti processuali attinenti ai soggetti sottoposti a tale procedura, l’apertura della stessa – con la nomina dei suoi organi sulla base di un provvedimento formalmente idoneo e la loro immissione nel possesso e nella gestione del patrimonio – costituisce un “fatto giuridico” di per sè idoneo a radicare la legittimazione processuale, attiva e passiva, del commissario liquidatore in relazione ai rapporti giuridici che formano oggetto della liquidazione.

E ciò a prescindere dalla validità intrinseca del predetto provvedimento, e finchè esso non venga rimosso dalla stessa amministrazione ovvero annullato, dichiarato nullo o giuridicamente inesistente con pronuncia giurisdizionale passata in giudicato che renda non più proseguibile la procedura, e che produrrà, dunque, effetti solo “ex nunc” (Cass. Sez. U., 24/12/2009, n. 27346).

3.3. Per tali ragioni, pertanto, il motivo non può trovare accoglimento.

4. Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.1. Gli esponenti censurano la decisione di appello nella parte in cui avrebbe omesso di esaminare il fatto, decisivo della controversia e che aveva formato oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla conoscenza effettiva dello stato di dissesto della società da parte dei creditori sociali, ai fini della fissazione del momento di decorrenza della prescrizione quinquennale, ex art. 2395 c.c., dell’azione proposta dai liquidatori nei confronti degli amministratori e dei sindaci della cooperativa odierna resistente. Sostengono, invero, i ricorrenti che già dai bilanci al 31 dicembre 1997 ed al 31 dicembre 1998 “risultava che vi era un notevole ammontare di crediti “in sofferenza” o “affidati al legale” per il recupero”, per il che – alla data di proposizione dell’azione di risarcimento dei danni nei confronti degli odierni ricorrenti (4 marzo 2008) – il suddetto termine di prescrizione era già abbondantemente decorso.

4.2. Il motivo è inammissibile.

4.2.1. Premesso, invero, che l’accertamento circa la concreta decorrenza del termine prescrizionale costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice del merito (Cass., 29/07/1974, n. 2292), ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da un accertamento fattuale, impugnabile in cassazione nei limiti del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va rilevato che, nel caso di specie, il giudice di seconde cure ha compiutamente ed adeguatamente esaminato il fatto oggetto di censura, pervenendo al motivato convincimento che la conoscenza dello stato di insolvenza non poteva essere fatto risalire all’epoca dello scioglimento della cooperativa (7 marzo 2003), essendo stato tale scioglimento “disposto per motivi diversi dall’insolvenza”.

Detta conoscenza poteva farsi, di conseguenza, risalire – a parere della Corte territoriale – alla decisione del Tribunale di Ariano Irpino n. 10/2008, del 14 gennaio 2008, che aveva dichiarato lo stato di insolvenza, o – al più – alla sentenza n. 578/2006, che aveva dichiarato il fallimento della cooperativa. Per il che l’azione di responsabilità proposta in data 4 marzo 2008 doveva considerarsi senz’altro tempestiva.

4.2.2. A fronte di tale accertamento in fatto, gli esponenti – che, peraltro, non hanno dedotto neppure la violazione dell’art. 2395 c.c. – ripropongano accertamenti, del pari, a carattere fattuale (esame dei bilanci societari e delle difese svolte nel merito), circa una pretesa diversa decorrenza del termine prescrizionale, certamente preclusi in sede di legittimità.

4.3. Il mezzo deve, di conseguenza, essere disatteso.

5. Con il terzo motivo di ricorso, gli istanti denunciano la violazione del principio di non contestazione e del disposto del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

5.1. I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte d’appello – in violazione del principio di non contestazione e del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10 (applicabile ratione temporis) – non abbia tenuto conto del fatto che la difesa della (OMISSIS) non aveva contestato, nel giudizio di prime cure, l’affermazione degli odierni ricorrenti, contenuta nella comparsa di risposta, secondo cui, già dai bilanci al 31 dicembre 1997 ed al 31 dicembre 1998, si rileva la presenza di “crediti in sofferenza”, o affidati al legale per il recupero”.

5.2. La doglianza è inammissibile per difetto di autosufficienza (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

5.2.1. Va osservato, infatti, che, in virtù del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata o ha negato la non contestazione che il ricorrente pretende, rispettivamente, di negare o di affermare, atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova (Cass., 13/10/2016, n. 20367; Cass., 18/07/2007, n. 15961).

5.2.2. Nel caso concreto, i ricorrenti non hanno, per contro, riprodotto nel ricorso il contenuto della memoria di replica della controparte, D.Lgs. n. 5 del 2003, ex art. 10 nella quale la medesima non avrebbe contestato i fatti dedotti, e neppure compiutamente – almeno per quanto concerne le risultanze dei bilanci 1997 e 1998 e l’indicazione dei pretesi crediti “in sofferenza” – il contenuto della propria comparsa di costituzione, al fine di consentire alla Corte di delibare il fondamento della censura.

5.3. Il motivo – in quanto inammissibile – non può, pertanto, trovare accoglimento.

6. Con il quarto motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 191,198 e 210 c.p.c., artt. 87 e 94 disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 10 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6.1. Lamentano gli esponenti che la Corte d’appello abbia ritenuto di disporre una c.t.u. a carattere meramente esplorativo, sostitutiva della prova della quale parte attrice era onerata, stante la assoluta genericità dell’azione di responsabilità proposta nei loro confronti, del tutto carente dell’allegazione dei fatti di mala gestio ad essi imputati. Nè la consulenza potrebbe essere disposta al fine di consentire l’acquisizione di documenti che le parti abbiano omesso di produrre, nel rispetto dei termini preclusivi imposti dal codice di rito.

6.2. Il motivo è infondato.

6.2.1. Va osservato, al riguardo, che il provvedimento che dispone una consulenza tecnica di ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente sostenuto dalla necessità di risolvere questioni implicanti specifiche cognizioni tecniche (Cass., 02/03/2015, n. 4185). Ed inoltre, non essendo la consulenza tecnica di ufficio qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, perchè volta ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, essa è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (Cass., 13/03/2009, n. 6155).

6.2.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha congruamente motivato la necessità dell’accertamento peritale con riferimento: a) al carattere tecnico dell’indagine, da condurre su documentazione contabile societaria (bilanci, note integrative, ed altra documentazione contabile rilevante); b) alla necessità di determinare l’ascrivibilità della situazione di dissesto alle singole condotte di ciascun amministratore e sindaco; c) alla necessità di quantificare il pregiudizio arrecato dai medesimi al patrimonio sociale.

Quanto alla acquisizione di documenti nuovi, la doglianza difetta di autosufficienza, non avendo i ricorrenti neppure indicato di quali documenti, non ritualmente prodotti in giudizio, la Corte d’appello avrebbe autorizzato l’acquisizione da parte del c.t.u., fermo restando che l’acquisizione di documenti accessori, cioè utili a consentire una risposta più esauriente ed approfondita al quesito posto dal giudice, come – nella specie – i bilanci e le note integrative già depositati, è possibile, ai sensi dell’art. 198 c.p.c. (Cass., 02/12/2010, n. 24549; Cass., 27/04/2016, n. 8403; Cass., 03/08/2017, n. 19427), salvo che le parti non esprimano un motivato dissenso al riguardo, nella specie non risultante dagli atti.

6.3. La censura va, di conseguenza, disattesa.

7. Per tutte le ragioni esposte, il ricorso deve essere, pertanto, rigettato, con condanna in solido dei ricorrenti alle spese del presente giudizio.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna in solido i ricorrenti, in favore della controricorrente, alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 12.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2019

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