Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5229 del 21/02/2019

Cassazione civile sez. VI, 21/02/2019, (ud. 19/12/2018, dep. 21/02/2019), n.5229

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27482/2017 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei

Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

ARCOBALENO HI.FI. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al

controricorso, dall’avv. Carmine PAUDICE, presso il cui studio

legale, sito in Napoli, alla via Dei Mille, n. 16, è elettivamente

domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3965/26/2017 della Commissione tributaria

regionale della CAMPANIA, depositata il 3/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 19/12/2018 dal Consigliere Luciotti Lucio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. In controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2011, emesso a seguito del disconoscimento della detrazione IVA relativa a fatture che l’amministrazione finanziaria riteneva essere state emesse per operazioni soggettivamente inesistenti intercorse tra la società contribuente e la Parec s.r.l., con la sentenza impugnata la CTR rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, per violazione del contraddittorio endoprocedimentale, rilevando che la società contribuente aveva dedotto una serie di “argomentate e documentate contestazioni”, non meramente pretestuose, come tali idonee a superare la c.d. prova di resistenza di cui a Cass., Sez. U., n. 24823 del 2015;

2. Avverso tale statuizione l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato ad un motivo cui replica la società intimata con controricorso;

3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il motivo di ricorso la difesa erariale deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in combinato con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, con il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, nonchè con la L. n. 212 del 2000, artt. 5,6,7,10 e 12. Sostiene che aveva errato la CFR a ritenere violato l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di procedere al contraddittorio prima di emettere l’atto impositivo che aveva ad oggetto ovvero un tributo c.d. armonizzato, come tale subordinato alla c.d. prova di resistenza, ovvero alla prova che gli elementi che la parte contribuente avrebbe potuto addurre in sede di contraddittorio, come esplicitate in sede giudiziale, “potevano potenzialmente e ragionevolmente allargare il quadro istruttorio da tener presente per la decisione”, nel senso di indirizzare l’amministrazione finanziaria verso l’annullamento della pretesa erariale. In pratica, secondo la ricorrente, “anche qualora la contribuente avesse esibito in sede di contraddittorio gli allegati n. 3 e 4 (al ricorso di primo grado), ossia i pagamenti a mezzo bonifici, i documenti di trasporto la corrispondenza via e-mail, tali elementi non avrebbero potuto condurre ad evitare l’accertamento, ciò in quanto non costituenti prove idonee ex art. 115 c.p.c.” (ricorso, pag. 10).

3. Neppure è contestato tra le parti il contenuto delle “ragioni” addotte dalla società contribuente a giustificazione della veridicità delle operazioni commerciali concluse con una società interposta in una frode comunitaria, anche sotto il profilo della buona fede. Ragioni da individuarsi nella “corrispondenza dell’importo dei bonifici eseguiti con la somma riportata nelle fatture”, nel “trascorrere di alcuni giorni tra l’emissione della fattura e la data del pagamento” nelle “comunicazioni telematiche intercorse tra le parti, anche al fine di contestare danni alla merce”, nell'”avvenuto trasporto della merce a mezzo corriere, nell'”allineamento dei prezzi praticati dalla Parec sr.l. con quelli offerti da altri fornitori”, nella “irrilevanza dell’imponibile (Euro 182.480,00) se rapportato al volume di affari complessivo (Euro 31.888.726,00).

4. Ciò posto, ritiene il Collegio che il mezzo di cassazione in esame sia inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c.

4.1. Questa Corte ha reiteratamente ribadito che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura se il giudice del merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo (cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni), non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. 05/09/2006, n. 19064; Cass. 17/06/2013, n. 15107; Cass. 21/02/2018, n. 4241; Cass. 29/05/2018, n. 13395).

4.2. Nel caso di specie, premesso che spettava senz’altro alla società contribuente l’onere di superare la c.d. prova di resistenza, in ipotesi di contraddittorio non espletato dall’amministrazione finanziaria all’esito di accertamenti in materia di IVA, i giudici di appello non hanno operato un’indebita inversione di tale onere, trasferendolo sulla predetta amministrazione, ma hanno ritenuto che lo stesso fosse stato debitamente assolto dalla società contribuente. L’eventualità che la valutazione delle ragioni che quest’ultima avrebbe potuto opporre all’amministrazione finanziaria nella fase endoprocedimentale, al fine di dimostrare la correttezza del proprio operato e la propria buona fede (rilevanti ai fini della dimostrazione della veridicità delle operazioni invece contestate come soggettivamente inesistenti), sia stata incongrua e che il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata avesse assolto l’ onus probandi non integra violazione dell’art. 2697 c.c., ma soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente negli angusti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass. n. 13395 del 2018). Vizio motivazionale nella specie non dedotto e neppure deducibile anche in considerazione dell’applicabilità al caso in esame del principio della c.d. doppia conforme di cui all’art. 348-ter c.p.c.

5. 11 motivo è inammissibile anche nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c.

5.1. Questa Corte ha affermato che “In tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione” (Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 27000 del 27/12/2016, Rv. 642299).

5.2. E’ stato inoltre precisato (cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 4699 del 28/02/2018, Rv. 647432) che “La violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale”.

5.3. Questa Corte (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017, Rv. 645828) ha quindi spiegato che “è assolutamente pacifico in giurisprudenza (…) che la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1 e dell’art. 116c.p.c. solo apparentemente veicola un vizio di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, traducendosi, invece, nella denuncia di “un errore di fatto” che deve essere fatta valere attraverso il corretto paradigma normativo del vizio motivazionale, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 2707 del 12/02/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12912 del 13/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/06/2013), essendo esclusa in ogni caso una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (cfr. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014). Ineludibile corollario della precedente affermazione è che la censura di violazione delle norme processuali predette non può legittimare, evidentemente, una “trasformazione” del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica” – non più sindacabile in sede di legittimità- in un vizio di “errore di diritto” (attinente alla attività processuale), sì che il primo possa in tal modo ritornare ad essere sindacabile avanti la Corte sotto le apparenti, diverse, spoglie della violazione di norma di diritto, non essendo in ogni caso autonomamente denunciabili -attraverso la denuncia della violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1 e dell’art. 116 c.p.c. – assenti errori di “convincimento” attinenti alla preminente rilevanza attribuita a talune “questioni” od alle stesse “argomentazioni” nelle quali si estrinseca l’esercizio del potere discrezionale di apprezzamento delle prove (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 21152 del 08/10/2014), e rimanendo in ogni caso precluso nel giudizio di cassazione l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione ai fini istruttori (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015)”.

6. Conclusivamente, alla stregua delle suesposte considerazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, mentre, trattandosi di parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater (Cass., Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016, Rv. 638714).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15 per cento dei compensi ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2019

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